Composta dal poeta Percy Bysshe Shelley nel 1821, un anno prima della morte, la Defence of Poetry nasce da una provocazione lanciata al grande letterato inglese da Thomas Peacock, autore di uno scritto che aveva inteso dimostrare l’inutilità della poesia. Infuriato dalla temerarietà dell’argomento, «per vendicare l’offesa alle Muse» Shelley stese una replica in forma di trattato breve, destinato a divenire non solo il suo testamento spirituale ma anche quello di un’intera generazione di artisti che seppero infondere nuove energie alla loro epoca. Quelle forze creatrici continuamente evocate nel saggio, uniche per il magnetismo che sprigionano e in grado di recare in sé la sintesi suprema di tutte le conoscenze umane.
Lo slancio cui l’autore attinge, frutto di una lotta serrata con il crescente affermarsi delle scienze, dell’esercizio della ragione svincolata da ogni impulso sentimentale, dalla sincera meditazione dei saperi acquisiti, si riverberò ancor più nei tempi a venire, quando la stagione del romanticismo inglese poté dirsi conclusa. Forse la più chiara dimostrazione circa la bontà delle tesi divulgate nel suo libello. Se infatti, come Shelley sosteneva, poeta è colui che compie un atto rivelatore, è un interprete capace di trascendere le correnti della storia e perciò di dare alle parole una dimensione mantica, allora può anche essere il narratore di qualcosa che è di là da venire. Intreccio di componenti istintuali e immaginative, la scrittura poetica e in generale l’animo poetico non seguono i dettami della volontà e della coscienza ma infrangendo i limiti entro cui queste cose sono solite operare, tendono a risolvere la parzialità del contingente nel flusso emozionale di idee che da sempre alimenta il mondo. Proprio in virtù di un simile corrispondersi di sensibilità che accomuna latitudini e momenti storici pur tra loro discontinui, i popoli ritrovano i segni della bellezza che credevano smarrita. Muovendo le corde più profonde dell’umano i poeti vegliano affinché l’immaginazione non smetta in loro di vibrare. E proprio all’elemento fantastico il discorso shelleyano attribuisce la forza durevole della poesia. Non vi è compimento creativo senza il manifestarsi di questa facoltà, in grado di eternare chi la esercita e coloro che con lui, attraverso la sua opera, entrano in sintonia. Il nozionismo che ci sommerge manca di influire positivamente sulla realtà che viviamo perché non suffragato da alcuna immaginazione: «Possediamo più conoscenze nel campo morale, politico e storico, di quante siamo in grado di metterne in pratica; le nostre conoscenze scientifiche ed economiche sono esorbitanti rispetto a quelle che sarebbero necessarie a garantire un’equa distribuzione della ricchezza. In questi sistemi di pensiero la poesia è sepolta sotto il cumulo di fatti e di processi computazionali. […] Quello che ci manca è la facoltà creativa di immaginare quello che conosciamo; ci manca l’impulso generoso che attualizza ciò che immaginiamo; quello che ci manca è la poesia della vita». Qui peraltro risuona più di un accento che rivestì l’ossatura della celebre orazione inaugurale tenuta da Ugo Foscolo all’università di Pavia, nel gennaio del 1809, per il suo insediamento nella cattedra di eloquenza. Un intervento dove molti sono i passi riservati alla grandezza della capacità immaginifica, passata al setaccio anche per il suo potere illusorio, obliante, mistico, la sola che quasi sollevi l’uomo al rango di un dio: «E la fantasia del mortale, irrequieto e credulo alle lusinghe di una felicità ch’ei segue accostandosi di passo in passo al sepolcro, […] rappresenta piaceri perduti che si sospirano, offre alla speranza e alla previdenza i beni e i mali trasparenti nell’avvenire; moltiplica ad un tempo le sembianze e le forme che la natura consente alla imitazione dell’uomo; tenta di mirare oltre il velo che ravvolge il creato; e quasi per compensare l’umano genere dei destini che lo condannano servo perpetuo ai prestigi dell’opinione ed alla clava della forza, crea le deità del bello, del vero, del giusto, e le adora; crea le grazie, e le accarezza; elude le leggi della morte, e la interroga e interpreta il suo freddo silenzio; precorre le ali del tempo e al fuggitivo attimo presente congiunge lo spazio di secoli e secoli ed aspira all’eternità; sdegna la terra, vola oltre le dighe dell’oceano, oltre le fiamme del sole, edifica regioni celesti, e vi colloca l’uomo e gli dice: “Tu passeggerai sovra le stelle”».
E il riconoscimento di una simile religiosità che attiene all’immaginazione, dunque alla poesia che su questa si incammina, ha sovente stabilito un parallelo tra poeti e profeti. Nel mondo antico i cosiddetti filosofi naturali scrivevano in versi e le conoscenze di cui erano in possesso ne facevano i detentori di una sapienza se vogliamo oracolare. In alcuni momenti il poeta tocca altezze tali da concentrare su di sé lo spirito del passato e quello che ancora è avvolto nell’indeterminatezza del futuro. Questo per certi aspetti lo avvicina alle figure di grandi rivoluzionari e predicatori. Un parallelo che riaffiora in diversi punti del fraseggio di Shelley e piuttosto frequentemente nel dire dei poeti. Così Yeats, di cui peraltro è nota la fascinazione per l’occulto e il simbolismo alchemico e che appena trasferito a Londra conobbe e frequentò il mago MacGregor Mathers e la teosofa Madame Blavatsky; interessi legati alla sua idea di letteratura, e di poesia in particolare, come massima forma di religione dal carattere universale: «Qualunque cosa avessero affermato i poeti nei loro momenti migliori, ciò costituiva il punto più vicino possibile ad una religione autorevole, e la loro mitologia, i loro spiriti del vento e dell’acqua, non erano che verità letterale».
