Riconosciuta dall’Unesco “Urbs picta”, Padova, che festeggia anche gli ottocento
anni del proprio ateneo, sta vivendo un momento di grazia, premiata
dall’affetto dei turisti. Le riaperture hanno spinto presenze, iniziative, voglia
di riscoprire le sterminate ricchezze della città. Un abbraccio che questa
Firenze del Veneto si merita alla grande. L’arte a Padova si respira proprio
dappertutto, direi che è uno stato d’animo del luogo, e si sente subito appena
ci si incammina per le strade, ancor prima di aver raggiunto il centro. Dalla sconfinata bellezza delle collezioni civiche alla meraviglia della Cappella degli
Scrovegni, ai segni dell’arte di strada, cosicché un architrave
dipinto o un manifesto con uno strano Giotto nei panni di rapper o rocker,
che sembra seguirci con lo sguardo mentre imbocchiamo una viuzza del ghetto, riconducono
alla medesima immagine del mondo, offrendosi come appartenenze di uno stesso
crocevia culturale. È come se un’unica pulsazione governasse ogni traccia umana
e del tempo, dalle più lontane alle più recenti, come se ogni angolo si
rianimasse in questo gioco di specchi, in questo magnifico rovesciamento dove
vale tutto e tutto trova la sua necessità. Dal memoriale ai caduti di guerra,
che conserva anche i resti dei quasi mille padovani uccisi nei bombardamenti
della seconda guerra mondiale, tempio ad alta densità emotiva, alla dimensione
più lieve e conviviale dell’andare in visita, si attraversano mille sfumature,
in senso cromatico, sì, ma latamente.
Ecco
che in un’imitazione di Klimt sulla saracinesca abbassata di una bottega è pur
vivo un rimando sentimentale ai vetri dipinti riaffiorati dalle necropoli – i
vetri antichi più eccentrici, intatti, “moderni” che mi sia capitato di vedere
– esposti nelle teche degli Eremitani. Sono due universi paralleli, in teoria
lontanissimi fra loro, ma a Padova, no; dialogano, s’intendono a
meraviglia, seducono. Estrosa ed elegante, il suo patrimonio diffuso lascia
senza fiato. Il concetto di arte ovunque è una formula ambiziosa che sta
aprendo a ulteriori vie d’espressione e interessanti commistioni, premiata dal
crescente apprezzamento dei visitatori. E torniamo per un attimo davanti agli
Eremitani dove ci si sente proprio al centro del mondo. All’ingresso del museo
capita di incontrare appassionati d’arte di ogni latitudine; ci si intrattiene
contemporaneamente in italiano, inglese, portoghese, tedesco. Ma che culla
magnifica e che bel gruppo di persone all’accoglienza! Per non dire della pinacoteca,
scrigno nello scrigno, con oltre cinquecento opere può considerarsi fra le più
imponenti della regione: dalle icone veneto-bizantine a Giotto e Tiziano e poi
la sala con gli spettacolari arcangeli appesi, immersi nel buio, che osservano
il visitatore dall’alto. Apparizioni di un altro regno.
Infine,
come non menzionare quello che Marco Goldin, capofila di un bel progetto nel
circuito espositivo padovano, sta producendo al centro culturale Altinate.
Nella mostra che si è chiusa a giugno ha portato i capolavori dalla Fondazione
Oskar Reinhart, pitture incredibili che documentano da scorci poco noti le
metamorfosi dell’idea di paesaggio nell’Ottocento. Né mi è sembrato casuale incrociare
un simile percorso e la personalissima scrittura di Goldin sulle cose d’arte in
un momento in cui io stessa stavo lavorando alla ricerca di un mio linguaggio
fra letteratura e pittura, nel tentativo di gettare un ponte tra queste due sponde
che tante connessioni hanno generato e altrettante ce ne porgono.
Per
l’appunto, il titolo di cui Padova si fregia dallo scorso anno, è la perfetta
sintesi in parole del suo genius loci.
(Di
Claudia Ciardi)
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27 luglio 2022
Urbs picta
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14 maggio 2016
Metropole Berlin (II)
La copertina del bel volume dell’editrice Schacht, che Walter mi ha venduto a prezzo irrisorio, e il mio taccuino dei disegni made in Via del Vento.
La commistione etnica, se da una parte è il carattere principale delle metropoli, negli ultimi anni ha assunto a Berlino, porta di molti orienti, nuove cadenze, e in alcune rughe della città rivela ora il vero volto di quell’esotismo tedesco vagheggiato da poeti e studiosi all’inizio del Novecento.
Tra le strade di Gesundbrunnen, nel contrasto delle sue geometrie irregolari livellate dai grandi boulevard liberty, tra la nota fisionomia dei chioschi e l’indolente trascuratezza delle pollerie arabe, cresce questo doppio sogno, riflesso di due personalità parallele. Una collisione che va saturando rapidamente ogni zona franca del luogo, o che si illude di essere stata tale. Perché a Berlino, più di altrove, pochissimo, quasi nulla è rimasto fermo, e anche la memoria si è dovuta adattare alla continua metamorfosi.
