Inizio
dagli interrogativi lasciati aperti a conclusione di questo volume. Siamo di
fronte a un cedimento strutturale del sistema, qualcosa che potrebbe essere
rivelatore di una caduta di quegli assunti, pur entrati già più volte in affanno, che
sorreggono l’economia di mercato? E ancora, non avrebbe più senso oggi parlare
di una fase di depressione, cosicché cominciando dal chiarificare quanto sta
accadendo, il tentativo di fronteggiarlo possa essere maggiormente efficace? La
seconda domanda è un’interpretazione di poco più libera rispetto a ciò su cui
s’interroga Paul Krugman, che in queste pagine si ferma qualche passo prima
della terra di nessuno. Per terra di nessuno intendo esattamente lo spazio tra
le due linee di fuoco, dove si va solo quando vengono ordinate temerarie
sortite.
L’occasione del libro è infatti la crisi del 2008, il grande crac
dell’economia mondiale – io qualche volta l’ho chiamato anche grande crash
perché quella catena di eventi produsse
una tale frantumazione a tutti i livelli – economia, società, individui – che
tuttora non è stata ricomposta, mostrando semmai la tragica tendenza a
ulteriori implosioni. Dunque, lo sguardo di Krugman si levò a caldo sulla grande esplosione, dieci anni dopo aver commentato la crisi asiatica – primo nucleo
del presente saggio – qui riletta come preludio, un banco di prova tra i più
recenti per quel che riguarda il panico finanziario e l’arrivo di una recessione, purtroppo ignorato
dagli economisti. Quando è arrivata la seconda ben più violenta tempesta nel
2008, con epicentro nei paesi occidentali, non ci eravamo attrezzati. Peggio
ancora, la tendenza ad assecondare la volubilità dei mercati, considerando
d’importanza primaria la conquista della loro fiducia, ha finito per lasciar correre politiche economiche di superficie, orientate alla guarigione
psicologica degli attori finanziari coinvolti ma trascurando la radice dei
problemi, sempre ben piantata nell’economia reale. Le cure somministrate ai paesi
asiatici colpiti dalla crisi nel 1998, al Brasile, poco dopo – a proposito del
quale si è parlato di caricatura del programma imposto all’Asia – e la Grecia,
infine – che qui non compare perché allo sfiancamento ellenico si è arrivati
attraverso un lento pluriennale stillicidio – si classifica a dire dell’autore
entro un mix di austerità e riformismo spesso fuori tema, che non ha
intercettato alcuna concreta possibilità di recupero. Laddove recupero vi è
stato, il cammino delle riforme non aveva saputo tenere il passo – dunque,
secondo quanto ci spiega Krugman, rivelando tutto il suo carattere accessorio –
mentre nei casi in cui gli obiettivi programmatici siano stati disattesi, il
panico finanziario si è autoalimentato raggiungendo velocità e proporzioni
devastanti.
Ma
qui entra di nuovo, almeno in parte, la politica. Fra il decennio di decrescita,
per cui si è coniato il termine di “crescita in depressione” che ha tenuto in
scacco il Giappone per tutti gli anni Novanta e il naufragio dei mercati
asiatici, non va trascurata la candidatura della Cina a gigante orientale con
ambizioni di divenire la prima economia del mondo. Questa enorme forza sprigionata
dall’economia cinese in un tempo relativamente breve può non solo aver
determinato squilibri regionali ed extra regionali ma ha forse spinto la Fed a
entrare a gamba tesa, predisponendo piani di austerità fiscale nei paesi
asiatici esposti, per inculcarvi, secondo il giudizio di alcuni osservatori, la
propria dottrina finanziaria. Di fatto, riguardo la
Cina, l’apertura al libero mercato si è affiancata al controllo sui capitali, ed
è la via su cui il gigante ha continuato senz’arresto a marciare. Stati Uniti
ed Europa si sono invece trovati alle prese con gli effetti deflagranti di due
bolle consecutive, l’una generata dal mercato azionario, l’altra da quello immobiliare,
venuta a sostituire la prima, protraendo l’euforia per una manciata di anni. Ma
come Paul Krugman non manca di ricordarci, tutte le bolle prima o poi
scoppiano. Quando è stato il turno di quella immobiliare legata per larga parte
ai mutui subprime, ha trascinato con sé una bella fetta di ricchezza. Qui si
rende necessaria una considerazione: nel momento in cui esplode una crisi gli
effetti sono dirompenti nella vita di milioni di persone. Disoccupazione, perdite
patrimoniali che non si potranno recuperare, incertezza circa la propria condizione,
senso di impotenza e perdita di controllo sul proprio futuro. Una parola all’apparenza
asettica, segnata dal suo richiamo tecnico, implica così tante drammatiche
conseguenze nel destino di quelli che incontra sulla sua strada. Allo stesso
tempo Krugman illustra molto efficacemente che non è semplice, per chi si ritrova
coinvolto, comprendere nell’immediatezza tutte le implicazioni e le ricadute
del fenomeno. Ciò spiegherebbe anche perché allo stato attuale delle cose in Europa non riusciamo a dare una lettura salda e univoca della lunga recessione
che ci ha investiti, spesso anzi sentendo difendere la posizione di chi mette
in dubbio perfino l’esistenza di una dinamica recessiva.
