Animale condannato a faticare e servire, l’asino occupa un posto d’onore nelle narrazioni letterarie dall’antichità a oggi. Fonte di scherno e dileggio, perché docilmente prende le botte senza essere capace di ribellarsi, e per questa sua cieca sottomissione tacciato di stupidità, si presta a divenire l’ottimo referente dell’ignavia umana.
Riducendosi la storia, per sua gran parte, a un’epopea di sfruttatori e sfruttati, s’intuisce la longeva fortuna di tale allegoria. Assurto a emblema di ignoranza, in quanto incapace di pensare, non è tuttavia solo destinato al disprezzo ma, in qualche caso, ispira anche un senso di pietà per la rassegnata compostezza con cui affronta la sua disgrazia.
Difficile cogliere al completo la stratificazione culturale che la figura dell’asino trascina dietro di sé. Il mito ne fa la cavalcatura di Dioniso e Sileno, raccontando che il suo raglio avrebbe messo in fuga addirittura i giganti. Da Esopo ai favolisti moderni come Jean de La Fontaine che ironizza sull’incapacità dell’animale di decidere se cibarsi prima del fieno o dell’acqua, morendo così di fame, o i fratelli Grimm che tra “i musicanti di Brema”, favola raccolta e pubblicata nel 1812, menzionano un asino, possiamo comprendere la lunga durata di una tradizione nella quale il discorso morale si alterna ai lazzi caricaturali, creando una perfetta sovrapposizione tra bestia e uomo, fino a intrecciare riflessioni sui culti religiosi in una velata cornice di esoterismo. Apuleio scrive un capolavoro al centro del quale vi è proprio la metamorfosi del protagonista Lucio in asino. Prima di riacquistare le proprie sembianze, sopporterà vicissitudini e angherie che ne metteranno a rischio la vita. Sui tanti significati dell’opera apuleiana adesso non vogliamo soffermarci. Basti riflettere sul dato che Lucio diviene esperto della vita dopo averla osservata dal punto di vista scomodo e degradante dell’asino. Lo scrittore latino inoltre inaugura il proprio racconto dichiarandosi seguace del modo “milesio”, riconducendo cioè la sua parola a quell’enorme congerie novellistica tramandata sotto il nome di Fabulae Milesiae naufragate nella loro redazione originale: «Sermone isto milesio varias fabulas conseram» (Nei modi del parlar milesio intreccerò le più varie favole). È ipotizzabile che lacerti di una simile vasta produzione contenessero indizi e quadri simbolici di una qualche affinità con il casus metamorfico trattato da Apuleio. Chissà che non vi fosse un precedente sulle peregrinazioni di un uomo che si fa asino e viceversa.
L’asino è pure responsabile della scoperta di un tradimento in una novella boccacciana (ed è probabile che il Decameron stesso sia debitore in qualcosa verso la ‘vulgata’ milesia): «Pietro di Vinciolo va a cenare altrove; la donna sua si fa venire un garzone; torna Pietro; ella il nasconde sotto una cesta da polli; Pietro dice essere stato trovato in casa d’Ercolano, con cui cenava, un giovane messovi dalla moglie; la donna biasima la moglie d’Ercolano; uno asino per isciagura pon piede in su le dita di colui che era sotto la cesta; egli grida; Pietro corre là, vedelo, cognosce lo ’nganno della moglie con la quale ultimamente rimane in concordia per la sua tristezza» (Giornata V, Novella X). Non dimentichiamo infine che Pinocchio raggiunge il paese dei balocchi dopo aver cavalcato per una notte in groppa a “un ciuchino parlante”. Per non dire della trasformazione cui vanno incontro i bambini di questa incredibile «utopica repubblica infantile», citando al riguardo Giorgio Agamben.
Nella favola qui riportata Esopo è impietoso. L’asino cede a una lamentosità che si percepisce subito come nefasta. Schiavo è e schiavo resterà, a causa della sua indole remissiva, anzi la sua condizione va necessariamente incontro al peggio, cosa che di solito accade a chi non ha mai il coraggio di prendere partito su nulla né, dunque, di opporsi a quel che ha l’unico scopo di annientarlo.
(Di Claudia Ciardi)
Lettera miniata "A", tratta dalle Metamorfosi di Apuleio (XV secolo), Bodleian Library, Oxford
«Un asino che era al servizio di un ortolano, pregava Zeus per essere liberato dal suo padrone e venduto a un altro, dato che lì mangiava poco e faticava molto. Zeus l’ascoltò e fece sì che fosse venduto ad un vasaio: ma egli fu di nuovo malcontento, perché, a portare argilla e vasellame, faticava più di prima. Supplicò quindi di cambiare nuovamente, e fu venduto a un conciapelli. Caduto così in mano d’un padrone peggiore del precedente e vedendo il mestiere che egli esercitava, sospirava e diceva: «Ahimè disgraziato! Sarebbe stato meglio che rimanessi con i padroni di prima, perché questo, vedo bene, mi concerà anche la pelle».»
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