Ambrogio Lorenzetti, San Michele Arcangelo nel Trittico di Badia a Rofeno (1337 circa)
Durante
le mie perlustrazioni nei rapporti incrociati fra letteratura e arte, ho
riscoperto le prose di Paolo Volponi sulla peste del 1348. Scrittore
politicamente impegnato, acuto interprete dei divari tracciati dal neocapitalismo
nella società italiana fra il dopoguerra e gli anni Settanta, la narrazione del
contagio è per lui metafora di una sindrome degenerativa che svuota
l’organismo dall’interno privandolo di valori, forza, sentimento.
Quando mi sono avvicinata a quest’opera ho immaginato che avrei letto una vicenda
completamente inventata, un’epidemia dai contorni surreali scoppiata in un
luogo imprecisato, una peste psicologica alla Camus, il grande affrescatore
moderno dell’alienazione e delle volontà malate. Aspetti che ci sono pure qui,
tant’è che Volponi cosparge di tale semenza il suo terreno ma lo fa attingendo a un
primitivismo descrittivo inconsueto, dove in parte si colloca anche la prosa di
Verga, cui non a caso dedicò le sue curiose letture giovanili, elaborandolo in un
tratto assolutamente peculiare della propria identità letteraria. Il risultato è
una sconcertante sovrapposizione di accenti antichi che si dispongono su una
partitura di stampo espressionista. Tetri presagi, strani lampi di luce, sangue
di uomini e animali, sembra il crescendo della fosca agonia virgiliana nelle Georgiche
(chiusa del libro III), quando un’inspiegabile strage cominciata nel Norico, una Totentanz bestiale, travolse la regione alpina, speculare a un
altro contagio, le infauste premonizioni della guerra civile («armorum
sonitum toto Germania caelo/ audiit, insolitis tremuerunt motibus Alpes»,
chiusa del libro I) che avrebbe cambiato per sempre i connotati dell’impero. E il volto ancor più enigmatico di questa scrittura è nel suo repentino
precipitarsi in mezzo alle cose, una febbrile caduta nel gorgo della storia,
per cui dopo poche frasi ecco aprirsi inaspettatamente davanti a noi la disperata
oscurità della stanza in cui i fratelli Lorenzetti, Ambrogio e Pietro, stanno
morendo di peste a Siena. Ormai spossati i loro corpi non hanno più la forza di
niente, perfino le lenzuola nell’arsura che divora la carne sono gravose. Il
lettore si sente come inghiottito, scagliato da un’immagine all’altra. Le poche
frasi pronunciate dai due pittori prima della perdita dei sensi sono un canto
abbandonato sul precipizio. Non doveva la peste mietere vittime solo fra i più
poveri? Si diceva che i derelitti, i malnutriti sarebbero stati preda del
contagio, che sarebbe durata poco e soltanto costoro ne avrebbero sofferto.
Segue poi il rammarico per le opere non finite e le idee rimaste chiuse nella
mente. Segue ancora il silenzio, lo schianto di un albero nell’orto, la morte.
Ma non c’è alcuna tregua nella fine, perché subito giungono i monatti e un
avido mercante che vorrebbe depredare la casa dei ricchi artisti. Sullo sfondo il
fumo continua ad alzarsi dietro le mura cittadine, segno che il morbo non
recede. In simili effetti coloristici e nella violenta isteresi dei
comportamenti umani aleggia un’allegoria infernale, un girone dei dannati che dunque
anche nella resa letteraria cerca i suoi modelli nel medioevo, con un
sostanziale tributo ai toni danteschi.
Eppure,
lungo le rive del fiume apocalittico che tutto trascina non c’è tempo per
pensare. La morte dei pittori sfuma, è già lontana, sovrastata dall’istinto
predatorio dei vivi e poi ancora degli animali, i veri padroni incontrastati
della scena che subentrano all’uomo e fanno apparire logora, insensata la sua lotta
per la sopravvivenza. Simbolo conturbante di disgregazione e catarsi un ariete,
la cui forza bruta s’impone su ogni altra, figura sacrificale dai contorni
ultraterreni ritualmente predestinata a scandire i momenti parossistici dell’epidemia
e, quindi, la sua fine.
