Egbert Lievensz van der Poel, Esplosione della polveriera a Delft, 12 ottobre 1654 - Eseguito tra il 1654 e il 1660
È passata appena una
settimana. Gli eventi hanno subito una tale accelerazione che ogni settimana il
mondo si rovescia, ogni sette giorni sembra compiere un giro di un anno. In
questo pendolo tutto si consuma a una velocità folle. Anzi, se fino a poco prima
era velocità, adesso è voracità. I versi dell’Achmatova che tante volte ho
recitato dentro di me e in cui negli scorsi anni sentivo un profetismo non
lontano, non eluso né superato nella mia vita, adesso mi stanno davanti come inaccessibili
contrafforti. Immagini di carestia, la violenza che si abbatte ovunque come una
scure, l’ora grave di un destino cui non ci si può opporre. E il canto della
poetessa che tutto vorrebbe esorcizzare, che piange e ama mentre ogni cosa sta
crollando intorno a lei. Ci sentivo il destino di un paese che prima o poi
avremmo incrociato, ci sentivo un’anima del tempo non placata che veniva ad
additare qualcosa.
Ma noi infine non abbiamo voluto vedere, non abbiamo voluto sentire. Hitler il pazzo,
Putin il pazzo. Non abbiamo voluto leggere, capire, ascoltare. Non abbiamo
fatto niente, ma gli affari sì, perché il denaro doveva correre comunque. E le
vie del denaro sono sempre quelle. Ci si è nascosti dietro un’ideologia (o più di una, secondo il comodo) e
intanto si sono andati a trattare affari a certi tavoli; la globalizzazione
questo è, tutto e il contrario di tutto. Il liberale che dice illiberale
all’altro e poi lo sposa e poi lo nega e poi…
Dopo il bagno di sangue a
Majdan, magari più di una riflessione andava fatta. Ma cos’è la vita delle
persone dentro i grandi interessi? Cosa sono le persone? Com’è suonato il
richiamo di Henry Kissinger, uomo che la guerra l’ha vissuta sul fronte
tedesco, giovane interprete per gli Americani? Un uomo che siccome sapeva, pur agendo
da difensore della propria parte, si è appellato a uno spirito costruttivo, consapevole
che dove possibile bisognava sempre provare a comporre e disinnescare. Adesso
tutti si affrettano a rileggerlo, ma non allora nel 2014, dopo la Crimea. E poi la biografia di
Sergio Romano su Putin, solo delle paginette di luoghi comuni secondo alcuni commentatori,
perfino un po’ scomode laddove rilevava le vulnerabilità delle nostre
democrazie… Eppure scrisse un ritratto preciso, lucido di quelli che erano e
sono gli obiettivi della Russia putiniana, senza volute psicologiche né psicosi. Uno
spaccato della mentalità slava in cui Mosca si pone come la nuova Roma, erede
di un’idea imperiale intrisa di forza e nazionalismo, una missione,
un’investitura dai contorni misticheggianti in scia a quel misticismo russo,
tipicamente russo, che può farsi grande poesia e assumere anche questo tratto tragicamente violento.
Fino a un paio di giorni
fa dalle nostre parti ho sentito commentare così: «Sembrerebbe una questione
interna all’Ucraina». Ecco, una questione ucraina. La stessa lettura che ci ha
accompagnato negli ultimi anni portandoci alle soglie del baratro. Una
guerra, detta locale, finirà comunque per riversarsi altrove. È una forma di
contagio. C’è stato il Vietnam e abbiamo avuto la Cambogia. Così noi
abbiamo lasciato la tempesta covare nel Donbass. Adesso abbiamo un’altra guerra
nel vecchio continente, perché di questo si tratta, non è laggiù da qualche
parte, ma qui, mentre abbiamo passato l’ultimo anno a parlare di green pass e
restrizioni. Noi liberali, davanti a una caduta economica verticale, eravamo a
cavillare su chi far entrare in un luogo e chi no, additando una folgorante
ripresa. Mentre un certo signore, un pazzo come si è soliti definirlo, e con le nostre crociate di epiteti facendogli più
che altro ancora una volta un favore, si è preparato allo scontro, anche
economico. Si è armato, ha pianificato come e dove colpire, ha previsto nei
dettagli l’offensiva delle sanzioni a proprio danno. Ma ancora oggi, nonostante tutto, lo
descriviamo come un improvvisato. Neppure Kissinger, neppure una parte
dell’intelligence americana si sono mai sognati di interpretare così il suo modo di operare, gli obiettivi che si prefiggeva e che sono stati sempre chiari,
netti, pubblicamente enunciati. Tuttavia gli attori politici hanno preferito
negare, seguire altre sirene.
Dunque la guerra nel
continente, la terza, non lontana, in un altrove immaginario, ma qui. La storia
che si ripete. Le distruzioni sono tutte nostre, il disagio, la crisi economica colpiscono in primo luogo chi ha il proprio territorio
esposto, minacciato, invaso. Allora sarebbe stato e sarebbe nostro compito non
uniformarci al pensiero dominante di uno dei convenuti extra continentali, dando prova
ancora una volta di non avere né identità storica né politica, ma agire mediando, per quel che ci è consentito, nell’ottica di chiudere il prima possibile ciò che diversamente si
avvia al disastro.
Rileggo oggi i miei
scritti da studentessa. Non so perché tra il 2007 e il 2008 mi venne da
comporre per la nostra rivista letteraria due prose “orientali” sui temi della
guerra e dell’esilio. Nel 2008, mentre ero a Berlino, a ridosso della prima
deflagrazione economica con la crisi bancaria in America, ricordo benissimo un paio di
eventi nei quali la Russia entrò fatalmente in quelle mie settimane. La morte di Solženicyn,
con un titolo evocativo, solenne, goethiano, riportato dalla stampa tedesca “Russland
nimmt Abschied” – conservo ancora il
giornale con la prima pagina tutta dedicata al congedo dallo scrittore – e l’invasione della Georgia. Sullo scrittore russo dell’arcipelago
Gulag si erano fatte polemiche proprio perché nell’ultima parte della vita
aveva espresso una vicinanza a Putin. Intanto i carrarmati avanzavano nelle
repubbliche orientali. Apparentemente il mondo era più pacifico, solo apparentemente. C’era anche un crollo finanziario che si preparava oltreoceano e
avrebbe sovvertito tutto, di fatto generando come contraccolpo l’imposizione di
una stringente troika economica in Europa. E sull’argomento il mio compagno tedesco ebbe
molto, molto da ridire e predire, mettendomi in guardia. E
c’era la Russia, osservatrice impassibile al di sopra di tutti.
Ricordo pure le
telefonate di chi aveva letto il mio pezzo su Tbilisi e in quei giorni tornava
a rileggerlo. È una sensazione difficile da descrivere quando per qualche
momento della propria vita si è lambiti dalla storia mentre accade. Non se ne ha
piena coscienza, eppure è qualcosa che segna. Sfogliare di nuovo queste prose,
adesso, mi fa uno strano effetto.
(Di Claudia Ciardi)
Kaliningrad, maggio 2007
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