Da un po’ di tempo tutto sembra sotto assedio, le periferie si espandono ma spingono anche sul cuore della città, ognuno sembra impegnato a difendere la propria idea di spazio percorrendo un’estrema quanto improbabile via di riscatto. Del resto, questa convivenza di uomini e cose sbattuti in mezzo al traffico e al cemento, le più volte esita in conflitto ma può anche spiazzare per le sue insospettabili alleanze. L’aggirarsi di una simile tensione forgia i caratteri e raddoppia gli orizzonti del fare quotidiano. Forse, anzi, è l’attrattiva maggiore dei contesti metropolitani, che sono in prima battuta degli enormi accumulatori di energia, e perciò possono permettersi di dissiparla con altrettanta, se non più disinvolta leggerezza.
C’è dunque da un lato il dinamismo berlinese e dall’altro la sua fatiscenza da ghetto. Di tanto in tanto si notano portoni sistemati alla buona, catene che hanno fatto la ruggine, fil di ferro, chiodi piantati su tavolacci sconnessi, baluardi che con le loro cicatrici si sono battuti per difendere il diritto di un passato, incline ancora a raccontarsi. Qui si impara che la vera incuria, talvolta, non è l’abbandono ma un accanimento, assai più selvaggio, a regolare e uniformare lo spazio.
Capita di scendere nelle braccia di Caronte come nella pace dei boschi. E anche l’umanità che vi si aggira riflette questa stessa condizione indecifrabile e sospesa. S’incontrano tipi bardati di fez, signorine che alle otto di mattina salgono in treno e lì finiscono di truccarsi, sbandati, vecchiette che masticano acciacchi e bestemmie. Anche quando ci si crede al sicuro per aver scelto un cammino che senza devianze ci porti al lavoro, non è mai detta l’ultima parola. L’imprevisto è sempre dietro l’angolo, questione di attimi.
È su simili scivolosi tracciati che la libreria di Walter mi apparve anni fa come un’insenatura gentile, un occhio sonnolento che di tanto in tanto si apriva nel ritmo vorticante di Schöneberg. Da allora, ogni volta che mi si è presentata l’occasione, non ho smesso di fargli visita. Ecco, se siete stanchi del lungo girovagare in metropoli, il mio invito è a entrare in una di queste oasi della carta stampata e riprendere fiato. Non resterete delusi, in quanto il libraio a Berlino è un’istituzione, al pari degli autisti dei treni o dei panettieri. Come in un romanzo, si tratta di quei personaggi chiave che accompagnano la trama e fanno sentire meno soli i protagonisti, non di rado finendo per rubare loro la scena.
Un carrettino dipinto di bianco, parcheggiato sul marciapiede, un’insegna all’antica, una vetrina dimessa da cui si invitano i passanti a gettare uno sguardo sulle rarità. Walter è un uomo mingherlino sulla cinquantina, dai modi educati ma senza affettazione. Sta sempre seduto dietro il suo bancone-scrivania a leggere o catalogare i nuovi arrivi. Ha una spiccata passione per la fotografia in bianco e nero, motivo delle mie assidue peregrinazioni; ritengo infatti possa vantare alcuni degli album più belli dedicati alla città prima della distruzione nella seconda guerra mondiale.
Quando ci si chiude alle spalle la porta a vetri, il caos scompare e s’infrange nell’ambiente ovattato delle scaffalature, immerso in una semioscurità rotta soltanto dalla lampada da tavolo del proprietario. Che fuori ci sia il sole o piova a dirotto, lì dentro la luce non cambia mai. È un tempo fisso quello che Walter offre a chi lo cerca. Il suo stesso modo di parlare ne è una prova tangibile. Una soccorrevole sorpresa per il visitatore che intenda affacciarsi su un’altra città, distanziandosi per qualche momento da quel martellare seducente della superficie che tanto ha da narrare ma dove non è escluso che ci si smarrisca.
(Di Claudia Ciardi)
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20 aprile 2015
Giacomo Leopardi, «Questa città che non finisce mai»
Un Leopardi ventiquattrenne esce per la prima volta dalla natia Recanati e va ad abitare dagli zii materni a Roma, dove resterà per sei mesi. L’impatto con la grande città, per la quale da sempre si struggono artisti, intellettuali e ricchi rampolli europei, ha su di lui risvolti quasi traumatici. La cocente delusione di fronte al provincialismo romano e alla dissipatezza dei suoi abitanti scaccia l'inquietudine recanatese, che tanto lo aveva fatto dannare, e lascia un vuoto spaventoso. Il mondo esterno ha tradito malamente le sue aspettative. Da quel punto in poi sa che nessuna corrispondenza potrà più attuarsi tra lui e gli altri. Quella debolissima idea di preservare in qualche misura la propria interiorità trovando una via di conciliazione, un equilibrio con le necessità del vivere, sfuma in maniera così repentina che il giovane poeta stenta a ritrovarsi.
