22 aprile 2022

Canzone - Poesia medioevale e canzone popolare

 


Henry Holiday, Dante incontra Beatrice al Ponte Santa Trinita, 1883

Ecco una lezione appassionante per i ragazzi che unisce poesia e musica. Leggere dei versi ad alta voce non è infatti quasi cantare? Peraltro la lingua italiana addita inequivocabilmente la contiguità di questi due mondi. Canto è l’italiano letterario colto per indicare una composizione poetica. Così come canzone è sia l’antica forma metrica medioevale – peraltro originariamente musicata – sia la moderna scrittura alla base della canzone popolare italiana, imprescindibile dalla melodia che l’accompagna, in cui cioè il testo è comunicato agli ascoltatori come forma cantata.
La “canzone”, al pari del sonetto, è una delle pietre angolari fra le strutture metriche fisse della nostra tradizione poetica in quanto, pur nella molteplicità della sue forme ed espressioni, è una presenza fissa dalle origini fino alle rivoluzioni metriche che si insinuano tra Ottocento e Novecento (con i primi esperimenti in versi liberi). Una sorta di terreno di prova per ogni poeta che aspirasse ad essere riconosciuto come tale, almeno fino a Carducci e D’Annunzio. Alla longevità e importanza della canzone ha contribuito anche la sua natura estremamente prolifica, essendo capostipite di numerosi altri generi quali l’ode pindarica, la canzone-ode e l’ode-canzonetta, tutte risalenti al periodo cinquecentesco-rinascimentale, e la canzone libera, che in Italia seguirà l’esempio magistrale della lirica leopardiana. Giacomo Leopardi volle infatti consapevolmente farsi innovatore, essendo convinto che anche la poesia, al pari di qualsiasi altra manifestazione del sapere e dell’arte umana, avesse necessità di svilupparsi superando gli schemi tradizionali. La grandezza di Dante non sta forse, oltre che nel suo indubbio talento naturale e nella vastissima cultura da lui assimilata, nell’aver osato, nell’essersi spinto per primo al di là di ciò che i canoni del dire poetico avevano stabilito fino a quel punto? E poi, nel suo caso, il prodigio di aver avuto tra le mani – e nelle orecchie – una lingua in evoluzione, l’italiano volgare, un magma incredibile che riuniva latino tardo, greco, provenzale, catalano, persiano… Ma questo ancora non avrebbe significato nulla. Lui disse, ora io scrivo la mia grande opera e siccome dev’essere grande bisogna che rompa gli argini, voglio rompere con tutto. E quindi, non un poema latino né provenzale – le due grandi culle letterarie alle quali il suo tempo faceva riferimento – ma un’epica nuova, in una forma metrica d’invenzione e nella nostra lingua in divenire, di cui volle esser fabbro come fabbri erano stati i suoi maestri, ognuno nella propria epoca e per la propria cultura. In questa scelta, in questa fuga verso il mare aperto, nella volontà di tentare qualcosa di intentato sta il capolavoro nascente e la grande lezione che Dante ci ha consegnato.

Dunque, se ai nostri giorni, lo si diceva all’inizio, la parola ha esteso notevolmente la sua sfera semantica (unendo la forma poetica alla scrittura musicale), nell’ambito specifico della metrica italiana “canzone” è un componimento identificabile in maniera abbastanza chiara e precisa; si tratta infatti di una struttura poetica composta da un numero variabile di stanze (dalle cinque alle sette) di endecasillabi e settenari (anche quinari, nella poesia delle origini), cui si aggiunge un “congedo”, cioè una stanza più breve e dalla funzione conclusiva. Questo modello, detto “canzone antica” o “canzone petrarchesca”, è quello più noto ed autorevole, in quanto codificato dalla pratica di Dante Alighieri (che dedica all’argomento anche alcuni passi del suo De Vulgari Eloquentia) e quindi dai Rerum vulgarium fragmenta di Francesco Petrarca, fondanti la tradizione – non solo per la poesia in italiano volgare – per almeno un paio di secoli.
La cosiddetta stanza di canzone, che potremmo assimilare a un gruppo strofico in cui si sviluppa il tema prescelto, declinato secondo diverse cadenze, si può dividere in due piedi (chiamati anche “fronte” e il cui numero varia da due a sei, salvo che l’ordinamento dei versi si ripeta costante) e una sirma, composta anch’essa da un numero variabile di versi e per lo più indivisibile (ma ci sono casi di “sirme” divise in due “volte” speculari) e con alcuni elementi caratteristici, come un distico finale a rima baciata. Chiude il congedo, che si modella sullo schema di versi (endecasillabi e settenari) degli ultimi tre versi della stanza che lo precede, e ha uno schema di rime a sé (come peraltro capita ad ogni stanza di canzone, che ha rime diverse da quella precedente).

