Contemplare
gli astri, posare lo sguardo su un cielo stellato, spettacolo cui è ormai impossibile
assistere nelle aree urbane ma perfino in molte zone montane, tanto ormai
l’inquinamento luminoso ha fatalmente raggiunto luoghi e altitudini che si
credevano incontaminati. Eppure, da anni sentiamo ripetere che è necessario
limitare i consumi, che occorre attuare con serietà e decisione piani per il risparmio
energetico, insomma i buoni propositi non mancherebbero se non che nei fatti le
pratiche di vita di ognuno continuano a mostrarsi molto poco rinunciatarie.
Perdere un’abitudine è un po’ come uscire da se stessi, provare a osservarsi da
un punto di vista esterno e, dunque, pare fra le cose più insuperabili per un
essere umano, anche se queste stesse abitudini lo conducono in situazioni di
pericolo o peggio.
C’è
un quadro di Jean-François Millet del 1851, Notte stellata (oggi alla
Yale University Art Gallery), un’opera affascinante già intrisa di suggestioni
simboliste. Il pittore si era ritirato due anni prima a Barbizon, vivendo quasi
come un contadino insieme alla sua famiglia, tenendo solo pochissimi contatti
con gli amici più vicini che avevano condiviso con lui le medesime scelte. In
questa esperienza comunitaria, di ritiro dal mondo, di pacifica ma determinata opposizione
ai ritmi e agli sradicamenti imposti dalla società industriale, arte e vita
coincidono. Nel citato quadro di Millet appare chiara la conquista spirituale
dei due anni passati a stretto contatto con la natura. Il dono di un simile
stato emotivo si traduce in una genuinità davanti al paesaggio, in una bellezza
così rarefatta e delicata che ci avvicina con immediatezza a quel sentire;
questa notte fulgente e silenziosa è un tutt’uno con noi, la percepiamo
fisicamente intorno e dentro di noi.
In
letteratura l’invocazione al mistero e al fascino notturno è una delle metafore
più longeve, centro radiale di memorie poetiche, segno di liberazione, uscita,
ricongiungimento con le forze latenti dell’universo nella speranza di un
rinnovamento, alla ricerca di armonia, di una verità altrimenti sfuggente da
restituire alla propria condizione terrena. Il riveder le stelle che scandisce
l’uscita dall’inferno dantesco, lo struggente richiamo alla notte nei sonetti
di Michelangelo («O notte, o dolce tempo, benché nero,/ con pace ogn’opra sempr’al
fin assalta/ ben vede e ben intende chi
t’esalta…»), ancora una volta arte, poesia e vita strette in un nodo
sentimentale – momento contemplativo, rifugio e posa dal lavoro diurno – il
canto alle costellazioni come una singolare geografia dell’alto e del sé, la
lontananza-vicinanza siderale in cui si corrispondono inquietudini, attese,
moti del cuore.
L’Orsa
maggiore, una delle formazioni celesti meglio riconoscibili a occhio nudo anche
da chi non sia un astronomo di professione, suscita ad esempio le Ricordanze
leopardiane. Quella visione innesca le incredibili strofe del grande canto
covato nei mesi del soggiorno a Pisa e intonato durante il rientro a Recanati,
quando la notte, i profumi del giardino paterno, le sagome scure dei cipressi trascinano alle sorgenti dell’infanzia. Da brividi.
E sempre una notte, mentre attraversavo l’Abruzzo, in un paesaggio a tratti somigliante a
quello incoronato dai Sibillini («quel lontano mar, quei monti azzurri») così
caro all’immaginario del poeta, salmodiai per tutto il tempo i suoi versi; come in un rito aborigeno – cantare sommessamente un luogo, cantare le persone
che si attraversano insieme al luogo, cantarle a sé. E la notte ascoltava,
tutto ascoltava…
Non
è forse la poesia un divinare a momenti tra le energie dell’universo?
«Da
fiel mir Leben zu», allora mi accadde la vita, allora mi venne incontro la
vita, l’esperienza quasi mistica che si fa quando si entra nella propria terra
primigenia (das Erstgeborene Land) raggiunta da Ingeborg Bachmann in una delle
poesie cardine della sua Invocazione all’Orsa maggiore, la terra del sé, i viali odorosi vegliati dalla notte recanatese, lente cosmica nella liturgia di Giacomo Leopardi.