E in ciò lo affligge un dubbio ancora più insopportabile, che anche gli altri versino in una condizione di stordimento e assoluta indifferenza simile alla sua, che la loro esistenza nella grande città sia il frutto di un clamoroso equivoco, di un volgare baratto a seguito del quale ogni germe di sensibilità è stato annientato per sempre.
Casa Antici, un palazzone cinquecentesco progettato da Carlo Maderno, in cui Leopardi occupa una stanza d’angolo al terzo piano, impone la sua mole ai vicoli del ghetto. È il simbolo di quella monumentale sproporzione che il poeta attribuisce senza troppi riguardi all’architettura romana, il cui effetto sui visitatori sarebbe di una scacchiera fabbricata per un gioco tra giganti dove tuttavia i pezzi mantengono le dimensioni abituali. Il risultato è l’impossibilità di cogliere e godere a pieno la bellezza dell’antico, il passante la intuisce solamente, il suo sguardo viene provocato ma non ci si sofferma. In altre parole l’arte che riempie Roma non determina nel frastornato Leopardi nessuno slancio emotivo. Le lettere scritte alla famiglia in quei mesi di semicattività attestano l’avvilimento per tale stato d’animo. Sono soprattutto gli sfoghi destinati al fratello Carlo a rivelarci meglio il profondo disagio vissuto per le vie di Roma: «E delle gran cose che io vedo, non provo il menomo piacere, perché conosco che sono maravigliose, ma non lo sento». La città è faticosa, il lastricato mette a dura prova le sue gambe deboli, l’inverno è duro, i geloni lo tormentano, e lui alla fin fine non è proprio camminatore, la salute glielo impedisce; tuttavia non può sottrarsi alla vita in società, alle visite di rappresentanza, ai pranzi e ai colloqui cui lo trascinano i compiti e allo stesso tempo disordinatissimi Antici.
Gli zii riflettono perfettamente tutte le incongruenze romane. Somigliano a delle bambole di pezza, fanno tutto per noia, e da ogni appuntamento tornano annoiati del doppio; soffrono di ipocondria, litigano senza sosta, mancano di riservatezza – parlano sempre davanti alla servitù anche di questioni privatissime – a tavola danno spettacolo, contendendosi bocconi, regalandosi dispetti, facendo del ridicolo chiacchiericcio. Minutezze pantagrueliche registrate da un nipote geniale che, per quanto infastidito dalla situazione in cui si trova, mostra un’impareggiabile lucidità nel raccontarcela.
L’immensità di Roma, la città «che non finisce mai», è il ritratto della sua inafferrabilità. «Queste fabbriche immense, e queste strade per conseguenza interminabili, sono tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d’essere spazi che contengano uomini». Leopardi ragiona per la prima volta sugli inconvenienti dello stabilirsi in un luogo troppo grande, dove i rapporti umani necessariamente arrancano, dove solo a prezzo di un’enorme fatica si può prender parte a una cerchia se non di affetti almeno di confidenti, perché il luogo, eccedendo in estensione, contamina chi lo abita e comunica a tutte le cose la sua sconvolgente proprietà dispersiva. Ancora una volta è Carlo il destinatario di una delle più raffinate riflessioni su questa irrisolvibile dicotomia; laddove l’uomo ha bisogno di essere rassicurato, anche e soprattutto nei suoi limiti, da ciò che lo circonda, in uno spazio che continuamente sfugge alla sua comprensione non potrà che sentirsi estraneo, e lontano perfino da se stesso: «L’uomo non può assolutamente vivere in una grande sfera, perché la sua forza o la facoltà di rapporto è limitata. In una piccola città ci possiamo annoiare, ma alla fine i rapporti dell’uomo all’uomo e alle cose, esistono, perché la sfera de’ medesimi rapporti è ristretta e proporzionata alla natura umana. In una grande città l’uomo vive senza nessunissimo rapporto a quello che lo circonda, perché la sfera è così grande, che l’individuo non la può riempire, non la può sentire intorno a sé, e quindi non v’ha nessun punto di contatto fra essa e lui. Da questo potete congetturare quanto maggiore e più terribile sia la noia che si prova in una grande città, di quella che si prova nelle città piccole: giacché l’indifferenza, quell’orribile passione, anzi spassione, dell’uomo, ha veramente e necessariamente la sua principal sede nelle città grandi, cioè nelle società molto estese. La facoltà sensitiva dell’uomo, in questi luoghi si limita al solo vedere. Questa è l’unica sensazione degl’individui, che non si riflette in verun modo nell’interno».
Pensava di venire a Roma e trovare la propria strada, mentre per sei mesi è costretto a orientarsi in un labirinto la cui tortuosità, oltre a estendersi nello spazio, moltiplica a dismisura le distanze tra le persone. Trionfo di scena del miglior Piranesi, ma qui nulla è concesso all’immaginazione. È tutto spaventosamente reale. Il sottosuolo corre così vicino alla superficie da sovvertirla di continuo. Sotto e sopra, dentro e fuori si confondono e si annullano. Qualsiasi tentativo di bloccarli in una descrizione, di trarli a sé perché divengano materia poetica è inutile. Possono solo alimentare gli sfoghi improvvisi di una lettera, nulla più. Unico prodigio, la visita al sepolcro del Tasso, luogo autentico dove si fa largo la commozione.