La prima stanza di Donne ch’avete intelletto d’amore (canzone di soli endecasillabi) è il classico esempio di stanza con due piedi e una sirma indivisibile, con schema di rime ABBC ABBC CDDCEE:

    (I piede)

    Donne ch’avete intelletto d’amore,

    i’ vo’ con voi de la mia donna dire,

    non perch’io creda sua laude finire,

    ma ragionar per isfogar la mente.

 

    (II piede)

    Io dico che pensando il suo valore,

    amor sì dolce mi si fa sentire,

    che s’io allora non perdessi ardire,

    farei parlando innamorar la gente:

 

    (sirma)         

    E io non vo’ parlar sì altamente,

    ch’io divenisse per temenza vile;

    ma tratterò del suo stato gentile

    a respetto di lei leggeramente,

    donne e donzelle amorose, con vui,

    ché non è cosa da parlarne altrui.

 

E come non ricordare il musico Casella (pistoiese o fiorentino non è dato sapere con precisione) attivo nella seconda metà del Duecento, di cui lo stesso Dante ci parla nel Canto II del Purgatorio. Gli antichi commentatori del poema lo descrivono come un compositore molto apprezzato e grande amico del poeta fiorentino. Nel codice Vaticano 3214 si trova il suo nome in calce a un madrigale di Lemmo da Pistoia, altro poeta duecentesco, che recita: Casella sonum dedit (lo musicò Casella, il che risulterebbe coerente con la scena della Commedia). Qui infatti si trova fra le anime dei penitenti che scendono dalla barca dell’angelo nocchiero sulla spiaggia del Purgatorio (II, 76 ss.). Il musico spiega all’amico poeta, stupito di vederlo lì a tanto tempo dalla sua morte, che l’angelo raccoglie sulla sua barca chi sceglie lui secondo il volere divino, ma da tre mesi (dal Giubileo indetto nell’anno 1300) ha fatto salire tutti coloro che ne hanno fatto richiesta. Quindi Dante prega Casella di confortarlo dalle fatiche del viaggio e subito il musicista intona Amor che ne la mente mi ragiona, oggetto di commento nel III Trattato del Convivio. La dolcezza del canto rapisce tutti gli astanti, ma d’improvviso giunge Catone che li rimprovera aspramente, accusandoli di pigrizia ed esortandoli a correre al monte per iniziare a purificarsi.
Si tratta di un episodio emblematico sul rapporto tra musica e canzone che accompagna fin dalle origini questo genere letterario, nonché è innegabile il valore storico della testimonianza circa l’attività dei cosiddetti musici al fianco dei letterati in epoca medioevale.

E ora, in questo nostro breve excursus, vediamo cosa accade quando uno dei grandi cantautori italiani, affacciandosi nell’alveo delle tessiture e rotture cui abbiamo accennato poco fa a proposito delle dinamiche creative, prende una canzone e per la precisione una forma metrica derivata, mettiamo una canzonetta della scuola siciliana, la tradizione di riferimento per tutti i letterati italiani e dunque anche per la nascente scuola fiorentina, quest
ultima, lo si è detto, con capofila Dante e Petrarca. Mettiamo Meravigliosa-mente di Giacomo (o Jacopo) da Lentini, il notaro dellimperatore Federico II, e facciamo in modo che s’incontri con due “Casella” odierni, Lucio Dalla e Samuele Bersani.

