Anarchico,
pacifista, Ernst Friedrich fece della denuncia degli orrori scaturiti dalla
prima guerra mondiale una ragione di vita. La sua pubblicazione, Guerra alla guerra, è una raccolta fotografica
che tutt’oggi costituisce un unicum nel
suo genere per la quantità dei materiali e il significato che questi numerosi
scatti dai campi di battaglia assumono negli accostamenti voluti da Friedrich.
Suo intento smascherare l’ipocrisia borghese, la sistematica menzogna, la
violenza militarista di cui erano intrise le società europee di fine Ottocento.
Tali aspetti non potevano che deflagrare in uno scontro immane destinato a
cambiare il vecchio continente almeno su tre livelli: quello etnico, perché le popolazioni soffrirono perdite elevatissime e ripetuti sradicamenti dai territori d’origine, quello politico con il crollo
degli imperi, e in conseguenza quello geografico, perché le nazioni videro
mutare le loro frontiere.
Nato
a Wroclaw (Polonia) nel 1894 in una famiglia della piccola borghesia, Friedrich fin da
giovane frequentò i movimenti operai. Poco prima della guerra riuscì
a coronare il sogno di fare l’attore, recitando in diversi ruoli importanti al
regio teatro prussiano di Potsdam. All’indomani dello scoppio del conflitto,
essendosi rifiutato di andare al fronte, venne internato fino al 1918, quindi
liberato dai rivoluzionari spartachisti alla cui causa decise di unirsi.
Naufragato anche questo progetto, con l’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl
Liebknecht, riparò a Berlino, dove si occupò di organizzare i gruppi pacifisti
chiamati “Freie Jugend”. Proprio in uno di questi raduni Friedrich inaugurò la
prima “Mostra d’arte dei lavoratori”, esposizione fortemente connotata
dall’impegno sociale e il rispetto dei diritti dei ceti più poveri, in cui
trovarono spazio opere di Käthe Kollwitz, Georg Grosz, Otto Dix e Marc Chagall.
Nel
1921 diede alle stampe l’opera Asilo
proletario, manuale di cultura pacifista adottato dalle scuole del tempo
nella speranza che formando le nuove generazioni al rifiuto della violenza
bellica si sarebbero potute evitare altre tragedie. La storia andò
diversamente. A neppure vent’anni di distanza il grande inganno fu di nuovo
venduto ai popoli d’Europa che vi caddero dentro quasi senza alcuna presa di
coscienza del recente passato.
Al
’24 risale il lavoro più importante di Friedrich, Guerra alla guerra, diventato in breve tempo un bestseller, tanto
che l’anno successivo l’autore, prendendo spunto dalle serie fotografiche qui
riprodotte, decise di creare un museo a tema proprio nel centro di Berlino,
luogo in cui i disagi derivanti dal conflitto continuavano a farsi sentire in
maniera ancor più grave che nel resto della Germania. Si pensi al problema
rappresentato dai reduci, dagli invalidi, dalle vedove di guerra: se si
considera l’impatto sulla società di queste migliaia di drammi ci facciamo un’idea
del disastro che si andava consumando. Il celebre romanzo di Joseph Roth, La ribellione, è interamente incentrato sul trauma psicologico che affligge un reduce invalido il quale, tornando in patria, crede di essere portato in trionfo, mentre la realtà gli presenta un conto molto amaro: uno dei capolavori assoluti scaturiti dal primo dopoguerra. Quello che tende a sfuggirci fin troppo spesso è che una guerra non finisce mai
nel momento in cui cessano le ostilità. Un paese che ha sopportato sul suo
territorio una simile tragedia impiegherà decenni per riprendersi, per curare
le ferite derivate dal suo impoverimento materiale e umano; è come un muro a
cui vengono scalzate le fondamenta. Occorrerà un paziente lavoro di recupero, e
se i danni sono irreparabili andrà ricostruito.
Come
è ben immaginabile l’Internationales Anti-Kriegs-Museum fu soppresso dai
nazisti e i suoi locali trasformati in luogo di tortura per prigionieri
politici. Fuggito dalla Germania, Friedrich proseguì la sua attività in Belgio,
riparando poi a Parigi nel secondo dopoguerra, dove si occupò attivamente
della riconciliazione franco-tedesca.
Oggi,
grazie all’impegno del nipote, il suo museo rivive a Berlino in Brusseler-Str.
21.
Mi
sono imbattuta nell’opera di Ernst Friedrich durante la mia permanenza a Moena, visitando il polo Navalge, dov’erano presenti alcune riproduzioni di Guerra alla guerra. Si tratta di un allestimento ben curato che
permette di avvicinare al meglio il lavoro di questo fotografo tedesco
(visitabile fino a ottobre 2017).
