Ovunque,
quando mi ripetono i nomi delle montagne, per me è come una poesia letta ad
alta voce. La decisione di salire lassù l’ho presa d’istinto non appena mi
capitò di tornare in Abruzzo. Un po’ di presentazioni, qualche libro da
distribuire, un bel viaggio dagli Appennini alla costa adriatica. Una via che
potrei dire familiare, visto che dai miei vent’anni mi ha offerto con
generosità tutta la sua poesia. L’Italia del centro-sud con la sua
ruvidezza gentile, a misura d’uomo, i paesi guardiani arroccati sui monti nel
loro arcaismo senza tempo, non ha mai smesso di attrarmi. Queste dorsali
rugose, in apparenza severe eppure pronte a sguardi complici, sono
capaci d’incanto come poche altre cose.
Era
maggio, e dopo una mattinata di pioggia a tratti anche intensa arrivai a
Sulmona, benedetta da un sole abbagliante. La bianca superficie dilavata di San
Francesco, la linea metafisica dell’acquedotto romano e più sopra le montagne,
dove per tutto il tempo della mia permanenza nuvole e vento si sono alternati
sulle cime, gettando ombre tra misteriosi spiragli. Entrare in città, dopo una
lunga passeggiata dalla stazione giù per il viale alberato, e posare gli occhi
sui fianchi dell’Appennino lambiti dal tramonto. Sontuosamente scolpito in una
primavera selvatica, un monumento incoronato dai campi e dalle poche tracce di
neve non ancora dissolte in quota. Quelle striature vive, pulsanti come il
dorso di un animale sconosciuto. E le voci nelle case mentre si preparava la
cena, quasi risalite da un altro mondo, sorprese fra certi muri in rovina o in
qualche sottoscala cadente, ma per il resto silenzio. Vento e silenzio ovunque a scandire un’antica lentezza. C’era un corteo di sbandieratori adolescenti
quando sono arrivata. Il ritmo dei loro tamburi mi ha fatto da guida nei
vicoli. A suo modo fu anche quello un segnale. Non so se sia stata una mia
particolare disposizione d’animo in quei giorni ma ogni cosa, un incontro per
strada, i miei vicini di tavolo a pranzo, il saluto di qualcuno avevano i toni di un insolito presagio. Infine, girando per consegnare i miei
libri, mi son trovata davanti la porta della biblioteca comunale, chiusa:
problemi di stabilità. Mi ricordai che qualcosa di simile era accaduto anche
dalle mie parti, dopo il terremoto dell’Emilia. Una scossa arrivata di notte,
il gelo nel corpo al pensiero che là vicino, senza sapere dove di preciso, ma
vicino, era accaduto un fatto grave. Il sonno che alla fine ti riprende, per
poi svegliarti di soprassalto in cerca di notizie. Anche da me chiusero la
biblioteca, un edificio troppo antico cui quella scossa, nata a chilometri
nelle viscere della terra, aveva inferto il colpo di grazia. Fa impressione
quando a chiudere è un luogo che sta al centro della vita di una comunità.
Ricordo pure come questa esperienza abbia maturato in me la consapevolezza di
una fragilità dalla quale troppo spesso ci sentiamo svincolati.
Il
terremoto, ferita aperta, continuava in Abruzzo a incombere sul vivere quotidiano.
Davanti a quel portone sprangato, nella piazza deserta, ho sentito più forte il
richiamo verso le montagne, per quel cuore di pietra che tanta distruzione ha
dato ma pur sempre pulsante, origine di storia, fine e inizio, insolvibile legame.
Dunque,
salii all’Aquila. A piedi, intendo, dopo essermi messa su un treno della
mattina che mi ha portata sotto l’acropoli. Solo così, zaino in spalla, pochi
libri con l’intento di lasciarli a qualcuno, un piccolo gesto per scambiare un
po’ di solidarietà, esserci insomma. Perché solo così si tocca con mano ciò
che è stato, il propagarsi di quell’attimo in un assordante allora e ora,
ossessione del presente costretto a guardare indietro. Solo così, costeggiando
la strada a passo lento, si incrocia lo sguardo coi memoriali, si scendono
scale invase dai rampicanti, in punta di piedi, perlustrando vecchi giardini
dove sorgono mute case. E vicino a una chiesa, sorretta da impalcature e
puntelli, una cancellata sembrava indicare un biglietto, infilato lì di recente: un mese prima c’era stato l’anniversario e questo l’omaggio silenzioso
dei vivi ai loro morti. Leggendo, guardando le fotografie appese ai muri, quasi
col timore, indugiandovi troppo, di mancare di rispetto a qualcuno, si sente
nella pelle cosa sia una perdita, il non esserci di chi una volta è stato lì e
lì ha condiviso uno spazio e un tempo; poi all’improvviso, al suo posto,
l’assenza.
