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16 novembre 2021

Altissimi colori

 

Il nome di Giovanni Testori mi è venuto incontro qualche anno fa, durante uno dei miei cammini milanesi. Una notice sul suo archivio e il bando di un premio letterario mi incuriosirono. Ne avvicinai così la poliedrica personalità sul versante dei suoi scritti ma del Testori pittore, amante profondo della montagna, calamitato dai paesaggi della Valle d’Aosta, dalla necessità di alternare la vita in città a lunghi soggiorni accanto alle Alpi, ipnotizzato dalle visioni del Monte Rosa, nessuna traccia allora.
Il Testori montanaro mi si è singolarmente ripresentato in tempi più recenti, dopo aver io stessa conosciuto nella mia vita il raccoglimento dell’altitudine e la gratificazione del disegnare e dipingere simili paesaggi. Dunque, il percorso creativo di questo ingegno eclettico, innovatore di alfabeti letterari e artistici, per la seconda volta ha voluto farmi visita, e se un primo incontro può essere una fatalità senza troppe conseguenze, un secondo che inserisca aspetti tanto vicini al proprio carattere non lascia indifferenti.
Così desidero tornare sui temi di una bella mostra che si è tenuta negli spazi del Castello Gamba (Châtillon, Valle d’Aosta) omaggio a Testori disegnatore di montagne ma anche agli artisti che in questo soggetto si sono cimentati, intrattenendo con lui durevoli rapporti di scambio. Il fascino di tale occasione consiste nell’aver riportato alla luce documenti inediti della presenza testoriana in montagna, evidenziando dei nodi importanti all’interno della sua attività letteraria che non si comprenderebbero senza l’accostamento ai luoghi dei suoi ritiri e ai momenti di ispirazione che questi hanno suscitato.
Le sue raffinate pagine di critico d’arte nascono dalla partecipazione simpatetica con la poesia delle cime che fu per lui fonte di letture acute dell’opera di altri amici, suoi pari nella contemplazione estatica di tale spettacolo naturale, e di altra poesia, com’è chiaro nel suo ciclo in versi dei Trionfi, omaggio fin dal titolo alla grande tradizione dell’italiano volgare di ascendenza petrarchesca e al sublime dei temi prescelti; metamorfosi dei cieli, trapassi di colore, cadute di nubi sui crinali. Del resto, da una lettera delle Familiares, sappiamo che Francesco Petrarca, quando si trovava a Carpentras, salì al Mont Ventoux (Monte Ventoso). Era l’aprile del 1336. In questi nuovi trionfi va letta dunque una doppia celebrazione, ave al crearsi di una lingua e alle cadenze cromatiche di un immaginario alpino.
Significativo al riguardo anche l’esordio di Testori che a soli diciassette anni pubblicò un articolo su un disegno preparatorio inedito di Giovanni Segantini legato al capolavoro Alpe di maggio (1891). Molto più di un intento a esplorare le sacre sponde dell’arte ottocentesca e, in seguito, novecentesca scaturita dalla vicinanza dei sensi alla natura.
Ma quali sono infine gli altissimi colori di Giovanni Testori?  
Innanzitutto quelli di Gustave Courbet che lui ci descrive come un creatore assoluto della materia, padre di tutta la pittura moderna, capace di far scaturire un «rombo ctonico infinito, d’infinita pressione che non è più dell’uomo ma dell’intera natura e dell’intero universo» (Testori, 1977). E in effetti a soffermarsi su certe visioni (non vedute!) di Courbet volte ai paesaggi di montagna (pensiamo a Impressioni di neve, 1868; Paesaggio del Giura, 1868; Il ghiacciaio di Zermatt, 1873; Paesaggio alpino, 1873-1877; Il castello di Chillon, 1873) si percepisce tutto il vigore di una personalità artistica rocciosa, scardinante, chiamata ad aprire vie inesplorate.
