Aprile,
ancora orfani d’arte. Chiuse gallerie e mostre, le Muse continuano a tacere.
Non poche le deroghe previste per diverse categorie, ma difficoltà a catena per
il settore della cultura e gli addetti ai lavori. Tuttavia proprio in questo momento,
auspicabilmente superando l’idea di chiusura totale – da quando i musei sono
spazi in cui ci si assembra? – se
decidiamo infine di essere propositivi e lavorare con vera convinzione al
ritorno in sicurezza del pubblico, possono nascere sinergie interessanti. La
scorsa estate, in una fase di ripresa delle attività con l’inaugurazione di
allestimenti di rilievo – penso ai grandi eventi celebrativi del Barocco in
Piemonte – si è nuovamente acceso l’interesse e il dibattito sui canali di
fruizione dei beni culturali. Una boccata d’ossigeno, che ha pure messo in luce
la buona risposta del pubblico, segno che quando c’è un’offerta, quando si
torna a far circolare la bellezza, le persone non si sottraggono. Sempre
d’estate in un sito tedesco che riproponeva la lettura di una rivista sulla
necessità di curare l’arte contro l’oblio, mi ha fatto piacere vedere citate
diverse istituzioni e iniziative per la divulgazione culturale, biblioteche,
progetti editoriali e blog, tra cui il mio. L’intento è stato mostrare
come differenti contenitori e saperi possano dare manforte alla circolazione di
idee, dunque conquistare terreno a discapito del silenzio, della dimenticanza,
vere insidie per l’educazione delle nostre sensibilità.
L’ultima
puntata della fiction su Leonardo, al di là della sua impostazione romanzata,
da fantasy rinascimentale, ma comunque gradevole, ha fatto oltre un milione di
ascolti in più sulla partita di Champions trasmessa in contemporanea. Fra i
titoli di commento si legge “Tutti in piedi per Leonardo”, con sullo sfondo la
polemica relativa alla riapertura degli stadi che proprio in quella giornata ha tenuto
banco; la miglior risposta l’hanno data gli spettatori. Investire
sulle produzioni cinematografiche e teatrali così da poter contare su un
ulteriore raffinato mezzo per esportare la bellezza italiana nel mondo; storie
di artisti e dei luoghi in cui si sono svolte. Quale migliore e più immediata
risorsa per catturare l’attenzione. Quando uscì il docufilm su Caravaggio della
Nexo Digital sull’onda della grande mostra milanese – voce tormentata e
straniante di Manuel Agnelli – con un minimo battage in rete tra blogger e
appassionati, in uno spettacolo pomeridiano di un giorno feriale, abbiamo
portato al cinema più di duecento persone. Fu il documentario d’arte più visto
di sempre in Italia.
Di
certo, l’emergenza sta obbligando a ripensare modelli, luoghi e tempi
d’incontro con la cultura. Nel caso dell’arte gli strumenti multimediali
offrono una sponda, purché vengano in ausilio, non per soppiantare ma per
affinare ed espandere le potenzialità del patrimonio culturale. E un altro soccorso affatto secondario può forse venire
dall’editoria. Il libro come catalizzatore di un interesse, come veicolo di
racconti che tengano accesa l’immaginazione attorno a ciò che, se non si può
vedere fisicamente, almeno resista nel nostro sentire, e venga qui coltivato
fino all’incontro con lo sguardo. Premessa
un po’ lunga per dire che le vie dell’arte portano sempre
a un innalzamento che riguarda aspetti immateriali del vivere, altrettanto e
talora più cruciali di quelli considerati ordinari, e per introdurre la storia
di un gruppo di pittori che alla fine dell’Ottocento in nome di questa sostanza
spirituale diede forma a un sogno, fuori dai canoni impressionisti, spinto dal
vento del simbolismo letterario, affascinato dalle intonazioni del trascendente
che volle sintetizzare nell’uso del colore. Un movimento di rottura tuttavia
diverso dalle avanguardie storiche, composto da anime per così dire più fluide,
sfuggenti, anche lontane tra loro per scelte esistenziali e dei soggetti
rappresentati, poco se non affatto riducibili a schemi, manifesti, linguaggi
comuni.
La storia dei Nabis mi appassiona da tempo in quanto cerchia eterogenea
che nel travaso onirico fra segno, colore e parola ha scolpito la pietra sacra
della propria avventura. Non solo, ma fin dal nome che si attribuirono –
“profeti”, in ebraico – intesero mettere
al centro l’idea di un oltre sentimentale, di un sentire al di là, autentico
fulcro d’ispirazione che produsse filoni creativi ancora non debitamente
esplorati nelle loro ricadute, cosmi d’incredibile forza immaginifica da Pierre
Bonnard a Marcel Denis, Paul Sérusier, Félix Vallotton, Jan Verkade, Edouard
Vuillard.
