Firenze
la velenosa, l’ingrata, la gran puttana perché corteggia e poi tradisce i suoi
artisti. Ma al suo dolcissimo veleno non si può rinunciare. Il film di Andrei
Konchalovsky inizia così, su un sentiero di campagna dove risuonano i passi di
un Michelangelo esagitato, una figura monastica, quasi penitenziale, in sandali
e saio, impegnato in un monologo acceso, un’invettiva contro tutto e tutti, i
suoi committenti, gli uomini di potere, la corruzione della sua epoca.
L’artista si sente braccato, sotto assedio, accerchiato dai propri demoni. Se
la prende perfino coi corvi che gli gracchiano addosso, ovunque arrivi.
È
il ritratto di un uomo spigoloso ma anche capace di infantile dolcezza, che cerca di
destreggiarsi nei rovesci politici, negli impegni contrattuali presi con
opposte fazioni, i Medici e i Della Rovere, un uomo sollecitato a creare non
senza il ricorso a minacce e violenze da parte di chi reclama il suo genio. Ogni
volta che cerca di svincolarsi da un impegno o di esigere i propri compensi ne
nascono conflitti, fughe, drammi.
Konchalovsky
ci riporta al grado zero della rappresentazione artistica e mette in scena un
discorso che pone al centro l’uomo, la materia, la propria visione. Non ci sono
sofismi né massimi sistemi, ma persone con le loro intemperanze, paure, con le
nude mani, la loro forza fisica, la schiena rotta, in mezzo ai quali l’artista
vive condividendo fatica, rischi, tormenti. Leggendo la rassegna stampa che ha
accompagnato l’uscita di questo lavoro, il giudizio è stato tiepido, condizionato dai triti cliché politici e geografici – sembrano aver influito le origini e la storia di Konchalovsky – ho letto perfino un appunto sulla sua età
avanzata, il che francamente lascia perplessi. Consiglierei di ascoltare le
interviste al maestro sulla preparazione del film, dove si può apprezzare un
uomo pieno di verve e ironia che ha fatto un gran lavoro sugli attori in un
cast eterogeneo composto da italiani, tedeschi, russi, facendo emergere al
meglio le personalità e le qualità professionali di tutti. Nel 2019 la
pellicola è passata nelle sale italiane come una meteora, in proiezione per
pochissimo tempo, rifiutata dai canali a indirizzo più commerciale –
ovviamente! – cosicché in molti non se ne sono neppure accorti. Magari parlare
anche di questo in qualche critica...
Più
variegato il giudizio del pubblico che in media ha dato una valutazione alta.
Tutti d’accordo nel riconoscere la complessità di una scelta finora inedita,
facendo rivivere nel dettaglio il lavoro in cava, con la ricostruzione
filologica di macchinari, consuetudini, riti delle maestranze apuane.
L’ascesa vertiginosa alla montagna per la scelta dei blocchi, l’immane fatica,
il rischio, il timor sacro davanti alla lizza preparata per la discesa del masso. Buona
parte del film è dedicato a questo mondo di artigiani, indispensabili a dar
vita al sogno dello scultore. Al contempo Michelangelo è un intrepido
camminatore delle vette, poeta assorto e rapito dal paesaggio ma pure tecnico meticoloso che
non intende lasciar nulla alla sorte, occupandosi personalmente dei materiali –
le funi ordinate ai cordai pisani, i ganci e le pulegge disegnati con scrupolo
maniacale – chiedendone sempre riscontro
ai capimastri. Prende così vita sotto i nostri occhi un mondo ruvido, sporco,
avido. Il tentativo di realizzare guadagni porta infatti a giocarsi la vita in
cava, anche se c’è pure un discorso sulla tempra dell’operaio, sulla necessità del mostrare di che pasta si
è fatti, per cui non è ammesso non misurarsi col pericolo, un carattere che il
regista porta alla luce molto bene. Tanto più che tutti gli uomini scelti per questo
ruolo sono veri cavatori di Carrara, che portano la spontaneità dei loro gesti
e l’asprezza non filtrata del dialetto.
E
risuona anche un inno alle Alpi Apuane, fra le ombre dello sfruttamento
massiccio che ne ha cambiato i connotati e il fascino eterno di un ambiente
infernale fatto di paurosi strapiombi, leggende, fantasmi. Dove perfino il
marchese Malaspina – interpretato da Orso Maria Guerrini in modo impeccabile –
si materializza come un riflesso spettrale della montagna, vestendo i panni di una nobiltà senza
affettazione, sanguigna, tutta d’un pezzo. Michelangelo che pure è ospite di
riguardo e ha l’onore di usare la camera-studio in cui Dante passò i suoi
giorni da esule, viene invitato senza giri di parole e alla presenza di un
sicario a fare le sue scelte: o le cave di Carrara o quelle dei Medici a
Pietrasanta. Anche il marmo era una questione politica.
