Il
nome di Giovanni Testori mi è venuto incontro qualche anno fa, durante uno dei
miei cammini milanesi. Una notice sul suo archivio e il bando di un
premio letterario mi incuriosirono. Ne avvicinai così la poliedrica personalità
sul versante dei suoi scritti ma del Testori pittore, amante profondo della
montagna, calamitato dai paesaggi della Valle d’Aosta, dalla necessità di
alternare la vita in città a lunghi soggiorni accanto alle Alpi, ipnotizzato
dalle visioni del Monte Rosa, nessuna traccia allora.
Il
Testori montanaro mi si è singolarmente ripresentato in tempi più recenti, dopo
aver io stessa conosciuto nella mia vita il raccoglimento dell’altitudine e la
gratificazione del disegnare e dipingere simili paesaggi. Dunque, il percorso
creativo di questo ingegno eclettico, innovatore di alfabeti letterari e
artistici, per la seconda volta ha voluto farmi visita, e se un primo incontro
può essere una fatalità senza troppe conseguenze, un secondo che inserisca aspetti tanto vicini al proprio carattere non lascia indifferenti.
Così desidero tornare sui temi di una bella mostra che si è tenuta negli spazi
del Castello Gamba (Châtillon, Valle d’Aosta) omaggio a Testori disegnatore di
montagne ma anche agli artisti che in questo soggetto si sono cimentati,
intrattenendo con lui durevoli rapporti di scambio. Il
fascino di tale occasione consiste nell’aver riportato alla luce documenti
inediti della presenza testoriana in montagna, evidenziando dei nodi importanti
all’interno della sua attività letteraria che non si comprenderebbero senza
l’accostamento ai luoghi dei suoi ritiri e ai momenti di ispirazione che questi
hanno suscitato.
Le sue raffinate pagine di critico d’arte nascono dalla partecipazione
simpatetica con la poesia delle cime che fu per lui fonte di letture acute
dell’opera di altri amici, suoi pari nella contemplazione estatica di tale
spettacolo naturale, e di altra poesia, com’è chiaro nel suo ciclo in versi dei
Trionfi, omaggio fin dal titolo alla grande tradizione dell’italiano
volgare di ascendenza petrarchesca e al sublime dei temi prescelti; metamorfosi
dei cieli, trapassi di colore, cadute di nubi sui crinali. Del resto, da una
lettera delle Familiares, sappiamo che Francesco Petrarca, quando si
trovava a Carpentras, salì al Mont Ventoux (Monte Ventoso). Era l’aprile del
1336. In questi nuovi trionfi va letta dunque una doppia celebrazione, ave al
crearsi di una lingua e alle cadenze cromatiche di un immaginario alpino.
Significativo
al riguardo anche l’esordio di Testori che a soli diciassette anni pubblicò un
articolo su un disegno preparatorio inedito di Giovanni Segantini legato al
capolavoro Alpe di maggio (1891). Molto più di un intento a esplorare le
sacre sponde dell’arte ottocentesca e, in seguito, novecentesca scaturita dalla
vicinanza dei sensi alla natura.
Ma
quali sono infine gli altissimi colori di Giovanni Testori?
Innanzitutto quelli di Gustave Courbet che lui ci descrive come un creatore
assoluto della materia, padre di tutta la pittura moderna, capace
di far scaturire un «rombo ctonico infinito, d’infinita pressione che non è più
dell’uomo ma dell’intera natura e dell’intero universo» (Testori, 1977). E
in effetti a soffermarsi su certe visioni (non vedute!) di Courbet volte ai
paesaggi di montagna (pensiamo a Impressioni di neve, 1868; Paesaggio
del Giura, 1868; Il ghiacciaio di Zermatt, 1873; Paesaggio alpino,
1873-1877; Il castello di Chillon, 1873) si percepisce tutto il vigore
di una personalità artistica rocciosa, scardinante, chiamata ad aprire vie
inesplorate.