Quest’indole sanguigna, indisponibile al compromesso, che pagò altissimo il prezzo di aver voltato le spalle alle gerarchie di potere gettandosi nell’avventura della Comune, ha contribuito in modo significativo a innovare le formule della rappresentazione pittorica.
Le parole scritte da Courbet sui giorni folli di Parigi costituiscono un’eco potentissima della sua personalità: «Eccomi, per volontà del popolo di Parigi, dentro fino al collo negli affari politici. Presidente della Federazione degli artisti, membro della Comune, delegato al municipio, delegato all’Istruzione pubblica: quattro incarichi tra i più importanti di Parigi. Mi alzo, faccio colazione, sto in seduta e la presiedo dodici ore al giorno. Comincio ad avere la testa come una mela cotta. Eppure sono incantato, malgrado questo arrovellarmi il cervello per capire degli affari ai quali non ero abituato. Parigi è un vero paradiso; niente polizia, niente sciocchezze, nessuna esazione di sorta, niente litigi. Parigi va avanti da sola, come su delle rotelle. Bisognerebbe poter rimanere sempre così. In una parola, si sta d’incanto: tutti i poteri dello Stato si sono costituiti in federazione e non hanno dipendenze. Nei momenti di riposo, combattiamo i saligots di Versailles. Ci andiamo a turno. Essi potrebbero combattere per dieci anni come fanno, senza poter entrare da noi, e quando poi li lasceremo entrare sarà la loro tomba» (Lettera ai genitori, 30 aprile 1871).
Si comprende come cotale temperamento, per certi versi simile, anche fisicamente, a Segantini, non potesse essere ignorato da uno come Testori che nell’arte cercava momenti di deflagrazione, di vita piena pienamente vissuta, stracciata, dilatata, in cui cogliere «il seme e il senso dell’esistenza» (Lettera a Varlin, 18 giugno 1972). Ed è così anche per tutte le altre passioni e amicizie coltivate in nome del segno e del colore.
Ogni sodalizio è stato per il letterato e critico milanese motivo di stimolo per la propria scrittura – si direbbe un confronto con l’arte per necessità letteraria – un’osmosi che ha dato sostanza alle sue idee, che ha plasmato il suo punto di vista di studioso e che lo ha quindi portato sul sentiero del disegno e della pittura con opere proprie. Questo il dono della frequentazione di Renato Guttuso, Paolo Vallorz e Varlin, autore di metafisiche nevicate notturne che schiudono tinte umorali giapponesi. Questa la forza sprigionata dalla conoscenza di Bernd Zimmer, il capostipite dei cosiddetti “Nuovi selvaggi”, artisti in fuga da Berlino, pervasi dal rifiuto della società industriale alla ricerca di un’esistenza in natura, retaggio di quel che animò le comunità ottocentesche, da Barbizon ai Nabis e Worpswede.  
E questa l’essenza del rapporto con Pepi Merisio, unica apertura concessa da Testori alla fotografia, proprio nella persona del grande ritrattista bergamasco, di cui conservava fra i suoi libri il volume della rivista zurighese «Du» sugli scatti da lui dedicati alla processione mariana di Oropa. Ognuno di questi sguardi ha nutrito lo sguardo di Giovanni Testori e scagliato le sue parole nell’alto di impensabili punti di osservazione.
Soffermandosi sulla compiuta bellezza di certe forme presenti in natura si comprende quanto l’arte sia un processo per l’appunto naturale, necessario, irrelato alla vita cui in milioni di anni l’evoluzione non ha mai pensato di abdicare.
L’essenza creativa di Testori trae la sua originalità da una devozione profonda verso questa storia spirituale.


