«Mi piace il suo viso severo e la sua testa di fiorentino del Rinascimento»
(M.
Gorkij)
Quando
la rivoluzione è in marcia, allora viene il bello. Perché in quel periodo di
sovvertimento e sospensione tante sono le aspettative che esplodono e cozzano.
Di questo turbine fragoroso ed esaltante i versi di Blok sono una presa diretta
immaginifica quanto implacabile. Il carro della storia viene qui rappresentato
nel massimo del suo impeto sconvolto ma indirizzato al raggiungimento di un
nuovo quadro sociale, coincidente per chi alla rivoluzione prende parte con una
nuova visione del mondo.
Ai primi di gennaio del 1918, quando le piazze erano ancora calde e
riecheggiavano i fatti dell’ottobre, Blok si dette a una scrittura veloce,
quasi vorticosa, che in larga parte rifletteva anche nei ritmi
quell’incredibile stagione da poco inaugurata. In seguito alle delusioni del 1905-1906, il giovane letterato ebbe modo di
rimeditare la propria poesia, abbandonando il simbolismo e approdando a una
fase più matura della sua pratica letteraria, non estranea da questo momento in
poi a elementi di aperto realismo e perfino cinismo; con spirito
rinnovato e rimesso in discussione per tutto un decennio, il poeta sta in piedi
davanti al nero orizzonte, iracondo, violento ma anche fantastico della rivoluzione,
uscita dalla testa dei suoi levatori e portata nelle strade dal popolo.
Nei
suoi trecentotrentacinque versi, che ne fanno il poema più breve della letteratura
russa, la vicenda si scompone e si sincronizza organicamente al moto
rivoluzionario. Come una partitura I
dodici avanzano nell’autunno moscovita, queste figure della guardia incappottate,
con la baionetta a spalla, tra il rassegnato e l’astratto, segni appena
accennati sulla tela che nel canto finale, il dodicesimo per l’appunto,
apoteosi e sublimazione del narrare anche nel simbolismo numerico, incedono
guidati da un Cristo diafano, misterico iniziatore dell’era che si va aprendo.
Durante
la stesura Blok ebbe contatti coi comitati bolscevichi, davanti ai quali perorò
la sua causa personale nell’ambito di quella politicamente articolata dalla
rivolta: «a voi interessa la politica, il partito, mentre noi poeti cerchiamo
l’anima della rivoluzione. Essa è stupenda, e qui siamo tutti con voi». E in
effetti alla divulgazione del messaggio nato nella fucina dei soviet, l’arte
contribuì in buona misura, almeno nella primissima fase degli avvenimenti.
Quando subentrò la disillusione, molti ingegni che avevano sostenuto quel primo
slancio presero le distanze, alcuni finirono emarginati, come successe allo
stesso Blok, per non dire delle vere e proprie persecuzioni cui tanti andarono
incontro nell’isteresi delle purghe staliniane.
Tuttavia,
la letteratura di inizio secolo, e in massimo grado la produzione poetica,
filtra fino al dissolvimento dell’Unione Sovietica come patrimonio indiscusso
di una stagione destinata a lasciare un’orma proprio nel farsi della
storia. Tra alti e bassi il cosmo letterario di quei primi diciassette anni del
Novecento restò un faro per la cultura slava e non solo.
Il
contrasto di bianco rosso nero, il monotono accumularsi della neve, il drappo
della colonna di soldati che nel suo biblico andare diffonde il vangelo
rivoluzionario, il nero della rabbia che impaurisce e sovverte ma che è pure
azzeramento e moto generativo – si pensi ai quadrati di Malevič – è la
dominante cromatica di questo scritto. Descrizioni
fulminee, lampi d’ambientazione – lo striscione della costituente preso di mira
dalla bufera, la vecchietta che si lamenta dei tempi, il borghese turlupinato –
gesti e sguardi appesi a una dissonanza ritmica che pure sa anche trasformarsi
in momenti di assoluto silenzio e raccoglimento. Come la quiete che cade
improvvisa sul Névskij o sulla parata finale di cui già s’è detto.
In
tutto ciò Blok gioca da artigiano esperto mischiando metri, toni, registri
verbali. Dal latino, alla citazione letteraria, al preziosismo erudito fino al
gergo di strada. Non è infrequente che nelle chiuse delle singole parti si
concentri l’intera carica emotiva delle strofe precedenti, talora affidate alla
saggezza proverbiale, come accade al capitolo sette: «Spalancate le cantine – oggi giran gli straccioni!».
Oppure al capitolo nove, dove l’immagine del vecchio mondo ormai in bilico e da
demolire va insieme a quella del borghese fermo all’incrocio con accanto un
cane rognoso – tra l’altro nell’escatologia legata ai miti sia il cane che
l’incrocio rimandano a un passaggio ultraterreno, in genere verso gli inferi.
Innegabile
che il poeta connoti l’evento rivoluzionario nel senso di una palingenesi
storica, la quale necessariamente attinge ai simboli religiosi. Questa
grazia e, se vogliamo dire, leggerezza sacrale nel sommovimento di un mondo che
porta con sé morti e distruzione – ma è il prezzo da pagare per far largo al
nuovo – s’inserisce nell’ideale messianico e metastorico della grande Russia in
cui Mosca per l’epoca moderna vorrebbe assumere su di sé il ruolo che fu della
Roma imperiale.
Uno
dei suoi confidenti nello strepito creativo di quel gennaio disse di Blok: «sente
la musica in tutta questa bufera, tenta di descriverla». E in effetti ci ha
consegnato un canto, quasi un salmo, una scena musicale che con martellante incedere
polifonico ci proietta anima e corpo dentro il golem rivoluzionario. Non è un
caso che le strofe blokiane abbiano ispirato celebri ritornelli di canzoni
popolari italiane, dall’inno della Guardia
rossa a Prospettiva Névskij di Battiato. Cosa che ancor più testimonia delle
profonde suggestioni che questi versi hanno risvegliato in umori artistici
distanti dal punto di vista culturale e temporale, traccia di
quell’universalità rivoluzionaria che qui premeva liberare.
(Di
Claudia Ciardi)
Edizione consigliata:
Aleksandr Blok - I dodici
a cura di Cesare G. De Michelis, con testo a fronte
Marsilio, 1995
Marsilio, 1995
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