Quest’indole
sanguigna, indisponibile al compromesso, che pagò altissimo il prezzo di aver
voltato le spalle alle gerarchie di potere gettandosi nell’avventura della
Comune, ha contribuito in modo significativo a innovare le formule della
rappresentazione pittorica.
Le
parole scritte da Courbet sui giorni folli di Parigi costituiscono un’eco
potentissima della sua personalità: «Eccomi, per volontà del popolo di Parigi,
dentro fino al collo negli affari politici. Presidente della Federazione degli
artisti, membro della Comune, delegato al municipio, delegato all’Istruzione
pubblica: quattro incarichi tra i più importanti di Parigi. Mi alzo, faccio
colazione, sto in seduta e la presiedo dodici ore al giorno. Comincio ad avere
la testa come una mela cotta. Eppure sono incantato, malgrado questo arrovellarmi
il cervello per capire degli affari ai quali non ero abituato. Parigi è un vero
paradiso; niente polizia, niente sciocchezze, nessuna esazione di sorta, niente
litigi. Parigi va avanti da sola, come su delle rotelle. Bisognerebbe poter
rimanere sempre così. In una parola, si sta d’incanto: tutti i poteri dello
Stato si sono costituiti in federazione e non hanno dipendenze. Nei momenti di
riposo, combattiamo i saligots di Versailles. Ci andiamo a turno. Essi
potrebbero combattere per dieci anni come fanno, senza poter entrare da noi, e
quando poi li lasceremo entrare sarà la loro tomba» (Lettera ai genitori, 30 aprile 1871).
Si comprende come cotale temperamento, per certi versi simile, anche
fisicamente, a Segantini, non potesse essere ignorato da uno come Testori che
nell’arte cercava momenti di deflagrazione, di vita piena pienamente vissuta, stracciata,
dilatata, in cui cogliere «il seme e il senso dell’esistenza» (Lettera a
Varlin, 18 giugno 1972). Ed è così anche per tutte le altre passioni e amicizie
coltivate in nome del segno e del colore.
Ogni sodalizio è stato per il letterato e critico milanese motivo di stimolo per
la propria scrittura – si direbbe un confronto con l’arte per necessità
letteraria – un’osmosi che ha dato sostanza alle sue idee, che ha plasmato il
suo punto di vista di studioso e che lo ha quindi portato sul sentiero del
disegno e della pittura con opere proprie. Questo il dono della frequentazione di Renato Guttuso, Paolo Vallorz e Varlin, autore di metafisiche nevicate notturne
che schiudono tinte umorali giapponesi. Questa la forza sprigionata dalla
conoscenza di Bernd Zimmer, il capostipite dei cosiddetti “Nuovi selvaggi”,
artisti in fuga da Berlino, pervasi dal rifiuto della società industriale alla
ricerca di un’esistenza in natura, retaggio di quel che animò le comunità
ottocentesche, da Barbizon ai Nabis e Worpswede.
E questa l’essenza del rapporto con Pepi Merisio, unica apertura concessa da
Testori alla fotografia, proprio nella persona del grande ritrattista
bergamasco, di cui conservava fra i suoi libri il volume della rivista
zurighese «Du» sugli scatti da lui dedicati alla processione mariana di Oropa.
Ognuno di questi sguardi ha nutrito lo sguardo di Giovanni Testori e scagliato
le sue parole nell’alto di impensabili punti di osservazione.
Soffermandosi
sulla compiuta bellezza di certe forme presenti in natura si comprende quanto l’arte
sia un processo per l’appunto naturale, necessario, irrelato alla vita cui in
milioni di anni l’evoluzione non ha mai pensato di abdicare.
L’essenza creativa di Testori trae la sua originalità da una devozione profonda
verso questa storia spirituale.
(Di Claudia Ciardi)
* Incipit dell'articolo: Bernd Zimmer, Montagne, 1984
Testi di Davide Dall’Ombra e Giuseppe Frangi.
Pepi Merisio fotografa la processione di Oropa, 1965
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