(Di Claudia Ciardi)


* Incipit dell'articolo: Bernd Zimmer, Montagne, 1984



Catalogo: Altissimi colori. La montagna dipinta. Giovanni Testori e i suoi artisti, da Courbet a Guttuso, Castello Gamba, in collaborazione con Casa Testori, 2019.
Testi di Davide Dall
Ombra e Giuseppe Frangi.













Pepi Merisio fotografa la processione di Oropa, 1965



Disegni con grafite di Giovanni Testori, Gressoney, 1971

8 luglio 2021

Sacri Montes (II)

 
Le foglie sparse sul sentiero si animano e vagano a tratti come viandanti. Zone scure sulla montagna, altrove il sole. Dagli squarci del cielo sembra piovere un incantesimo che scioglie i contorni, sovverte le forme.
Si arriva all’improvviso accanto a certe piante, capita di sfiorarle cosicché si fanno conoscere all’aroma prima ancora che all’aspetto. Lo sguardo corre ovunque lungo le distese dei prati, fruga nel mistero delle ombre, attende chissà quale rivelazione al margine del bosco, finché si alza su alcune solitarie vette più volte ripetendo a se stesso: inviolate cime, lassù non si arriva.

 
(Di Claudia Ciardi)


Unalpe - Alta Val di Susa




Risalendo la Val di Susa




Monginevro - Il respiro della montagna oltremare




Attraversando la Val di Susa - Colori acquarellati su carta riciclata da un involucro

 