Nella prosa successiva e contigua si torna ancora sui temi della grande peste, sul
suo potere indiscusso di palingenesi, signora che dà la morte e dà la vita. Al
centro la figura di un monatto che non si mostra mai in volto e concentra in sé
i più bassi istinti; l’avidità, la lussuria, e ancora una volta la violenza, cardine
del racconto di Volponi, che intende così mostrare su quali ostacoli s’infranga
l’utopia sociale.
Un
versante che l’autore aveva percorso fin dalla gioventù con una precoce
iniziazione fra le campagne dell’Appennino. L’incontro con Adriano Olivetti nel
1949, grazie alla intermediazione di Franco Fortini, allora presidente
dell’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration)-CASAS
(Comitato Amministrativo di Soccorso ai Senza tetto), aveva infatti generato da
subito nella sua quotidianità molti cambiamenti, innescando esperienze in
luoghi significativi per la sua maturazione letteraria. Olivetti lo assunse con
il compito di svolgere inchieste nel Mezzogiorno, in Abruzzo, Basilicata – dove
conobbe Carlo Levi e Rocco Scotellaro – Calabria e Sicilia. All’inizio degli
anni Cinquanta venne inviato negli Appennini a coordinare, da Roccaraso a Cassino,
le inchieste sulle condizioni sociali delle campagne e dei paesi devastati
dalla guerra.
Successivi furono gli incarichi aziendali a Ivrea e a Torino, che gli diedero
modo di sperimentare da un altro punto di vista, quello della vita di fabbrica
con le relative tensioni politiche ed economiche, crisi e strappi nei quali si
dilaniava la città e più latamente l’Italia, e che finirono per coinvolgere
anche lui. Assunto dapprima con l’incarico di amministratore delegato in Fiat venne
espulso per aver dichiarato il suo appoggio al partito comunista, che peraltro
in quello stesso periodo (amministrative del 1975) ebbe una fortissima
affermazione.
Che
simili conflitti siano affiorati nelle sue stesure degli anni Settanta non
stupisce. La peste è una compagna antica e insieme presente. Una volta passata
l’epidemia, come lava vulcanica che incendia, dissecca e bonifica la terra,
anche qui alla morte subentra la bellezza, dal dolore, dal sangue versato scaturisce
una scintilla di vita. È la lezione, l’essenza di tutto il mito greco che lo
scrittore estrae perché scorra nelle vene di una storia moderna in cui ha
scelto uno spartiacque incredibile della modernità, la peste nera del ’48. Anno
zero nella storia dell’arte perché molti talenti furono falcidiati e, secondo alcuni
storici, vero inizio dell’umanesimo. Un riassetto fulminante, un dérapage di equilibri,
uno spostamento di ricchezze che rimescolò la società. Da lì in poi nulla fu
come prima. Un episodio che ci dice come il vero nuovo inizio passi per un
brutale scuotimento perfino delle forze creative. Quale incredibile eco del
nostro tempo e come si avverte vacua in queste pagine la retorica del vecchio
potere che pretende per sé la vittoria e la possibilità di officiare la
rinascita, senza accorgersi che è già stato superato dagli eventi.
Questo
squarcio biografico rappresenta infine un punto di vista certo inusuale ma
anche molto affascinante, per stimolarci a riscoprire l’opera dei Lorenzetti,
che una volta incontrata ha un potere davvero ipnotico. Allora, grazie Paolo
Volponi, che nel dramma di queste tue prose ci hai ricordato pure uno
sfolgorante prodigio nell’arte, la sfortunata vicenda dei due fratelli geniali
che pur così malamente sorpresi, quando vengono raggiunti dalla peste hanno già
donato al mondo i loro capolavori.
(Di Claudia Ciardi)
Edizione di riferimento:
Paolo Volponi, La pestilenza, a cura di Marco Rustioni, Via del Vento edizioni, collana Ocra gialla, 2002
In copertina: xilografia di Lorenzo Viani
Nessun commento:
Posta un commento