Quando
si posano i piedi in un paesaggio così devastato, che suscita ancor più
sconcerto perché era città, con la sua affollata esistenza comunitaria, la sua
sorte in bilico tra poesia urbana, ombre della storia e ansie moderne, questa
sintesi a volte dissonante e allo stesso tempo necessaria per quanti fra quei tetti stanno, scomparsa infine da un momento all’altro, ecco quando capita di
entrarci significa molto più che passare semplicemente in un luogo. È fissare
uno specchio che rimanda a una consuetudine spezzata e a coloro che non vi
prenderanno parte mai più. Una consapevolezza in lotta con un’accettazione
violenta che implica violento dolore. Uno specchio su cui non si cammina in
superficie ma dove ad ogni passo si scivola giù, corpo a corpo col vuoto di una
rovina. E arginare fisicamente il nonsenso di questa devastazione significa
scendere a patti con una forma di annientamento. Ma si può patteggiare con una
cosa che ti sovrasta ed eccede di così tanto la misura dell’umano sopportabile?
Sono salita all’Aquila in un giorno di nuvole e sole. Le braccia meccaniche delle gru si stendevano sopra le strade; masticato polvere, posato l’orecchio sul cuore dei cantieri. Otto anni dopo il terremoto, io che in Abruzzo c’ero anche in quei giorni. Sono discesa all’Aquila, forse è più giusto dire così, e ho pensato che son quasi passati dieci anni e sembra ieri. Camminato sullo specchio che mi ha fatto scendere dentro me stessa, ascesa e caduta, e sentire tutto daccapo, le pulsazioni della città fin nelle narici, gli umori, il calore dissolto, però sì, sotto quelle bende aver anche toccato, di nuovo, il risveglio di una vita.
Resistere, andare. Non so dire per quali traiettorie del destino qualche mese dopo mi son trovata ad attraversare le valli di Cuneo, i luoghi di «un paese ci vuole», l’epica struggente di Cesare Pavese che quei borghi ha cantato. L’invito a incontrare la gente della montagna, quella che lì ha vissuto, con le sue storie di resistenza e di attaccamento alle proprie radici, ruvide braccia ben piantate nella terra, assodate da stagioni tenaci, da un’idea schietta di appartenenza. Così sono andata, ad ascoltare non solo la storia di Paraloup ma anche di tutti gli altri che in quei giorni hanno disegnato la mappa, dai molti obliata, di una marginalità paesana, dalle Alpi agli Appennini. Lungo i tracciati di questa geografia dell’abbandono c’è il lavoro minuzioso di chi censisce senza pause il proprio territorio, di chi si fa narratore di genti e spazi dimenticati, di chi annota, scheda, fotografa ogni santo giorno perché sa che quegli atlanti sono un bene comune, uno strumento immersivo fra memoria e ricerca, una catalogazione che si annuncia paesaggio sentimentale.
La sera che ci siamo riuniti, in cerchio, come usava nelle vecchie cucine dei contadini davanti al fuoco, io, sì, ho seguito i discorsi di ognuno, me li ricordo anche abbastanza bene. Ma credo che una sola fosse la cosa su cui il resto faceva perno. Le mani della raccoglitrice di castagne seduta accanto a me. Mani forti e belle, con un filo di terra che correva tra unghie e falangi. Mi ricordava un compagno di classe che aveva la terra a Lari, nome gentile per frutteti e colline e antenati.
E
poi ci son salita di nuovo a Paraloup, a piedi, zaino in spalla, un paio di
bastoncini per non scivolare lungo il sentiero. Perché solo così puoi
vedere quello che è un bosco d’inverno, un tempio consacrato ai suoi silenzi,
strana vereconda creatura mentre compie la sua metamorfosi, come in attesa sul
bordo di un sogno. Solo così attribuisci un senso ai tuoi passi perché hai il
tempo di misurarli, di studiare il loro cadenzato oscillare sulla neve, perché
è soltanto quando cammini lì che ti parlano con quella voce, risoluta e
cedevole insieme. Lo spazio di quel sentiero è una strada che apri in te
stesso, fuori e dentro il mondo che ti circonda, uno sconfinamento cui ti
presti volentieri non tanto per la promessa di evasione che ti fa, quanto per
la scoperta di ciò che non sospettavi esistesse di te intorno a te. Ogni orma
non la imprimi solo nella neve, la disegni anche nella tua mente, ce la scrivi con un alfabeto solo tuo. Salire, discendere, salire
di nuovo. Resistere, andare. È così che va.
(Di Claudia Ciardi)
L'Aquila, maggio 2017
Sulmona, maggio 2017
Foto di Claudia Ciardi ©
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