Questo
fluire di eterne lontananze, cercate, accolte nella letteratura e nell’arte è
l’oggetto di tante riflessioni a partire dal mondo antico, nonché un fuoco
perpetuo acceso sul sentire umano. La classicista e ricercatrice Alessia Rovina
ci suggerisce un testo davvero singolare, quasi sconosciuto perfino agli
appassionati del mondo antico, il Tetrabiblos di Tolomeo, da cui muovere
verso l’esplorazione dei cieli. Una fuga dalla pesantezza terrena così da
tornarne “perturbati e commossi”, ispirati dai cicli astrali. Un contributo
scritto con la fine padronanza culturale che contraddistingue la nostra giovane
collaboratrice, la quale ci porta per mano fra dottissimi argomenti, suscitando
in noi con spontanea levità il bisogno di immergerci nelle belle costellazioni
che questi temi disegnano.
(Di
Claudia Ciardi)
Scrigno di stelle infinite - Cupola del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna
*Galla Placidia è tra le più affascinanti figure femminili del mondo antico. Figlia di Teodosio I e nipote per parte di madre dell'imperatore Valentiniano I, rapita durante il sacco di Roma del 410 d. C., andò in sposa ad Ataulfo, successore di Alarico, re dei Goti.
L'unione a quanto sembra venne accettata da Galla senza resistenze né perché costretta, sebbene la sua posizione di ostaggio non le lasciasse molti margini di scelta. Le ricostruzioni propendono per un matrimonio d'amore, purtroppo non benedetto dal tempo. Nell'atto di Galla si legge una precisa volontà politica di congiungere le forze degli invasori integrandole all'ordinamento romano per pacificarle. Una statista visionaria che provò a rovesciare le sorti della storia.
«Noi siamo figli delle stelle…»
di Alessia Rovina
Per la rubrica «L'Argonauta»
Mi
sono per molto tempo accostata all’astrologia con bonario scetticismo,
ascoltando l’oroscopo con un’irrimediabile scissione interiore: da un lato con
la finta indulgenza che si accorda a quelle manifestazioni folkloristiche che
si ritengono divertenti e un po’ ridicole, ma che è sempre buona creanza
ascoltare e lasciare che si manifestino in tutta la loro esuberanza, pur
giudicandole interiormente come assurde, dall’altro con l’irrazionale pulsione
di abbandonarmi alle volontà delle luci del cielo e dei pianeti, buone e
cattive divinità che dai tempi antichi continuano a far riecheggiare i loro
desideri tra le infinità del cosmo. D’altro canto, da studentessa devota alle lettere,
nelle mie immedesimazioni in eventuali alter ego scientifici la mia invidia era
rivolta agli studiosi di astronomia. Poter possedere i mezzi per leggere – e
non arrivare necessariamente a possedere – ciò che di più misterioso sovrasta
l’essere umano, lo coinvolge, lo attrae, lo terrorizza, è un richiamo davvero
ancestrale. Queste esperienze sopra evocate possono essere, forse
violentemente, definite nella nostra lingua da due termini che ben conosciamo:
astrologia ed astronomia. Nella lingua d’uso, fantasia e scienza.
Effettivamente, un po’ di violenza c’è nel nostro discorrere… Ma non è affatto
così per i termini da cui il nostro italiano scaturisce. Come sempre accade
nelle evoluzioni contemporanee delle nostre lingue, è doveroso riportarci
all’etimologia primigenia, così da percepire con chiarezza quale sentire
abitasse nelle menti e nei cuori del passato. Astrologia ed astronomia, com’è
noto anche oggi, condividono in parte il medesimo oggetto di studio, reso dal
primo elemento, astro, dal greco τὸ ἄστρον; proprio in virtù di questa
comunanza, anticamente i termini si equivalevano. L’ ἀστρολογεῖν e l’ἀστρονομεῖν
erano in origine verbi che designavano concordemente lo studio delle stelle.