 
Splendore della Sacra




Nubi al tramonto di alzano sulla Sacra


22 dicembre 2019

Arkhip Kuindzhi – Impressioni dell’oltre


Russo di origini greche, allievo prediletto di Ivan Aivazovski, dai difficili inizi a San Pietroburgo al crescente riconoscimento a partire dagli anni ’50 dell’Ottocento, Arkip Kuindzhi è principalmente un paesaggista che tentò una via personale tra romanticismo e impressionismo. Corrono nei suoi lavori vibrazioni Nabis, laddove i luoghi e i colori usati per rappresentarne istanti sospesi tra quiete e tempesta rimandano a stati d’animo, attese visionarie proiettate in uno sconfinamento interiore. Sintomatica è la sua adorazione per le montagne che lo portò in Caucaso, viaggio intrapreso nel 1888, su invito del pittore Nikolai Yaroshenko. Vide così questi paesaggi per la prima volta, e la maestosità delle cime lo colpì a tal punto da comporre una serie sull’Elbrus. La vetta innevata, accesa dal tramonto o immersa in una fulgida notte è la protagonista di alcune delle sue opere più celebrate, che influenzarono profondamente Nicholas Roerich, fra gli allievi di maggior talento, la cui immaginazione mistica è da ricondursi proprio al rapporto con Kuindzhi.
Ma molti sono i “paesaggi parlanti”, dalla Crimea, sua terra d’iniziazione nel corso dell’apprendistato col maestro delle tempeste, il Turner russo Aivazovski, e dove conobbe la moglie, originaria di Mariupol, alla Georgia e Azerbaijan, visitate con lo stesso Yaroschenko e il chimico Mendeleev nell’estate del 1886, allora professore a San Pietroburgo al quale lo legava una forte amicizia. La svolta nella sua carriera avvenne in via definitiva nel 1875, quando Pavel Tret’jakov gli acquistò due quadri per una cifra molto consistente. Da quel momento Kuindzhi poté vivere della propria arte, consolidando il suo nome entro le più importanti cerchie culturali russe e garantendosi aperture anche all’estero. Risale a quello stesso anno il matrimonio con Vera – finché Kuindzhi non fu in grado di poter provvedere al suo mantenimento, il padre di lei, un ricco mercante di cappelli di feltro, pure lui con origini greche, non aveva acconsentito alla proposta. Benché poco si sappia della sua quotidianità, cosa che vale anche per la biografia del marito, causa la scarsità di materiali d’archivio, i pochi appunti personali e la sparuta corrispondenza, Vera Leontieva Spiridonovich era una donna molto colta. Il padre le aveva garantito un elevato grado di istruzione, come per i suoi fratelli, appassionati di teatro e studiosi di economia. I due vissero un’esistenza di coppia piuttosto appartata, senza figli, con Vera nei panni di segretaria, intenta ad aiutare il coniuge nella sua attività, stendendo con lui i comunicati stampa per le mostre, tenendo i rapporti con le riviste e le sale di esposizione. Si sa che dedicavano il tempo libero alla musica, suonando insieme, lei il piano e lui il violino. 
Kuindzhi fu un buon curatore di se stesso e un patrono generoso, tanto che provvide più volte a elargire somme di denaro ai suoi studenti meno fortunati. Per il resto la sua vita si divideva tra la pittura e una sorta di ritiro eremitico nella residenza pietroburghese, alternato ai soggiorni in Crimea, dove decise di acquistare una piccola tenuta e un po’ di terra. Almeno in quattro occasioni viaggiò in Europa, segno della sua ascesa e di rapporti ben saldi con l’intellighenzia russa all’estero. Nel 1878, dopo un breve soggiorno estivo sul Dnepr, dove peraltro non si sentì bene, decise appena ristabilito di partire per il vecchio continente in compagnia della moglie, visitando l’Esposizione universale di Parigi e le gallerie di Vienna, Monaco e Berlino. Nel gennaio 1881, introdotto da Ivan Turgenev, la segreteria della Società degli artisti russi a Parigi organizzò la mostra di una delle sue opere più apprezzate, Plenilunio sul Dnepr, presso la galleria di Charles Sedelmeyer.
Insieme alla serie dell’Elbrus, il notturno del Dniepr e altre vedute della steppa sono stati tra i suoi lavori più conosciuti e ammirati, tanto che per venire incontro alle richieste della clientela decise di ricavarne alcune copie oleografiche e litografie a stampa. Fu tra i primi artisti al mondo a valersi della corrente elettrica per sperimentare suggestivi effetti nelle sale che esponevano i suoi dipinti. Amava giocare con l’illuminazione, accentuando i contrasti tra il buio che avvolgeva gli spazi e i punti luce creati nelle vicinanze dei quadri; stando ad alcuni dettagliati resoconti sulle sue mostre – come ad esempio quello particolarmente entusiastico di un suo estimatore, l’architetto Konstantin Bykovsky – tutto ciò contribuiva a mettere in risalto l’arte di Kuindzhi. Negli anni Novanta dell’Ottocento e durante l’ultimo scorcio della sua esistenza fu insignito di numerosi riconoscimenti, con un’investitura ufficiale anche da parte del potere zarista. Tra il 1895 e il 1902, Kuindzhi fece parte della commissione per la scelta delle opere da destinare al museo russo voluto dall’imperatore Alessandro III, mentre nel 1907, presiedette il comitato per le mostre imperiali di primavera.
Se poche, si diceva, sono le notizie biografiche certe sul conto di questo pittore, i preparativi per l’importante mostra celebrativa alla Galleria Tret’jakov di Mosca nel 2018, sono stati un momento di rinnovati studi e ricerche. Diversi aneddoti e curiosità, come ad esempio l’incertezza sulla sua data di nascita oppure una divertente polemica sulla sua presunta jewishness, dovuta alla stranezza del cognome, sono raccontate in un lungo articolo pubblicato sul raffinato mensile a stampa della Tret’jakov. 
L’attività di Kuindzhi è per gli occidentali un bel punto di partenza qualora si voglia provare a comprendere meglio la stagione dell’impressionismo mistico russo, cosa assai trascurata dai nostri circuiti di distribuzione dell’arte. Tanti sono i nomi protagonisti di un figurativo sui generis, dove le aspirazioni realistiche, l’osservazione della natura e la sua riproduzione aprono squarci inaspettati, andando a lambire quelle rive solitarie e mutevoli che appartengono alla poesia e al sogno.

(Di Claudia Ciardi)



Related links:

Sul Tret
jakov Gallery Magazine, III, 2018 - About the life and work of Akhip Kuindzhi by Alina Yefemova


Nicholas Roerich - Montagne d'immaginazione

Dmitri Ermakov - Sguardi sul Caucaso
 
Avanguardia russa - La collezione Costakis a Torino
 
Revolution - La nuova arte per il nuovo mondo 


* Allinizio del post - L'Elbrus di sera
* Volo in mongolfiera con gli studenti del suo workshop sul paesaggio per la Scuola d'arte dell'Accademia imperiale (1898)



Una veduta dell'Elbrus



L'Elbrus di notte, 1890-1895 circa



Elbrus, 1900 circa



Montagne in Crimea, 1898 - 1908 circa



Plenilunio sul passo Daryal, al confine con la Georgia, 1890-1895 circa


  
Plenilunio sul Dnepr, 1882


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