Meravigliosa-mente

Meravigliosa-mente

       un amor mi distringe,

       e mi tene ad ogn’ora.

       Com’om, che pone mente

5        in altro exemplo pinge

       la simile pintura,

       così, bella, facc’eo,

       che ’nfra lo core meo

       porto la tua figura.

10        In cor par ch’eo vi porti,

       pinta come parete,

       e non pare difore.

       O Deo, co’ mi par forte

       non so se lo sapete,

15        con’ v’amo di bon core;

       ch’eo son sì vergognoso

       ca pur vi guardo ascoso,

       e non vi mostro amore.

       Avendo gran disio,

20        dipinsi una pintura,

       bella, voi simigliante,

       e quando voi non vio

       guardo ’n quella figura,

       e par ch’eo v’aggia davante;

25        come quello che crede

       salvarsi per sua fede,

       ancor non veggia inante.

       Al cor m’arde una doglia,

       com’ om che ten lo foco

30        a lo suo seno ascoso,

       e quanto più lo ’nvoglia,

       allora arde più loco,

       non pò star incluso:

       similemente eo ardo,

35        quando pass’e non guardo

       a voi, vis’ amoroso.

       S’eo guardo, quando passo,

       inver’ voi no mi giro,

       bella, per risguardare;

40        andando, ad ogni passo

       getto un gran sospiro

       ca facemi ancosciare;

       e certo bene ancoscio,

       c’a pena mi conoscio,

45        tanto bella mi pare.

       Assai v’aggio laudato,

       madonna, in tutte parti,

       di bellezze c’avete.

       Non so se v’è contato

50        ch’eo lo faccia per arti,

       che voi pur v’ascondete:

       sacciatelo per singa

       zo ch’eo no dico a linga,

       quando voi mi vedite.

55        Canzonetta novella,

       va’ canta nuova cosa;

       lèvati da maitino

       davanti a la più bella,

       fiore d’ogn’amorosa,

60        bionda più c’auro fino:

       “Lo vostro amor, ch’è caro,

       donatelo al Notaro

       ch’è nato da Lentino”.

 

Canzone


Non so aspettarti più di tanto

ogni minuto mi dà

l’istinto di cucire il tempo

e di portarti di qua

ho un materasso di parole

scritte apposta per te

e ti direi spegni la luce

che il cielo c’è


Non si vive

(Stare senza di lei)

Mi uccide

Testa dura testa di rapa

vorrei amarti anche qua

nel cesso di una discoteca

o sopra al tavolo di un bar

o stare nudi in mezzo a un campo

a sentirsi addosso il vento

io non chiedo più di tanto

anche se muoio son contento

Non si vive

(stare senza di lei)

mi uccide

Canzone cercala se puoi

dille che non mi perda mai

va’ per le strade e tra la gente

diglielo veramente

 
Io i miei occhi dai tuoi occhi

non li staccherei mai

e adesso anzi io me li mangio

tanto tu non lo sai (non lo sai, non lo sai)

occhi di mare senza scogli

il mare sbatte su di me

che ho sempre fatto solo sbagli

ma uno sbaglio poi cosè

Non si vive

(stare senza di lei)

mi uccide

 
Canzone cercala se puoi

dille che non mi lasci mai

va’ per le strade e tra la gente

diglielo dolcemente

 
E come lacrime la pioggia

mi ricorda la sua faccia

io la vedo in ogni goccia

che mi cade sulla giacca

Non si vive

(stare senza di lei)

mi uccide


Canzone trovala se puoi

dille che l’amo e se lo vuoi

va’ per le strade e tra la gente

diglielo veramente

non può restare indifferente

e se rimane indifferente

non è lei


Non si vive

(stare senza di lei)

mi uccide


Non si vive

(stare senza di lei)