E
siccome tra i pregi di questo libro c’è l’analisi basata sulla concatenazione
degli eventi, cosa che manca desolatamente nella maggior parte delle letture pre
e post crisi, veniamo alla Brexit prima della Brexit. Proprio così. Nel 1990 l’Inghilterra
aveva aderito allo SME, il sistema monetario europeo, un sistema di tassi di
cambio fissi concepito come fase intermedia che avrebbe condotto all’euro.
Tuttavia oltremanica ci si rese presto conto che la politica monetaria verso
cui si era obbligati non risultava più compatibile con i propri obiettivi. Era in
corso infatti una profonda recessione e il malcontento popolare si stava
diffondendo. L’Inghilterra si trasse fuori dagli impegni, provvedendo a
svalutare la sterlina. La decrescita si volse in opportunità. Questa storia ci
insegna fra l’altro che occorre giovarsi di una certa libertà di manovra,
se si vogliono risolvere i problemi.
La
crisi che ci è piombata addosso e che stiamo tuttora attraversando somiglia a
una traversata in un mare inesplorato alla ricerca di un passaggio. È un
insieme di situazioni pregresse e anche un fenomeno che genera di continuo
nuovi scenari. In egual misura a quanto avvenne durante la crisi dei “trust” di
New York nel 1907, anche nel caso attuale un circuito parabancario cresciuto in
maniera ipertrofica e sfuggito al controllo – oppure lasciato prosperare perché
a certuni faceva comodo così – ha finito per squilibrare il sistema. Il consolidamento
della globalizzazione finanziaria ha decuplicato gli effetti a catena innescati
dai crolli. Lo shock ha polverizzato la fiducia e ridotto drasticamente le
linee di credito – i soldi si prestano ora con maggiore difficoltà, le aziende
che non beneficiano del rating più elevato in termini di affidabilità pagano
tassi di interesse più alti rispetto a quanto avveniva prima della crisi. Ecco,
nelle parole di Krugman, la sintesi di questo disastro: «Mi verrebbe da dire
che la crisi non ha alcun punto di contatto con ciò che abbiamo visto in
precedenza. Ma sarebbe più esatto dire che è molto simile a tutto ciò che
abbiamo visto in precedenza, però tutto insieme: l’implosione di una bolla
immobiliare paragonabile a quella che si è creata in Giappone alla fine degli
anni Ottanta: un’ondata di corse agli sportelli paragonabile a quelle dei primi
anni Trenta (che ha coinvolto il sistema bancario-ombra, anziché le banche
convenzionali); un grosso problema di liquidità negli Stati Uniti, analogo a
quello che si era già presentato in Giappone; e ultimamente una discontinuità
dei flussi internazionali di capitale e un’ondata di crisi valutarie fin troppo
simile a quella che si è avuta in Asia alla fine degli anni Novanta».