Questa attività era così connaturata nell’uomo da essere condivisa da ogni
cultura e popolo: che dire della grande sapienza astronomica del Vicino Oriente
antico, tra cui si annoverano i Sumeri, i Babilonesi, che nelle fonti classiche
vengono uniti ad un’altra popolazione semitica, i Caldei, così versati
nell’arte astronomica da divenire sinonimo stesso di “studiosi delle stelle”, *
(1) scopritori di alcuni importanti fenomeni spaziali. L’estremo Oriente, poi,
non guardava dubbioso la volta celeste: gli astronomi di corte dell’imperatore
della Cina affrontavano con metodologia scientifica lo studio delle stelle e
dei moti dei pianeti, così come le popolazioni dell’America del Sud, come i
Maya, appassionati cultori della materia celeste, così evoluti nelle loro
indagini da aver edificato templi-osservatorio, i quali riuscirono ad elaborare
cronologie ed almanacchi di un’esattezza strabiliante, a scopo politico e
religioso, oltre ad essere stati esperti studiosi del pianeta Venere, i cui
cicli regolavano la vita della popolazione. Dunque, almeno fino ad un certo
punto dell’antichità, lo studio dei fenomeni celesti era, pur nel suo rigore,
senza difficoltà connesso a simbologie religiose e magiche, evidentemente a
buona ragione: la volta celeste, così lontana ed intrigante, non poteva non
racchiudere in sé una serie di significati soprannaturali. Nell’Occidente però,
ad un certo punto la situazione inizia a scricchiolare. Lo studio delle stelle
e dei pianeti, in quella branca che si concentrava sull’influsso che queste
realtà fisiche esercitano sull’uomo e sulla realtà a lui propria, riscoperto a
Roma dopo l’assoggettamento dell’Oriente, inizia ad essere oggetto di
restrizioni e divieti. Proliferavano, senza filtri di alcun genere, prontuari
di quella che oggi definiremmo astrologia volta all’elaborazione di oroscopi e
compendi di predizioni astrologiche, compilati spesse volte da autentici
ciarlatani, pronti ad approfittare - ieri come oggi - di quel bisogno tutto
umano di prevedere. In questa grande confusione, in cui ciascuno poteva farsi
sacerdote del futuro, i nervi, pure dei potenti, erano comprensibilmente a fior
di pelle: la superstizione rese, in epoca augustea, necessaria una
regolamentazione dei pronostici astrologici, che in alcuni casi contemplò
persino la pena capitale.
Il
grande caos che regnava impose una distinzione anche nel mondo della
speculazione/ricerca filosofica. Già nel II secolo d.C. il filosofo scettico
Sesto Empirico operò una separazione tra la genetliaca – arte importata dai
Caldei che stabiliva una συμπάθεια tra le cose della terra e del cielo, in un
legame strettissimo ed ineluttabile in cui ogni avvenimento terrestre era
causato da particolari influenze astrali – e la scienza astrologica e
matematica che si serviva di particolari calcoli per prevedere – ritorna questa
fondamentale necessità umana – le manifestazioni meteorologiche. Ma un
importante passo è compiuto da uno studioso divenuto poi giustamente celebre:
Claudio Tolomeo. Pioniere, in un momento in cui la materia astrologica era
pericolosamente alla mercé di autori acritici ed impostori, di una trattazione
originale ed organica in cui la paccottiglia di fantasie riguardanti l’astrologia viene spogliata del
suo alone di prodigiosa infallibilità, esposta nelle Previsioni Astrologiche,
conosciute come Tetrabiblos data la suddivisione in quattro libri.