Il resto è solo un umiliante andirivieni, perché Leopardi è venuto in città in cerca di un incarico, ma la sua tempra si rivela da subito inadatta ai maneggi romani e ogni scalata nella società è destinata al fallimento. In apparenza è un giovane con le idee poco chiare, mentre dagli accenti dell’epistolario dimostra di conoscere bene le proprie inclinazioni e di leggere alla perfezione quelle degli altri. Non si aspetta nulla anche da quanti gli manifestano cortesia in nome della sua origine familiare e dei rapporti personali col padre Monaldo. Sollecitato a stendere perorazioni di ogni tipo, Leopardi esegue piuttosto docilmente ma col distacco di chi sa che non rimedierà mai un impiego nello Stato. Roma prende via via la sua forma sgraziata fatta di pettegolezzi, di vacuità sulle carriere dei prelati, di spregiudicatezze femminili, di insulsaggini letterarie – l’erudizione regna sovrana – dove «tutti pretendono d’arrivare all’immortalità in carrozza come i cattivi cristiani in paradiso».
Ma Carlo e Paolina, quest’ultima soprattutto, seguitano a smaniare per la grande città così che il disincanto con cui il loro sensibilissimo fratello gliela racconta si trova a vibrare di una forza tutta particolare, cozzando con gli umori e le aspettative non solo dei suoi intimi ma di un’intera epoca. È un fratello pieno di premure, occupato a consolare la giovane Paolina dalle proprie pene d’amore. Nei mesi romani Leopardi cerca di sbrogliare la faccenda di un matrimonio per procura col Cavalier Marini ma anche questo affare stenta. In una lettera a Giordani narra di come un altro tentativo sia andato a monte, avendo il vecchio e brutto pretendente promesso dei denari che non possedeva. La sua scrittura è sempre estremamente franca, non abbellisce nulla né gira intorno alle vicende.
I toni grotteschi o caricaturali come anche quelli più alti, dove si affaccia un sé più malinconico e sommesso, convivono senza stridere e, dopo circa due secoli, spiccano per la loro vivacità e anche perché affatto superata è la materia di cui ci parlano.
Roma è ancora così, un corpo ormai febbricitante, patria di molte delusioni e perdizioni, afflitta da convulsioni e molteplici sconvolgimenti. La sua monumentalità dissolve ogni giorno senza che ci facciamo caso.
(Di Claudia Ciardi)
Giacomo Leopardi,
Questa città che non finisce mai. Lettere da Roma,
Con un saggio di Emanuele Trevi,
Utet extra, 2014
Euro 5,00
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2 novembre 2014
Jason Lutes - Berlin. La città delle pietre
L’espressione viene da un feuilleton di Joseph Roth uscito su «Das Tagebuch» nel 1930. Ma la città di pietra è prima di tutto il titolo di un libro, chiamato in causa da Roth proprio nel suo pezzo, scritto da Werner Hegemann e pubblicato da Gustav Kiepenheuer. Questa premessa, forse un po’ pedante, su chi ha citato per primo chi, serve più che altro a capire quanto Jason Lutes si sia mosso con scrupolosità da filologo nella costruzione delle sue tavole su Weimar. Ciò che gli ha permesso di firmare una storia non solo estremamente articolata ma anche rigorosa dal punto di vista del ritratto sociale e dello scavo psicologico dei personaggi. Siamo di fronte a un vero e proprio romanzo a fumetti, un’opera corale suddivisa in due volumi, narrazione storica di vasto respiro della quale Lutes si fa pioniere e interprete, mantenendo per l’intero racconto una freschezza di tratto e un’attenzione al dettaglio che gli sono valse meritati riconoscimenti in diverse parti del mondo.
Il periodo è quello tormentato della Repubblica di Weimar alle sue ultime battute (dal settembre 1928 al primo maggio 1929), quando i segnali di cedimento si fanno sempre più scoperti. È la Berlino dei sussulti politici, la metropoli dei grandi assembramenti, dal traffico ai comizi operai, ma anche lo spazio dove si aprono improvvise zone di solitudine, tagli astratti in un organismo pieno zeppo di illusioni.
Un’atmosfera catturata dal continuo andirivieni della matita di Lutes che segue i suoi protagonisti dalla strada al chiuso delle loro stanze, dalla concitazione delle attività cui sono intenti allo straniamento delle ore notturne. E tuttavia proprio la notte si popola di sogni, a volte incubi, di incontri, confessioni, immaginazioni, di finestre aperte su vie deserte lungo i binari, e surreali distese innevate che nessuno calpesta.