Nel
1972 John Berger in un celebre saggio sulle fotografie di guerra, in Italia
raccolto nel volume Contro i nuovi tiranni
(Neri Pozza), s’interrogava sullo scopo di tali documenti e su come mai, nelle tragiche fasi del conflitto vietnamita, non
avessero un impatto più dirompente nell’opinione pubblica. Secondo Berger foto di questo tipo, pubblicate sui maggiori quotidiani dell’epoca, avrebbero dovuto innescare
un immediato moto collettivo di protesta, molto più ampio e trasversale di quello che si vide in seguito. Ecco cosa dice al
riguardo: «Da circa un anno è diventato un fatto normale, per certi giornali a
grande diffusione, pubblicare fotografie di guerra che qualche tempo fa
sarebbero state censurate, perché ritenute troppo scioccanti. […] I giornali
oggi pubblicano foto di guerra cariche di violenza perché il loro effetto,
salvo rari casi, non è quello che una volta ci si aspettava. […] La macchina
fotografica che isola un momento di agonia lo fa con la stessa violenza con cui
l’esperienza di quel momento isola se stessa. La parola “scatto” usata per armi
e macchine fotografiche, rispecchiava una corrispondenza che non si limita al
semplice aspetto meccanico».
Perché,
dunque, la reazione dei lettori non è quella aspettata? Perché il senso di
rifiuto per quella violenza cieca non dura che qualche breve momento nella
nostra giornata? Si potrebbe dire lo stesso, forse, degli orrori nei Balcani o
più di recente per la guerra in Ucraina (irresponsabilmente fomentata da una
parte della dirigenza occidentale e poi occultata) o per la Siria. Secondo
Berger ciò si deve al fatto che il documento fotografico così divulgato punta
il dito troppo genericamente sulle vere cause che stanno dietro al conflitto
denunciato attraverso l’immagine. Tanto più che molti dei giornali che
pubblicano simili materiali hanno avuto e hanno interessi in comune con quelle
medesime dirigenze che preparano la guerra.
Ci
sfuggono quindi le ragioni politiche, le convenienze più o meno nascoste, i
coinvolgimenti del potere a vario livello, e così la denuncia si smorza e perde
d’efficacia. Un tema su cui vale senz’altro la pena continuare a riflettere. Se
si sfoglia il testo di Friedrich, la denuncia ha un preciso valore politico. Si
dice Guglielmo II, le élites capitaliste, perfino la chiesa che manda i propri
officianti a benedire i soldati e tradisce il vangelo che predica pace (ma non
mancano scatti di preti impiccati perché appunto non hanno tradito e si sono
tirati fuori dalla violenza); in quest’opera si mostra al popolo che viene
mandato al fronte l’assoluto disprezzo dei capi che ne sfruttano il sacrificio – le immagini degli ufficiali in alta uniforme che sorseggiano tranquilli e beati il loro tè in veranda è emblematica.
Qui
la denuncia ha nomi e volti, e sebbene nei fatti Friedrich non sia riuscito a
smuovere le coscienze per evitare il ripetersi della carneficina – ma come
avrebbe potuto un uomo solo nella Germania di allora? – la sua è stata un’azione assai più efficace e intellettualmente più onesta e
coerente di altre.
(Di
Claudia Ciardi)
I facili e per certi versi isterici entusiasmi dell'agosto 1914
Papà in posa eroica per una rivista
Papà ritrovato due giorni dopo
Guglielmo II al fronte - la passerella in legno apparentemente serve per proteggersi dal fango, in realtà è per non affondare gli stivali nel sangue che impregna il terreno
Fosse comuni
Fosse comuni
Impiccagioni per tradimento
*Così si legge nella nota di Ernst Friedrich: «Durante la Grande Guerra nell'esercito austriaco migliaia di uomini sono stati condannati all'impiccagione. Nel solo esercito del granduca Ferdinando sono state erette 11.400 forche (sarebbero 36.000 secondo un'altra statistica)»
Ernst Friedrich arringa la folla sulla Siegesallee di Berlino, incitando i soldati a ribellarsi
Edizione di riferimento:
Ernst Friedrich, Guerra alla guerra, 1914-1918: scene di orrore quotidiano, prefazione di Gino Strada, Einaudi, 2004
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Buongiorno,
RispondiEliminavendo il libro “Guerra alla guerra”, di cui si parla nel presente articolo. Se qualcuno lo sta cercando, mi contatti all’indirizzo chiara.montefusco@gmail.com.
Distinti saluti,
Chiara Montefusco
Gentile Chiara,
RispondiEliminagrazie per aver letto il mio articolo e per questa sua segnalazione. Vedo che il libro è difficilmente reperibile nei principali canali di vendita. Spero pertanto che la condivisione di questo messaggio aiuti chi ne è alla ricerca. Il drammatico ritiro dall'Afghanistan, la scomparsa di Gino Strada, gli interrogativi sullo stato di diritto che i provvedimenti legati all'emergenza sanitaria stanno ponendo, fanno sì che il messaggio di Ernst Friedrich torni a parlarci con rinnovata chiarezza. Ancora grazie, dunque, con l'augurio che possa trovare lettori interessati, Claudia C.
Buonasera Claudia,
RispondiEliminaleggo solo ora il suo gentilissimo messaggio.
Purtroppo la realtà ci costringe a constatare la mai scemata attualità di questo libro.
Grazie a lei per il suo blog, davvero di qualità sotto tutti i punti di vista!
Chiara