Alberto
Testone, il protagonista, che al suo attivo ha diversi lavori per il teatro e
nei film di Pasolini, si esprime sul filo di una timida sfrontatezza, aporia
assoluta che Konchalovsky solletica e plasma in ogni sequenza. Chi ha parlato
di riduzione macchiettistica credo non abbia saputo concentrarsi sulle vere
tonalità narrative dell’opera, forse infastidito dall’impostazione di fondo. Le
unghie rotte, le strade piene di letame, i capelli sporchi, le barbe intrise di
unto, le bestemmie, la vita povera e violenta, la lotta per la sopravvivenza,
il sangue. Per chi vuole essere rassicurato in un’idea di arte asettica,
pulita, lieve e guantata certamente vedrà in questa pellicola solo elementi di disturbo.
Così il regista: «Era un mondo pieno di letame, alla lettera, e deve esserci.
La vita in realtà era sporca, miserabile, puzzolente». Un artista era dunque immerso
in questi elementi. E ancora: «Il potere della cinematografia risiede
nell’impatto emozionale delle immagini. Questo film è un film sul silenzio». L’oscillazione
che si produce tra bassezza ed elevazione, tra sporcizia e raccoglimento, tra
la scoperta del mostro (monstrum in latino è il prodigio), il blocco grezzo ancora
imprigionato nel ventre della montagna in cui s’intuisce l’opera, e la sua
nascita, cioè la discesa dal monte e l’incontro con la mano del levatore
artista, sono polarità continuamente cercate dal cineasta russo. Né il suo
intento è in alcun modo didascalico. Non vuole risolverle ma solo offrirle come
spunti di lettura allo spettatore. Fatica, sudore, cattiveria, abbandono
viscerale alla poesia che a sua volta non è per nulla un mare tranquillo in cui
specchiarsi ma un rifugio a cui avvicinarsi nella consapevolezza della vita –
Michelangelo fu anche poeta, autore di una cospicua quantità di versi – sono gli ingredienti di questo ritratto, i
nostri punti cardinali per comprendere la bellezza, la levità delle «anime
bianche», secondo la suggestiva definizione di Antonio Forcellino. Quel candore
rivelato nelle statue lo si può capire davvero se prima si sono posati gli occhi sull’abbrutimento
umano, materiale, morale. Il riscatto è racchiuso in quella
leggerezza.
Come ulteriore sintesi cito integralmente il commento di Kleber, autore per «My
movies.it», che mi sembra riassumere molto bene alcuni aspetti toccati in
questo articolo: «Arte e lavoro: Ci voleva un russo per raccontare i valori
perduti dell’italianità. Di tutto il cinema “progressista”, ben pochi hanno
rappresentato con tanto rigore, passione e vicinanza il rapporto fra arte e
lavoro, come ci insegna questo gigante ex-sovietico. Mai cinema italiano
sovvenzionato era riuscito a rappresentarci l’essenza e il carattere dei
cavatori di Carrara; forse per la prima volta il dialetto carrarese è risuonato
in una sala cinematografica, con tutta la sua ruvida e frugale espressività. Grazie,
Konchalovsky, sei stato veramente un grande nel rivelarci l’essenza del genio
di Michelangelo, il rapporto fra arte, denaro, potere, sangue e merda,
indissolubilmente legati in un Rinascimento italiano che riviviamo grazie a
questa incredibilmente riuscita operazione culturale. Oltre al grande cinema,
Konchalovsky e il suo entusiasmante cast ci impartiscono una grande lezione
sull’arte e pure sulla cultura apuana del lavoro, simbolo della creatività
operosa alle origini dell’ormai quasi esternalizzato “made in Italy”, come mai
l’autoreferenziale cinematografia romana è riuscita a (o non ha mai voluto)
fare».
D’accordo
o no, ritengo indiscutibile il fatto che Konchalovsky abbia qui tentato una via
biografica nuova. L’invito è a procurarvi questo film, se l’avete perso nei
giorni della sua proiezione lampo, e a dedicargli un po’ del vostro tempo libero, seguendo
anche tutto il making of, che è pure un’appassionante lezione sulle possibilità
del dialogo tra arte e cinema.
(Di Claudia Ciardi)
Regia di Andrei Konchalovsky. Cast: Alberto Testone, Jakob Diehl, Francesco Gaudiello, Federico Vanni, Glen Blackhall. Genere: biografico, drammatico, storico – Russia, Italia, 2019, durata 134 minuti. Distribuito da 01 Distribution.
Produzione:
Fondazione Andrei Konchalovsky per il Cinema e lo Spettacolo, Ministero della
Cultura della Federazione russa, con l’aiuto dell’imprenditore e filantropo russo Alisher Usmanov
e Jean Vigo Italia con RAI Cinema.
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