Le fonti del disegnatore sono innumerevoli, sia lo si è detto, per quanto riguarda il versante testuale, sia per il complesso bagaglio grafico. Si coglie tra gli altri più di uno spunto dal “diario” berlinese di Masereel, almeno nella rappresentazione per così dire filmica degli scorci metropolitani, e più ancora nel dialogo lirico tra architetture e passanti. In effetti proprio il Mein Stundenbuch dello xilografo espressionista è un’altra citazione importante che Lutes non si lascia sfuggire, quando si sofferma sulla caratterizzazione dell’Accademia d’arte. Marthe Müller è una giovane corsista che ha lasciato Colonia per andare a studiare nella capitale. La sua è una fuga dall’oppressione paterna e dalla scelta obbligata di sposarsi. Sul treno diretto in città incontra Kurt Severing, giornalista per «Die Weltbühne», la testata di Carl von Ossietzky, che sarà poi perseguitato dai nazisti. Severing è un uomo galante ma deluso dalla vita. La sua situazione – una ex dalla quale non ha avuto figli e con cui il rapporto è finito senza un motivo preciso – e la consapevolezza che dietro le crescenti tensioni sociali si prepara qualcosa di fosco, ne fanno una strana mescolanza di cinismo ma anche voglia di ritrovare una complicità che percepisce come essenziale alla sua sopravvivenza. Marthe, delusa a sua volta dalla promessa di successo e emancipazione della grande città, per ragioni più o meno complementari, ne diviene l’amante. Questo binomio, sfondo al denso corteo di fatti e figure che con disinvoltura si dipana dalla penna di Lutes, per un verso funge da contraltare alla complessa vicenda weimariana – il messaggio è che alla fine pur nella difficoltà dei tempi, il sorgere spontaneo di un sentimento è qualcosa si inarrestabile e confortante – dall’altro rischia di peccare di qualche ingenuità proprio nei modi in cui il rapporto si costruisce. Dopo appena una settimana di lavoro ai magazzini Wertheim per provare a cavarsela da sola, Marthe decide che la cosa non fa per lei, casualmente ritrova nella tasca del cappotto il biglietto da visita di Severing, bussa al suo appartamento la notte di Natale, un calice di vino, finiscono a letto, lui provvede subito a pagarle l’affitto arretrato: fin troppo facile. Certi luoghi comuni sarebbe stato meglio lasciali fuori della porta, se non altro perché stridono non poco con le violenze e gli enormi problemi economici disegnati attorno alla coppia. In mezzo vi sono infatti le commemorazioni del 9 novembre 1918, le riunioni dell’Internazionale comunista, il ricordo dell’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, l’esistenza ghettizzata di operai ridotti alla fame, invalidi di guerra costretti all’accattonaggio, immigrati ebrei che vivono di espedienti e soffrono la discriminazione, pestaggi molto duri tra manifestanti che chiedono lavoro e poliziotti con l’ordine di sfollare.
Sono i tanti volti di un’emarginazione che Lutes fa affiorare con delicatezza dalle sue pagine, comparse legate a non più di una manciata di tavole, che subito cedono il passo al ritratto di altri, salvo poi essere recuperati insieme, in dialoghi dove la sorte individuale si intreccia sempre e comunque alle istanze sociali. Degni di nota anche certi assoli nei quali i protagonisti sono en face col paesaggio, quasi dei fermi immagine che creano repentini squarci nel vortice degli eventi, lasciando la trama come sospesa.
Ognuna di queste apparizioni è tracciata con accuratezza ed è in buona sintonia con le principali corde su cui balla la storia tedesca del Novecento. Temi a lungo dibattuti che in molti casi presentano nodi ancora da sciogliere.
La prima parte del racconto si conclude con il corteo della festa dei lavoratori, la carica “a freddo” della polizia che irrompe tra i manifestanti e che, dopo aver seminato il panico, apre il fuoco. Epilogo pendente sulla vicenda già dal suo avvio, per quelle ombre che Severing definisce “presentimenti” e che dal treno non lo mollano fino all’arrivo a Berlino, ma soprattutto per quelle essenze mute e larvali, vaganti da un portone all’altro, da una piazza all’altra, con le loro aspirazioni e il loro carico di incertezze, che improvvisamente si sentono svegliate dalla storia e chiamate a prendervi parte.
(Di Claudia Ciardi)
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4 gennaio 2014
August Sander - Antlitz der Zeit
August Sander im Siebengebirge um 1941
(Forse pensando a Caspar David Friedrich)
A partire dalla metà dell’Ottocento la fotografia acquista un ruolo sempre più importante, aiutando lo studio dell’uomo e delle sue abitudini. L’impiego di questo mezzo infatti, quasi per naturale predisposizione, si accompagna agli sviluppi della nascente antropologia, di cui le Società francese e tedesca erano allora le più autorevoli esponenti, dettando non a caso il metodo per la realizzazione del ritratto scientifico. All’inizio del XX secolo si assiste a un interessante mutamento della figura del fotografo antropologico che va svincolandosi dal suo compito di documentarista e inizia a coltivare in maniera autonoma alcuni aspetti più creativi insiti nel meccanismo di riproduzione delle immagini. La prima guerra mondiale è stata un banco di prova assolutamente peculiare anche per i fotografi. Non solo professionisti, incaricati di mappare il territorio o immortalare i reparti ma anche ufficiali che di loro spontanea iniziativa hanno portato con sé le apparecchiature per documentare l’esperienza in prima linea.
