25 febbraio 2022

Le chiare stanze (Eudaimonia)

 


Si scorge un temporale lontano nell’interno. Piove da qualche parte in mezzo alle colline e tra un po’ la pioggia bagnerà la foce. Prima o poi alla foce qualcosa arriverà. Quel che non si lasciava assecondare, non si sa per quale istinto, all’improvviso trova la sua via e una scorrevolezza che fino a poco prima non immaginava di avere. E a un bel sentimento dire «resta a lungo con me», quasi fosse una persona. Uno spazio dentro di noi ch’è simile a un bagliore sul selciato, mentre il verde intorno è preda dei sogni di occulte creature e anche gli alberi già ne bevono l’ombra. Parlare a un sentimento come si parlerebbe a qualcuno perché così e così soltanto l’anima impara a conoscersi e poi conoscerà l’altro. Traboccherà con la sua voglia sulle labbra dell’altro e si parleranno come fossero le loro prime parole. A loro sembreranno le prime parole pronunciate in vita, piene di stupore, da una nuova infanzia levigate che a loro soli è toccata in sorte. Perché è bella questa infanzia che si rivive da adulti quando insieme le tastiamo il viso e l’uno nell’altra la celebriamo, un regno che riappare, voce che risale e ci smuove dentro, fin nel sangue dell’uno e dell’altra. È come esserci sempre stati, bambini in riva al fiume tra le occulte creature, all’ombra dei rami che ridisegnano i visi, mentre i nostri corpi scivolano inghiottiti dall’onda, mentre sulle labbra affiora il presagio.
Alzarsi e aver intrecciato mani, aver sentito e sfiorato più del sentire e dello sfiorare. Il fiore rinato dell’infanzia in parole nuove che adesso nuovamente impariamo ai bordi dell’umido muro, e scale e padiglioni dove stanno appese le suole del tempo su cui fermare gli sguardi. Nel giardino dove riposano gli anni e radici e fronde dalle bocche anelanti scendono alle braccia, a dita che stringono i petti ansanti. Strisciare il passo su un tappeto di foglie come le nostre chiome sparse e ovunque portare orme sulle piste, accanto a quelle di animali che nella notte hanno rovesciato il fango. Di notte sono passati e hanno arato e sconvolto il terreno, e noi, anche noi animali, fiutando la loro traccia, il manto, il primitivo canto. Sotto il profilo di torrette gotiche accese dall’ultimo sole invernale che per qualche attimo si posa sulla cima, e a guardare lassù s’immagina un’estate o una stagione solo nostra che a nessun’altra stagione appartiene. Costeggiare l’anima del tempo, il meraviglioso tempio nella muta radura, le antiche mura che orlano l’antico sentimento che si credeva scomparso, il nitore che l’avvolge, l’amore cosparso.

Sabato mattina in città. Il noto artista di strada si è già messo al lavoro. È ancora molto presto. Dopo mesi di vuoto qualche straniero osa riaffacciarsi. È ancora molto presto, per tutto. Quei pochi camminano piano sulla via torpida. Guardano me intanto che mi sfilo i guanti, guardano il grigio della pietra. Per l’istante in cui ci osserviamo sembriamo trasfigurati. E anche il volto del Cristo rinascimentale accarezzato dalle mani del giovane artista sembra dalla pietra trapassare. Ogni nostro gesto si abbandona con lentezza, ogni rumore si fa contorno e colore e divaga, sgorga dalla figura affissa alla strada, ci prende alle spalle ma non per ferire piuttosto per dirci di restare. E questo torpore che ci stringe, questo assedio che ci vince è una strofa cantata, un’ora eletta dentro cui immolare qualcosa, un’arca che risuona. Stanza è stanza di canzone, per l’amor che muove il sole, perché la mente è lo spazio che si affina, e nel cantare una presenza che si rifà viva. Viene il sole nelle chiare stanze, tremano le tende, ed ecco l’improvviso ritrovarsi nella presenza che si rifà viva. La voce ti è guida, è la tua arte sacra. Ascoltala come madre e padre.
Abbi caro il tuo buon demone, più di tutto ti sia caro, lo scrigno che ti porge, la pazienza che ti mostra non metterle da parte. Solo lui ti comprende, è il tuo istinto, l’accordo della tua felicità. Lui sa e saprà sempre il meglio di te, perché c’è sempre stato. È in te da prima che nascessi. Il fulcro della tua immaginazione in lui risiede e quel che guardi con affetto, l’intensità e l’amore che inaspettatamente t’invadono vengono dalle sue stanze. Lui è un volto disegnato per strada, un guanto che ti sfili dalla mano, l’occhio che in quel momento sulla tua mano si posa. È il tuo tempo e più del tempo che ti è dato, forma che in te si conserva e non dissolverà. Perché lui ha memoria di tutto, lui sa il quando e il come delle cose, anche del dolore lo sa. Quando deve venire, quando avrà da cessare. In riva al fiume lo hai sentito, nella quieta radura, nelle parole che ti ha donato un giorno nella tua vita adulta perché tu avvertissi di nuovo vicini i passi dell’infanzia. E tu amalo, amalo sempre questo demone buono perché ti è padre e madre ed è lui che ti dona l’amore che incontri, l’amore che attendi, l’amore che impari.
 

(Di Claudia Ciardi)

* Eudaimonia è una prosa articolata in diverse sezioni sulla poesia, l’arte e il tempo, declinati come temi musicali, una partitura scandita da esperienze autobiografiche. Si porge qui il primo frammento.

* Per la rubrica «Calligrammi»



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