Sono
i frutti di una lunga stagione che connette i Preraffaelliti, i Rosa Croce, i
Nazareni, fino ad approdare ai ritiri campestri nella comunità di Worpswede –
fabbrica del primo espressionismo. E da qui a certe correnti pre-dadaiste, già
nell’ottica di un superamento del simbolismo, animate da una concezione
naturalista e anarchica, orientate a istanze di spiritualità, come nell’ambito
della colonia di artisti attivi a Monte Verità, presso Ascona (1914-1915). Si
ridiscutevano le consuetudini realistiche della tradizione rinascimentale, pure
attingendo alla sua espressione più matura – non la lezione di Beato Angelico e
Ghirlandaio, ma quella di Raffaello e Leonardo da Vinci, che guardano alla
natura con occhio più distaccato,
introspettivo – si voltavano le spalle alle conquiste figurative
dell’impressionismo per infondere alle cose una qualità simbolica, per
proiettare sul paesaggio le ombre del non visto, per dare colore agli
invisibili legami che permeano la realtà. Tali istanze determinarono nei
singoli artisti risvolti biografici assai diversi. Per Sérusier, l’allievo
prediletto di Gauguin sotto i cui ammaestramenti, nei memorabili giorni del
ritiro di Pont-Aven, dipinse il celebre Talismano (1888), fu la volontà di
immergersi negli scenari selvaggi della Bretagna, lontano dai clamori della
capitale ma più vicino a quel primitivismo cui lo aveva iniziato il suo
maestro. Nel caso dell’olandese Jan Verkade la scelta di farsi monaco. Di
Gauguin, l’ispiratore di tutti, è noto lo strappo che dall’estate del 1891 lo
portò a Tahiti – da allora Sérusier venne considerato il suo successore, nonché
in un certo senso l’esecutore testamentario di quei singolari seguaci profeti
rimasti orfani del padre. L’inquieto Vallotton, che si era fatto conoscere per
la sua guerra dichiarata alle convenzioni, nel 1899 in seguito al matrimonio
con una delle figlie del grande mercante d’arte Alexandre Bernheim, si adeguò a
una pittura più conformista popolata di vedute e nature morte. Bonnard invece
restò fedele a se stesso, ancorato al suo tratto finemente psicologico,
accentuandone le aperture coloristiche. Picasso definì la sua una “non
pittura”, perché a suo dire Bonnard non andava mai al di là della propria sensibilità, non
sapeva scegliere. Ecco cosa scrive Sileno Salvagnini, curatore della monografia
sui Nabis pubblicata dalla Giunti: «Dell’inflazione cubista che si sviluppò
dopo la prima guerra mondiale, avrà a dire un pittore polacco avvicinatosi ai
Nabis: «Accanto a Cézanne, Bonnard era stato per noi il punto di partenza di
una opposizione contro gli epigoni del cubismo, che, da quell’epoca, riempivano
le esposizioni di mandolini schematici, di forme geometriche sempre le stesse,
e di qualche colore della loro povera tavolozza. “Dei pidocchi sulla mia testa”
diceva Picasso parlando di loro. Il mondo di Bonnard invece apriva davanti a
noi delle strade che ci parevano meno limitate, perché restava fedele alla
tradizione di Cézanne e di Gauguin».»
Menti
di una generazione geniale che si erano ritrovate sui banchi del Lycée
Condorcet di Parigi, quindi all’Académie Julian. Letterati, basti su tutti
Marcel Proust, figure di primo piano della stagione politica a venire, come ad
esempio Robert Dreyfus, mecenati, banchieri, quali i fratelli Natanson, di
origine polacca, che rilevarono «La Revue Blanche», organo di stampa degli
esordi Nabis, e finanziarono numerose mostre. Tutti, per un singolare gioco del
destino, condivisero la loro adolescenza nelle classi del leggendario liceo
parigino, di cui lo scrittore Daniel Halévy ci ha consegnato un vivido
ritratto. Ma è anche una storia di figure femminili, muse discrete, che
accompagnarono l’attività dei pittori, come modelle e mogli. È il caso della
fascinosa Misia, quasi apparizione ultraterrena, dipinta con struggente
devozione da Vuillard, della femminilità protettrice di Marta,
moglie di Denis, dell’erotismo ipnotico di Marie Boursin, prima modella, poi
sposa di Bonnard. Una
parabola che è durata appena dodici anni, indicativamente dal 1888 al 1900, la
cui linfa ha però continuato ad alimentare immaginari d’arte paralleli e di
molto successivi alla conclusione ufficiale del sodalizio. Questi percorsi sono
tuttora oggetto di studio e approfondimento, come ad esempio nel caso della
mostra sulle ricadute dell’opera di Maurice Denis nella pittura d’avanguardia
di matrice austriaca (Simbolismi ai confini dell’impero asburgico/ Symbolismus
an den Grenzen des Habsburger Reichs, Skira, 2007). Un’avventura creativa che
non ha smesso ancora di parlarci né di liberare la sua carica profetizzante.
(Di
Claudia Ciardi)
* In copertina: Paul Sérusier, Il talismano, 1888 (quando lo dipinse, Sérusier aveva ventiquattro anni)
Edizione
di riferimento:
* Paul Ranson, Lustrale, 1891
Si rimanda inoltre alla lettura di:
Simbolismi ai confini dell'impero asburgico
Il piegar de’ panni s’immerge nella luce
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