mi uccide
 

Come dicevamo. Spesso la canzone si conclude con una stanza diversa dalle altre, detta congedo (o commiato), dove il poeta si rivolge alla sua stessa canzone, invitandola a diffondere il proprio messaggio fra gli ascoltatori e i lettori. Lucio Dalla (e i musici che lo hanno affiancato in questo esperimento) ha qui padroneggiato perfettamente tali meccanismi – già il titolo da lui scelto è più che programmatico – e ci ha fatto riaffiorare un pezzo coltissimo della nostra tradizione poetica in una forma sorprendentemente vicina, lieve, spontanea.
Quali magnifici fabbri del parlar materno! A noi non resta che onorarli leggendo e cantando. Magari aiuta anche a esorcizzare ciò che in questo momento scuote la vita e ci fa dimenticare di quanto sia preziosa e di quanto noi abbiamo il compito di celebrarla e adornarla sempre di leggerezza e bellezza.

 
(Di Claudia Ciardi)

8 aprile 2022

Largo ai creativi!

 

Berndnaut Smilde - Nuvola

Nei disastri e dissesti che scuotono il nostro tempo, l’invito a valorizzare i creativi potrebbe suonare quasi velleitario. In un’ottica conservatrice di vecchie categorie forse sì. Ma nei ribaltamenti dell’oggi, con gli scenari estremamente instabili che ne conseguono, potrebbe darsi invece come la via d’uscita a molti dei nostri problemi. Una via coraggiosa, che implica certamente la rottura di tanti schemi – cosa ormai inevitabile ma che trova ancora altrettanti attriti – e che potrebbe finalmente liberare quelle energie latenti nella società la cui entrata in circolo segnerebbe un rinnovamento dell’organismo e un significativo cambio d’impostazione. Quale inafferrabile utopia, eppure direi, quale migliore e più sicura strada da percorrere se ci teniamo davvero a risolvere i conflitti e le contraddizioni di un periodo storico che si ostina a riproporre e contrapporre – anche violentemente – schemi superati, se vogliamo piuttosto provare a rimescolare le carte. Se lo vogliamo… 
Secondo stime rese note nel 2021, il 4 % del pil mondiale va perso a causa delle calamità naturali. Questo è già indicativo di come l’andare incontro a situazioni di divario, povertà endemica, mancanza di risorse primarie non sembri scuoterci più di tanto. Proseguiamo in difetto, osserviamo ingigantirsi il problema delle migrazioni e dell’impoverimento collettivo, senza mettere in discussione niente o quasi dei nostri massimi sistemi. Anche il mondo del lavoro risente, è chiaro, di dinamiche entrate in affanno secondo il metro dell
ufficialità o, sempre secondo quel metro, di mancanza di dinamiche. La lunga stagnazione, che i più anziani si ostinano a non vedere – ma non è solo un difetto mentale dei meno giovani, purtroppo – come anche le sempre più frequenti fibrillazioni del mercato, andrebbero affrontate con minore rigidità. Si parla sempre di formazione, questa grande chimera, ma quale poi? Il rilascio delle risorse in ambito culturale è vittima di condizionamenti di ogni tipo, lo stesso lavoro culturale, specie in Italia, fatica a godere di un riconoscimento degno, appena ci si muove in ambiti paralleli, meno istituzionalizzati o che non lo sono affatto. Eppure, proprio per le difficoltà che si vanno palesando, ci sarebbe bisogno di un coinvolgimento più ampio, di una formazione quasi permanente – una formazione capillare, vera, non strumentale a qualche centro di potere o via dicendo.
Keynes aveva previsto molto bene gli effetti della cosiddetta “technological unemployment”, ossia la disoccupazione generata dalla crescente automazione. Un periodo transitorio, a suo dire, ma destinato a un impatto sociale rilevante. A tale proposito la Rai – dunque non una rete clandestina, ma la tv di Stato – qualche mese fa aveva trasmesso un interessante documentario sugli effetti dell’automazione in alcuni paesi del mondo: Germania, Canada, Giappone, Cina. Latitudini e culture diverse ma una problematica comune ed estesa. Quanto alle risposte, sono ancora estremamente incerte, soprattutto in occidente, mentre l’oriente sembra essersi preparato con maggior tempismo al salto tecnologico, anche per ciò che riguarda le conseguenze sociali (la Cina soprattutto).