E
noi, abbiamo sviluppato nel frattempo qualche antidoto? No. Anzi, continuiamo affatto
raramente ad avere persino problemi nell’ammettere la natura di questa crisi,
che non ha un volto solo ed appare sempre di più come un organismo adattabile e
resistente. Eppure, ci sussurra l’autore, quello delle recessioni è un tema carico
di significati, che molto potrebbe istruirci sulle strategie di contenimento di
breve e lungo termine. Allora torniamo al punto di partenza. C’è forse qualcosa
nel sistema che sarebbe arrivato a un punto di non ritorno? Qualcosa che fino
al decennio scorso ci sembrava inossidabile e che invece ha smesso d’un tratto
di funzionare? Occorre ripensare il modello e, più ancora, la struttura al cui
interno opera questo modello?
Paul
Krugman afferma che la ripartenza consista nel riaccendere il motore dell’occupazione. In
scia alla sintesi keynesiana, dice una cosa giustissima. Bene, lo sosteneva
però più di dieci anni fa. È un fatto che in tutto questo tempo il mercato del
lavoro, toccando dei vertici negativi nei paesi mediterranei, non è ripartito
come ci si aspettava. Dei quattro fattori che garantiscono il funzionamento
economico – terra, capitale, impresa, lavoro – proprio quest’ultimo sembra accusare
una debolezza senza precedenti. Neppure vendendo
gratuitamente o quasi le proprie competenze si riesce a rientrare in un
mercato sconsolatamente piatto, privo di scossoni, a corto di idee ed entusiasmo.
L’automazione, l’informatizzazione, sommate a un drastico calo degli
investimenti hanno forse saturato una richiesta di manodopera necessaria solo fino
a poco fa? Non è questo un indicatore inequivocabile che ci troviamo di fronte
a una svolta? Se a ciò aggiungiamo l’inefficacia della politica monetaria,
qualche dubbio viene. Lascio ancora dire a Krugman: «La recessione del
1981-1982, che ha spinto il tasso di disoccupazione sopra il 10%, è stata
pesantissima; ma era più o meno frutto di una scelta deliberata: la Fed
perseguiva una politica monetaria molto rigida per disinnescare l’inflazione, e
nel momento in cui ha stabilito che l’economia aveva sofferto abbastanza, il
suo presidente, Paul Volcker, ha allentato la stretta e l’economia è tornata a
correre. La devastazione economica si è trasformata in una “nuova alba” per
l’America con una rapidità impressionante. Questa volta, per contro, l’economia
ristagna nonostante i ripetuti sforzi messi in atto dalle autorità monetarie
per farla ripartire. Questa impotenza della politica monetaria ricorda da
vicino ciò che è avvenuto in Giappone negli anni Novanta. Ma ricorda anche le
vicende degli anni Trenta. In questo momento non siamo ancora in depressione, e
nonostante tutto io non credo che andremo incontro a una depressione (anche se
non ne sono del tutto sicuro). Siamo però in presenza di una tipica economia
della depressione».
Di
fronte a una caduta così esplicita e prolungata della domanda, anche i più
fervidi paladini del libero mercato saranno obbligati a prendere atto che sta
venendo meno uno dei presupposti basilari per cui appunto il libero mercato
trova la sua ragion d’essere. Come per il libro di Marco Revelli sulla crisi –
analisi la sua di taglio sociale, che prendeva in esame la povertà crescente e
i pericoli per la coesione e la tenuta democratica – anche qui ci fermiamo sulla soglia degli eventi. Due letture per certi versi
contigue che buttano lo sguardo appena dopo il grande crollo finanziario del
decennio scorso. E adesso?
L’impressione
è che siamo già molto oltre le colonne d’Ercole. Ma ci ostiniamo a voler
navigare un mare sconosciuto con le vecchie carte. Bisogna dedurre dalle mappe già
disegnate l’informazione utile a evitare pericoli già noti o altri possibili
che potrebbero sopravvenire, senza pretendere che sappiano dirci di più; del
resto non potrebbero farlo. Occorre invece avere il coraggio di tracciare la
nuova rotta.
(Di
Claudia Ciardi)
Edizione consultata:
Paul
Krugman, Il ritorno dell’economia della depressione e la crisi del 2008,
Garzanti 2009 [edizione ampliata e aggiornata su quella del 1999]
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