Nascono così, nell’affollato trentennio che unisce due guerre spaventose e le tragedie dei molti e dei singoli da esse generate, talenti come Edward Curtis, famoso per gli scatti dedicati agli indiani d’America, Roman Vishniac, russo di origini, fotografo della Germania del ’20 e dal 1935, su incarico di un ente umanitario ebraico, della vita nei ghetti, August Sander, ‘biografo’ delle diverse classi sociali tedesche a partire dalla fine dell’Ottocento e soprattutto celebre narratore delle tante ombre che assediavano i volti dei suoi connazionali nel periodo weimariano. Kodak, Brownie, Rolleiflex e Leica sono tra le prime macchine portatili che ci hanno raccontato il turbolento e drammatico passaggio dalla Belle Époque alla seconda guerra mondiale.
Roman Vishniac, People behind bars - Berlin Zoo, early 1930s ©
August Sander - Beggar (mendicante), 1926 ©
«Il mio primo incontro con la fotografia avvenne nel 1890, in un'epoca in cui il kitsch e la degradazione del gusto erano ancora al loro apogeo. Per me, come per tutti quelli che non ne avevano mai avuto, il primo apparecchio fotografico appariva come una scatola magica. […]
I primi negativi che stampai mi procurarono una gioia immensa, più stemperata per i miei familiari i quali trovarono che le rughe dei volti erano poco estetiche e creavano dei brutti effetti. Era come dire che la fotografia di un dilettante non ritoccata non poteva equivalere alle fotografie di pessimo gusto dei fotografi professionisti dell'epoca».
Queste riflessioni di August Sander (1876-1964) non solo esprimono tutto l’entusiasmo di un giovane ragazzo cresciuto nel bacino minerario di Herdorf (Siegerland), che trova proprio negli abitanti della borgata industriale i soggetti dei suoi primi scatti, ma tradiscono anche l’insoddisfazione per certe mode che rischiano di inchiodare la fotografia a vacui e inservibili clichés.
Sembra di riascoltare qui le parole che Roth affidò a un feuilleton del 1929 nel quale ragionava della maggiore empatia che si respirerebbe nelle vecchie fotografie in contrapposizione alla freddezza che assedia i ‘nuovi’ ritratti.
È dunque chiara, fin dall’inizio, in Sander la volontà di fare della fotografia una professione ma ancor più un’arte nella quale la ricerca di verità e poesia permettono di dipanare quel filo sottile di memorie che unisce le generazioni, contribuendo alla storia di un paese.
Nel tempo resterà fedele ai volti che ne avevano tenuto a battesimo gli esordi. La sua predilezione andrà alla strada, agli sguardi di accattoni, reduci, invalidi, disoccupati, girovaghi, artisti del circo, gente ai margini che volutamente ‘fa sfilare’ accanto a ordinati ritratti di borghesi e impeccabili divise. Un silenzioso dialogo, un accostamento perfino irriverente, agli occhi di molti, da cui traspare la devozione sincera di Sander per gli ultimi.
Dopo l’esperienza come fotografo militare nel reggimento di fanteria di stanza a Treviri (1897-1899), si impiega nello stabilimento fotografico Greif a Linz, dove il suo nome inizia a circolare fuori dalla ristretta cerchia della sua clientela. Questo gli permette di esporre con successo i suoi lavori, riuscendo a segnalarsi con la medaglia d’oro all’Esposizione Internazionale di Arti Decorative di Parigi. Nel 1910 si trasferisce a Colonia, da quel momento in poi sua città adottiva, inaugurandovi il proprio atelier.
Parlando della sua carriera e delle fonti di ispirazione dei soggetti via via rappresentati, come nel caso della raccolta Uomini del XX secolo, più volte Sander indugerà sull’infanzia e l’adolescenza, su quel microcosmo acerbo e arcaico che aveva contribuito alle sue prime impressioni sul mondo.
«Ma è nel mio paesetto del Westerwald che sono nati i personaggi della cartella. Queste persone delle quali io conoscevo le abitudini fin dall'infanzia mi sembravano, anche per il loro legame con la natura, designati apposta per incarnare la mia idea di archetipo. La prima pietra era così posta, e il tipo originale servì da referente per tutti quelli che ho trovato in seguito per illustrare nella loro molteplicità le qualità dell'universale umano».
La fedeltà alle origini intride tutta la sua poetica e comporta scelte non allineate col gusto estetico del tempo. I visi scavati dei suoi contadini, gli operai fiaccati da massacranti turni di lavoro, i suoi storpi e acrobati non hanno nulla a che fare con i canoni della bellezza ariana propagandati dal regime. Sander ci mostra una Germania in bilico tra arretratezza e progresso, una nazione afflitta da fragilità mascherate da prove di forza ma perciò tanto più vera e commovente, molto più disponibile a raccontare se stessa nei suoi primi piani di quanto non lo fosse sui cartelloni pubblicitari e nelle martellanti campagne d’immagine pianificate dal potere.