Un esempio. In Ontario è stato condotto il primo esperimento di reddito universale su un gruppo eterogeneo di persone con bagagli culturali e professionali differenti. Queste persone non avrebbero avuto alcuna effettiva possibilità di ricollocarsi nel mondo del lavoro. Se una banca decide di tagliare il suo organico, seguendo un piano di ristrutturazione pluriennale, lo taglierà, senza che si generino ulteriori posti
men che meno quindi aspettative di lavoro e creando un problema di disoccupazione in coloro che vengono messi alla porta. Il risultato dell’esperimento canadese mostrava come i cittadini selezionati, aiutati a sostenersi economicamente e liberati dal disagio psicologico del vedersi sostanzialmente rifiutati dal contesto sociale, liberavano energie creative. Qualcuno ha investito buona parte del proprio reddito in percorsi formativi scelti in autonomia – dunque corsi non calati dall’alto ma cercati in proprio e meglio tarati sulle attitudini individuali, in base a obiettivi professionali aggiornati, fuori da schemi obsoleti che, diciamolo ancora una volta, non producono nuove idee.
Purtroppo con il cambio di governo, l’esperimento è stato interrotto. Chiaro, vale ciò che si è detto sopra. I politici che si sono avvicendati hanno ritenuto quel capitolo un inutile esercizio di welfare, tanto più che il problema occupazionale sarebbe un qualcosa di ciclicamente inerente al capitalismo. Non un evento che per estensione finora non si era mai visto, pur nelle cicliche crisi capitaliste; come in questo caso. E ad ogni modo, fosse anche un episodio, nelle attuali società complesse sempre più scandite dall’innovazione tecnologica si richiederebbe affrontarlo con strumenti appropriati, aggiornati per l’appunto.
Torniamo quindi alla domanda iniziale. A fronte di simili scossoni, quali orientamenti vogliamo seguire? Cito da alcuni studiosi che hanno osservato le dinamiche del lavoro durante i lockdown dettati dalla pandemia, concentrandosi proprio sugli aspetti della produttività creativa. Intanto una definizione generale. Se è vero che la creatività è difficile da misurare, da indicizzare, la professoressa Teresa Amabile della Harvard Business School, esperta in questo tipo di attività, ha così dichiarato: «Spesso quando parliamo di creatività intendiamo la produzione di idee nuove, ma non solo, anche appropriate, quindi utili e corrette. In fisica un’idea non può essere considerata creativa se non funziona. Ma nell’arte dovremmo usare parametri completamente diversi». Infatti, parametri diversi per reclutare le capacità umane nel settore produttivo, per una società che necessariamente avrà da muoversi su scale di valori mutate. Se da un lato le macchine si fanno carico dei compiti più ripetitivi, dall’altro la creatività è chiamata a svolgere un ruolo fondamentale sul mercato. Dunque, i creativi producono ricchezza. Oggi, ciò che fa la differenza è saper essere versatili, cucire scampoli di cultura pur fra loro non immediatamente contigui e da quelli produrre idee (e quando l’idea incontra il capitale diventa innovazione, cioè innesca un ciclo economico di più o meno larga portata).
Alf Rehn, professore di innovazione, design e management alla University of Southern Denmark, ha affrontato il tema dei milioni di persone che in piena pandemia si sono trovate a gestire il lavoro da casa, avendo i figli vicini e che dei figli si sono dovute occupare nel medesimo ambiente, un unico spazio domestico-lavorativo senza soluzione di continuità. Ciò ha comportato in molti casi una perdita qualitativa nel lavoro prodotto. Le distrazioni e preoccupazioni familiari del momento hanno forse contribuito in larga parte a questo calo. Ma prosegue lo studioso «trovarsi di fronte a qualcosa che aiuti il distacco dal proprio lavoro di routine potrebbe ispirare nuove idee». Cosa valida anche per chi ha vissuto la propria attività diversamente, senza incombenze stringenti generate dalla propria sfera affettiva. Se la solitudine potrebbe essere interpretata come mancanza di interazione che tendenzialmente non giova al lavoratore, si può anche ipotizzare che in questa condizione di isolamento qualcuno abbia beneficiato di una concentrazione che prima non aveva. Insomma, la risposta agli eventi che coinvolgono l