Nonostante l’astio che alcune età le riservano, e sebbene nella deriva moderna corra il rischio di venire relegata ai margini della costruzione sociale, la poesia non abdica alla propria fede. Che gli impulsi corruttori liberati dagli uomini destabilizzino, offendendole, le norme sacre dell’interiorità, è un pericolo ancor più concreto nell’Inghilterra sedotta dalla rivoluzione industriale, e come del resto andrà affermandosi ovunque in Europa. Il poeta registra la portata tutt’altro che secondaria di tale passaggio e per primo lo definisce un discrimine in rapporto a quanto lo ha preceduto nella percezione e nel modo stesso di coltivare le arti. Con incredibile lungimiranza vuole mettere in guardia chi legge ma allo stesso tempo desidera sollevarlo, perché il piacere e la bellezza, anche se minacciate, non soccomberanno né si sottrarranno ai loro cantori. I periodi di decadenza – e c’è in questo un’eco dei cicli vichiani, accostamento suggerito dallo stesso Giuseppe Ungaretti che fu affezionato divulgatore della Defence – le fasi cioè in cui le possibilità creative sembrano ripiegarsi su stesse, per quanto scoprano la rinuncia ai tratti fondamentali che in ogni civiltà hanno sollevato la mente umana, non rappresentano una capitolazione. Così come la corruttela non potrà estendersi fino a prosciugare le sorgenti che in sé preservano i divini doni della poesia: «Ma prima che la poesia possa estinguersi completamente è necessario che la corruzione abbia completato il disfacimento del tessuto della società umana». Compito morale dell’individuo è arginare ciò che vorrebbe sradicarlo da se stesso, impegnarsi perché dalla società non siano bandite le idee più nobili che ispirano il progresso culturale, la pace, il bello tutte necessariamente intrise di sostanza emotiva. Rifuggire questa componente, screditarla a favore di espressioni caduche e ingannevoli, non produrrà nulla di veramente valido nelle nostre vite. Ne avremo anzi un peggioramento della condizione personale e, quindi, collettiva. Il poeta è un essere solitario che però in ogni istante della sua solitudine non cessa di essere in comunione con quanto lo circonda. Per questo la sua parola incide con grazia e tensione inarrivabili la pietra dei sensi, perché irrompe nella consuetudine, nel gergo abituale cui affidiamo i nostri sguardi. Il gesto del poeta reca con sé la rivolta di quello che crediamo acquisito ai nostri orizzonti, fondandone di nuovi, irrompe nella regolarità, smaschera le rassicurazioni da cui siamo circonfusi e ne denuncia l’indecenza. Di qui il suo statuto morale, il più alto che sia dato conseguire a un uomo: «Riproduce l’universo di cui siamo parte e che percepiamo, e scosta dalla nostra pupilla interiore la patina della consuetudine che ci tiene nascosta la meraviglia del nostro essere. […] La poesia è il più indomito araldo, compagno e seguace del risveglio di un popolo, che opera benefiche trasformazioni della sensibilità e delle istituzioni».
L’assenza di poesia nel nostro vivere privato come nell’azione politica ha a che fare col concetto di giustizia sociale. Lo statista che non sia ispirato e non faccia dell’immedesimazione nell’altro il credo del proprio compito civile, fallirà. Leggere, adesso, queste pagine dedicate al divario fra chi detiene la ricchezza e chi è costretto in povertà, all’inganno che i fautori dell’utile traggono con sé, al calcolo che l’economista impone a fenomeni umani e leggi di natura, ci sottolinea quanto la denuncia di Shelley meritasse di venire raccolta. Ora che le dinamiche globali hanno amplificato a dismisura, esasperandoli, quegli squilibri che già si erano affacciati nell’Inghilterra di duecento anni fa. Ora che la dottrina dell’accumulo di beni materiali ha imposto al poeta, figura immateriale per eccellenza, il livellamento delle culture e del linguaggio, non più mezzo di catarsi e comprensione ma sorgente irrimediabilmente prosciugata.
Nel 1975, di fronte all’Accademia di Stoccolma, Montale proseguiva questo dibattito chiedendosi se sarebbe riuscita a «sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa». Con Shelley anche lui ammise che «non c’è morte possibile per la poesia», ma era però palese che il consumismo, veicolato dalle odierne sirene pubblicistiche, mirasse ad «annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione», presupposti irrinunciabili dell’arte poetica e dei suoi fruitori. Lungi dall’aver esaurito il proprio messaggio, l’opera del poeta inglese si pone al centro di una discussione che oggi sembra investirci con urgenza perfino maggiore rispetto a quando venne composta.
Sotto questo aspetto bisognerebbe forse ringraziare Mr Peacock per aver sollecitato a suo tempo la vibrante risposta di un grande umanista che nella sua disinvoltura antiaccademica sostenuta da immagini di immensa poesia ha il raro incantato potere, che solo i capolavori possiedono, di rassicurarci.
(Di Claudia Ciardi)
P. B. Shelley, In difesa della poesia,
a cura di Vincenzo Pepe,
Mimesis edizioni, 2013
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