(Di Claudia Ciardi)
August Sander - Circus Artists, 1926 ©
August Sander photographiert Deutsche Menschen Published in 1959 which includes 46 portraits with text, from the series "project Menschen des 20. Jahrhunderts (20th-century people) including a text about August Sanders himself. All in Dutch.
The magazine DU a Swiss publication was founded in 1941 and still running today.
The name August Sander (1867-1964) is famous for the extensive series of portraits from the project Menschen des 20. Jahrhunderts (20th-century people). With this extensive collection, Sander attempted to portray all walks of life in the first half of 20th-century Germany.
Source: DU MAGAZINE 225 | November 1959
During military service, August Sander was an assistant in a photographic studio in Trier; he then spent the following two years working in various studios elsewhere. By 1904 he had opened his own studio in Linz, Austria, where he met with success. He moved to a suburb of Cologne in 1909 and soon began to photograph the rural farmers nearby. Around three years later Sander abandoned his urban studio in favor of photographing in the field, finding subjects along the roads he traveled by bicycle.
"Man of the Twentieth Century" was Sander's monumental, lifelong photographic project to document the people of his native Westerwald, near Cologne. Stating that "[w]e know that people are formed by the light and air, by their inherited traits, and their actions. We can tell from appearance the work someone does or does not do; we can read in his face whether he is happy or troubled," Sander photographed subjects from all walks of life and created a typological catalogue of more than six hundred photographs of the German people. Although the Nazis banned the portraits in the 1930s because the subjects did not adhere to the ideal Aryan type, Sander continued to make photographs. After 1934 his work turned increasingly to nature and architectural studies.
Source: Getty.edu
August Sander - Circus Artist (portrait), 1926 ©
Bibliography:
August Sander: Photographs from the J. Paul Getty Museum
August Sander
Getty Publications, 2000
The long life of German photographer August Sander (1876-1964) spanned one of the most turbulent eras in his country's history. The Great War of 1914-1918, the Weimar Republic, the reign of National Socialism, and the horrors of World War II all left an indelible imprint on both the man and his work. Sander, a conventional studio portraitist who transformed himself into an avant-gardist, exemplified the complex and sometimes contradictory nature of his time.
The Photography of Crisis: The Photo Essays of Weimar Germany
Daniel H. Magilow
Penn State Press, 2012
The Photography of Crisis examines narrative photography and creates a snapshot of where Germany was after World War I and what it would become with the rise of National Socialism. By reading Weimar photo essays within their historical and literary context, Daniel Magilow shows how German photographers intervened in modernity's key political and philosophical debates regarding the changing notions of nature, culture, personal identity, and national identity.
August Sander. Uomini del ventesimo secolo
August Sander, Alfred Döblin
Abscondita, 2012
Il volume, che contiene anche un saggio di Alfred Döblin, raccoglie sessanta ritratti in bianco e nero scattati da Sander tra il 1905 e il 1929.
Links:
Moma Collection
Extensive Sander's photo gallery on Amber online
August Sander – Portfolio
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29 gennaio 2013
Giorni della memoria - Tage der Erinnerung
«Nell'Uomo di Kiev (1960) dell'ebreo americano Bernard Malamud, Yakov Bok, il misero tuttofare in cerca di fortuna che lascia lo shtetl, trova nel mondo, a Kiev, la trappola esistenziale e i patimenti più atroci. Appena partito, Yakov si trova inghiottito nel nulla, perduto in un'invalicabile lontananza kafkiana e sommerso da nevicate immaginarie. "Se fossi rimasto nello shtetl...": nel carcere, nella fame, nelle torture ritorna come un fantasma il dubbioso interrogativo. "Se fossi rimasto nello shtetl non sarebbe mai successo... Una volta che te ne vai, sei fuori all'aperto: piove e nevica. Nevica storia. Tutti siamo nella storia, questo è sicuro, ma alcuni ci sono dentro di più degli altri. Gli ebrei, più della maggioranza. Se nevica, non tutti sono fuori a bagnarsi ... [...] Con meno storia in giro si potrebbe passar via, o attraversarla: sembra pioggia, ma c'è il sole"».
Claudio Magris, Lontano da dove
IL DUPLICE TRAMONTO
Lo sterminio degli ebrei e la pulizia etnica dei tedeschi dall’Europa centro-orientale
Il Centro Studi sulla Storia dell’Europa Orientale e la Biblioteca Austriaca organizzano a Trento, mercoledì 30 gennaio, alle ore 17,30, nella Sala degli affreschi della Biblioteca comunale (Via Roma 55), l’incontro-dibattito Il duplice tramonto. Lo sterminio degli ebrei e la pulizia etnica dei tedeschi dall’Europa centro-orientale. Interviene Fernando Orlandi. Introduce Massimo Libardi.
Con l’incontro-dibattito Il duplice tramonto. Lo sterminio degli ebrei e la pulizia etnica dei tedeschi dall’Europa centro-orientale prosegue il ciclo di incontri “Narrare la storia. Il Novecento nella letteratura tedesca”, organizzato dal Centro Studi sulla Storia dell’Europa Orientale con la collaborazione della Biblioteca Austriaca.