essere umano, non è mai univoca in quanto univoco non è l’uomo.
E c’è ancora un messaggio beneaugurante nella lettura di Rehn, attualizzato se vogliamo allo scenario che purtroppo dalla pandemia ci sta proiettando in un conflitto a tinte fosche, in cui si giocherà un nuovo bilanciamento di forze e, direi, di visioni del mondo.
Il professore ha spiegato che spesso la creatività viene influenzata maggiormente da fattori diversi rispetto al semplice luogo di lavoro, che non va celebrato o demonizzato: «Nulla garantisce che chi non è creativo lavorando da casa lo sia se tornasse in ufficio dall’oggi al domani. Anche lo stress per la crisi economica, la possibile perdita del posto di lavoro, le restrizioni sociali di questa fase storica ostacolano naturalmente la creatività e non dipendono dal luogo». […] «Nessuno dice che sia facile, ma l’uomo ha creato fantastiche opere d’arte e nuove aziende durante le guerre più atroci. La speranza è che dalla pandemia possiamo trarre un importante insegnamento: la consapevolezza che la creatività è un duro lavoro».
Mi sento di aggiungere che è proprio in momenti di pesante cesura e sradicamento, che certo causano enorme sofferenza e nessuno si sogna di sostenere il contrario, ebbene, proprio in questo pathei-mathos su vasta scala, avviene quel vitale scorrimento di energie che permette appunto alla vita di procedere, di trovare i modi per preservarsi. Allora, si tratta di avere più coraggio nel valorizzare chi abbiamo intorno. Ci sono persone che hanno miniere di bellezza dentro di sé, e talenti e capacità, pur non avendo beneficiato di percorsi ritenuti lineari o istituzionalizzati o funzionali a compagini di potere. Ma a questo punto conta ancora qualcosa? Nei disastri che incombono e che già ci mostrano i movimenti profondi in atto nel nostro tessuto sociale (guardiamo ad esempio al vistoso calo delle immatricolazioni universitarie), se aspettiamo la regolarità di una vita per ritenere quella vita reclutabile in un progetto, ci ritroveremo a contare sulle dita di una mano
i prescelti. Questo è il momento di liberare le energie creative nascoste nei nostri organismi sociali. Multidisciplinarità, capacità di adattamento, versatilità, curiosità, esseri umani vivi, dubitanti, pensanti. Voglia di rimescolare le carte, di rovesciare le sorti, di squadernare (che modernità in questo verbo dantesco; «Nel suo profondo vidi che s’interna,/ legato con amore in un volume,/ ciò che per l’universo si squaderna», Paradiso, XXXIII, 85-87). Sono questi i veri atti rivoluzionari che bisogna avere il coraggio di compiere.
Qualcuno potrebbe obiettare che è un po’ come inseguire le nuvole mentre c’è un terremoto. E perché no? Perché non provarci? Non di rado le vere svolte vengono proprio dall’aver immaginato le cose più improbabili.

 
(Di Claudia Ciardi)

 

Rimandi:

Per il documentario a cui mi riferisco nell’articolo si veda:

Progetto scienza verso il futuro - in onda su Rai Scuola del 31 ottobre 2021

A cura di Chiara Buratti.  

Titolo del documentario in oggetto: Robot intelligenti, automazione, sostituzione del lavoro. Una transizione che aveva previsto l'economista Keynes.


Per dettagliati approfondimenti su Keynes e l’automazione si vedano i dettagliati articoli di «Futuri Magazine»

 

 

Dalla mia bacheca «Vissi d'arte»
 

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