Tolomeo
conduce questa voluminosa indagine con la maggiore acribia possibile,* (2)
conferendo dignità di studio all’astrologia ed alle previsioni astrologiche
proprio perché ricondotte con decisione nell’alveo della scienza astronomica,
la μαθηματική, la quale grazie alla sua esattezza e al suo basarsi su calcoli e
formule ben definite – oltre che concentrarsi su fenomeni certi, universali e
verificabili – riesce a corroborare
l’elaborazione delle diverse previsioni che, ora sì, potranno riguardare i temi
natali dei soggetti e delle popolazioni, senza le riserve che giustamente si
porrebbero dinnanzi ad un astrologo farlocco! Naturalmente, un grande studioso
come Tolomeo non può lasciarsi abbindolare dalla chimera dell’infallibilità
della previsione: egli avverte l’interlocutore nel Libro I dell’impossibilità
di generare un pronostico inconfutabile a causa di alcune importanti
opposizioni. Anzitutto la congerie di variabili e dettagli che si concentra nel
momento in cui si compiono previsioni per l’essere umano è tale da scoraggiare
ogni netta presa di posizione, sia a causa dell’ambiente, che costantemente
esercita la propria influenza, sia a causa di ogni possibile ostacolo che si
può frapporre tra il disegno planetario e la sua effettiva attuazione
terrestre.* (3) Ad ogni modo, lo studioso rileva comunque la straordinaria
utilità scientifica ed umana connessa all’elaborazione di previsioni
astrologiche: non bisogna infatti pretendere conoscenze inaccessibili all’uomo,
ma bisogna amare e studiare tutto quanto ci è concesso del cielo e delle sue
meraviglie, sapendosi accontentare delle risposte che può dare ai travagli
umani, pure se talvolta il pronostico può risultare errato – e sicuramente
accadrà, come Tolomeo ha razionalmente sentenziato (Tetr., I, 2, 20);
inoltre, non è opportuno accanirsi contro la scienza astrologica solo per le
menzogne di qualche arrogante impostore, ma anzi, grazie alla guida offerta
dall’esattezza dell’astronomia, occorre proseguire nello studio dei pronostici
in connessione ai vari aspetti della natura umana, in quanto secondo l’Autore è
tanto utile per l’essere umano poter essere sufficientemente preparato a quanto
il futuro avrà da offrirgli, sia in quegli aspetti che da Tolomeo vengono
ritenuti inevitabili e tendenzialmente spiacevoli – un po’ di ironia viene
provata dal lettore contemporaneo nel momento in cui l’autore elenca i
differenti modi in cui la morte può sopraggiungere in base al tema natale (Tetr.,
IV, 9) – sia in quegli avvenimenti in
cui l’uomo ha possibilità di intervenire per modificare il corso della propria
vita, esemplando i suoi movimenti e le sue decisioni sul proprio tema natale,
in accordo così con le sue più profonde caratteristiche e necessità, stabilite
ab origine dai transiti celesti, in una imitazione terrena dell’armonia che
risuona nel magnifico Universo.
Il
merito di Tolomeo, nel panorama del II secolo d. C., è notevolissimo: aver
spogliato l’astrologia delle sovrastrutture religiose, esoteriche e magiche che
sin dalla sua nascita l’avevano caratterizzata, affiancandola ad un metodo
scientifico e verificabile improntato alla concretezza e ad una sorprendente
lucidità, che traspare anche nelle pagine più originali del suo Tetrabiblos.
Cari
compagni di viaggio, nell’antichità ogni navigatore degno di rispetto iniziava
e proseguiva il proprio viaggio scrutando scrupolosamente la volta celeste,
ricavando da essa i termini e le rotte, tracciando con i lumi il proprio
cammino. È proprio con questo percorso nelle molteplici relazioni che gli
uomini antichi intrattennero con gli astri che anche noi cerchiamo, oggi, di
scoprire la nuova rotta che abbiamo dinnanzi.
(Di Alessia Rovina, classicista, studiosa di teatro, ricercatrice)
Note:
(1) Sono particolarmente affascinanti i frammenti che ci sono pervenuti dei
cosiddetti oracoli caldaici, rivelazioni sapienziali attribuite, tra gli altri,
al profeta iranico Zoroastro, i cui scopi erano l’iniziazione ai culti solari e
alla pratica della teurgia, da cui l’attribuzione generalmente condivisa a
Giuliano il Teurgo.
(2)
D’altro canto non bisogna dimenticare la grandiosità della sua opera più nota,
la Syntaxis mathematica, conosciuta con il nome di Almagesto,
calco dal titolo greco dei traduttori arabi medievali, a cui dobbiamo la nostra
più grande gratitudine per aver permesso la copiatura e la diffusione su larga
scala dell’opera, la quale raccolse entusiasti seguaci proprio tra gli studiosi
islamici a partire dal IX secolo, oltre che tra gli Europei, i quali esemplarono
le loro conoscenze astronomiche proprio sul cosiddetto modello tolemaico.
(3) A tal riguardo Tolomeo distingue decisamente tra influssi planetari potenti che causano effetti ineluttabili, quali calamità naturali ed epidemie, e disegni celesti più deboli e decisamente individuali, per i quali è possibile un intervento umano in grado di modificare il corso degli eventi.
Edizione consultata:
Claudio
Tolomeo, Le previsioni astrologiche (Tetrabiblos), a cura di Simonetta
Feraboli, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, 1995
Jean-François Millet del 1851, Notte stellata
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