Gli ebrei dell’est, gli Ostjuden, incarnavano il carattere transnazionale, la disorganicità e l’irrequietezza che definiva la Mitteleuropa rispetto agli stati nazionali. Erano inoltre gli unici a riconoscere in una lingua, lo yiddish, e non in un territorio, l’elemento fondamentale della loro identità. Proprio questo rapporto tra comunità e lingua riveste una notevole importanza nel definire la complessa identità dello spazio mitteleuropeo. Tra Otto e Novecento il tedesco si afferma come una sorta di lingua franca delle molteplici comunità, ben oltre i confini dello stesso impero asburgico e di quelli del Reich tedesco. Non si sostituisce alle lingue nazionali, ma convive accanto a lingue e culture diverse: Elias Canetti e Gregor von Rezzori hanno dato un mirabile quadro di questo intreccio. Il tedesco inoltre costituiva la lingua colta praticata in molte comunità ebraiche dalla Polonia alla Boemia, dalla Bulgaria alla Romania e per un tragico paradosso l’Olocausto inferse un colpo mortale a questa vitalità transnazionale del tedesco.
Per molti intellettuali ebrei era infatti proprio la lingua tedesca a rappresentare il Mutterland, neologismo coniato da Rose Ausländer come fusione di Muttersprache e Vaterland. Di sé Elias Canetti scrisse “io sono solo un ospite della lingua tedesca”, e nel primo volume della sua autobiografia narra come nella natale Rustschuk, cittadina bulgara sul Danubio oggi Ruse, si potessero ascoltare nel corso della giornata “sette o otto lingue” e di come lui abbia scelto il tedesco come lingua in cui abitare. Anche dopo il 1945 Canetti scriverà: “La lingua del mio spirito continuerà a essere il tedesco, e precisamente perché sono ebreo”. Sono queste, parole che se esprimono il profondo legame degli ebrei con la lingua e la cultura tedesca dall’altra parte indicano una lacerazione che non sarà più ricomposta, quella per cui la propria lingua madre è diventata la lingua degli assassini.
Lo sterminio degli ebrei cancellò questo mondo. L’ebraismo orientale, e più in generale gli ebrei, sono stati spesso accusati di passività per non avere fatto resistenza all’internamento nei ghetti. Ma episodi di resistenza si sono avuti, e la rivolta del Ghetto di Varsavia è uno dei momenti più alti di questa resistenza. Uno dei libri più inquietanti su questa rivolta e lo sterminio degli ebrei è Il canto del popolo ebraico massacrato di Yitzhak Katzenelson, davanti al quale, ha scritto Primo Levi, “ogni lettore non può che arrestarsi turbato e reverente”. Protetto e nascosto da alcuni amici, Katzenelson, assieme al figlio maggiore, grazie al passaporto straniero di cui era entrato in possesso, nel maggio 1943 viene trasferito da Varsavia alla residenza coatta di Vittel, in Francia. La moglie e gli altri due figli invece erano già stati deportati a Treblinka. In Francia Katzenelson tiene un diario, ma soprattutto scrive Il canto, monumento funebre agli ebrei d’Europa. Per precauzione, come peraltro faceva chi cercava di preservare la memoria degli avvenimenti, nasconde i manoscritti in contenitori di latta, poi sepolti.
Sulle deportazioni operate dai nazisti molto conosciamo, al punto che lo stesso termine deportazione è stato associato pressoché esclusivamente all’invio nei campi di concentramento e in quelli di sterminio del Terzo Reich. Ma mentre la Seconda guerra mondiale stava terminando e soprattutto dopo la sua cessazione, ad essere vittime furono le popolazioni germanofone dell’Europa centro-orientale. Non si trattava di nazisti, ma indiscriminatamente vennero colpiti tutti i Volksdeutsche, popolazioni germanofone che si erano insediate in quei territori da secoli, a partire dalla Ostsiedlung, la colonizzazione della parte orientale dell’Europa, attuata dai popoli germanici nel medioevo: una grande migrazione, nel corso della quale i tedeschi fondarono insediamenti nelle regioni meno popolate dell’Europa centro-orientale e orientale. Nel 1945 saranno vittime di una grande pulizia etnica, deportazioni accompagnate da ogni sorta di brutalità (rapine, stupri, omicidi), un esodo forzato nel corso del quale perirono milioni di persone.
Da Vittel, dove forse sarebbe riuscito a espatriare, Katzenelson viene deportato ad Auschwitz, e qui troverà la morte. Terminata la guerra, Miriam Novitch, che lo aveva aiutato a nascondere i suoi scritti, li disseppellisce e così Il canto viene subito pubblicato: “Ahimé, non c’è più nessuno... c’era un popolo, era non c’è più... c’era un popolo... e ora è scomparso!”. La fine della Seconda guerra mondiale segna così un duplice tramonto: quello delle culture degli Ostjuden e dei Volksdeutsche: “O sciocco goy, hai sparato all’ebreo ma la pallottola ha colpito anche te”.
(di Fernando Orlandi e Massimo Libardi)
Walter Benjamin Memorial
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