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11 marzo 2020

Silvio Pellico - Le mie prigioni


Da alcuni anni mi ripromettevo di leggere integralmente questo libro. Ricordavo solo qualche brano in vecchie antologie scolastiche e poche frettolose notizie circa la biografia dell’autore. A gennaio, non so perché, ho sentito il bisogno di tornare a quelle pagine. In genere, quando vado verso qualcosa o qualcuno, passato gran tempo dal mio primo proposito, non è indifferente la ragione che mi spinge di nuovo a incontrarlo. Così, qualche settimana fa, ho avvertito che il libro di Pellico aveva finalmente da parlarmi.
Scriverne ora potrebbe suonare quasi beffardo, ma chi poteva presagire solo poche settimane fa la situazione che stiamo vivendo? Per prima cosa mi viene da pensare alle date, che un po’ mi ossessionano, dico la verità. Non sempre, ma ci sono dei momenti in cui sembrano portarci sprazzi del passato con toni più vividi, per correlazioni che forse son solo nella nostra testa ma che pure non riusciamo a ignorare del tutto. Così risalire a un evento è talvolta cercare le ragioni di un vissuto che riguarda noi o altri, almeno coltivare ipotesi di somiglianza, per così dire.
Silvio Pellico fu arrestato nell’ottobre del 1820. Nel suo rendiconto lascia talora spazio a strane coincidenze, pur non annoverate esplicitamente come tali, ma che registra in forma di episodi dai risvolti per certi aspetti premonitori. Intervengono è evidente lo stato psicologico del detenuto e la difficoltà di dominare le forti impressioni causate dall’arresto. Ricorda la piazzetta veneziana, nei pressi del palazzo del Doge, che un pover’uomo gli indicò quale luogo di sventura – mesi dopo Pellico e Maroncelli, suo compagno di prigionia, vi avrebbero ascoltato la sentenza.
Ma c’è anche l’attaccamento spontaneo, generoso e insperato, di molti: custodi, intendenti, civili che vivevano nei pressi delle prigioni e che lo incoraggiano rivolgendogli un saluto, furtive parole di affetto; immensa carità, lo scrive più volte, per un’anima stremata. Umano conforto che ritrova allo Spielberg nella persona del vecchio Schiller, il sorvegliante dai modi burberi ma di gran cuore, nelle guardie che lo accompagnano per l’ora d’aria, nei medici, nei cappellani. Proprio tale umanità gli permise di non recidere il filo sottile che lo legava alla vita, di non sconfortarsi oltre ogni limite, di reggere nel corpo e nello spirito, di superare le mancanze del cibo cattivo – non furono pochi i prigionieri italiani morti per malnutrizione – di vincere le malattie – stati febbrili, coliche, affezioni respiratorie che sovente lo affliggevano, contribuendo a demoralizzarlo.
La grandezza di questo memoriale sta nel raccontare i travagli del corpo, confinato in uno spazio angusto e svilito da ogni genere di tormento fisico e interiore, senza lamento, senza accuse postume. Lo scrittore si racconta, si mostra nei momenti più oscuri della caduta, a un passo dal cedere, ma ogni volta mette a fuoco, nella sofferenza, quei pochi eppure potentissimi elementi che gli permettono di sostenersi per uscire dal baratro. Perfino l’infermità di Maroncelli, che gli comporta la mutilazione di un arto, sopportata con coraggio, quasi sfidata, diviene un elemento che rafforza la complicità dei due condannati e li fa approdare a uno stato di quiete – non di pura rassegnazione – ma di calma nei confronti del mondo. Un libro scritto sulla pelle, in senso letterale.  
Al momento dell’arresto Silvio Pellico non era una figura così nota nel panorama culturale italiano. Eppure, quella notizia, riaccese l’attenzione sulla sua personalità e gli avvicinò tanti nelle ore complicate del processo e della condanna. Quello che era un mite e riservato autore di testi di teatro, uno dei quali, la Francesca da Rimini, giunto a un discreto successo popolare, l’attivista politico di cui poco si sapeva ma che a Milano frequentava i migliori elementi dell’aristocrazia illuminata e dell’intellettualità progressista italiana ed europea, conobbe, per un inquietante tiro del destino, proprio nelle sue ore peggiori, una specie di battesimo, un riconoscimento durevole, che alla liberazione si sarebbe accresciuto accompagnandolo per il resto della vita. Ne sono commovente testimonianza le folle che fanno da scorta al suo viaggio verso le carceri imperiali. Da quell’«immenso popolo» in preda al terrore, ma presente alla lettura pubblica della sentenza, dai paesani che salutavano il passaggio della carrozza e che le guardie facevano fatica a tenere lontani, agli amici che vengono a congedarsi. Struggente l’episodio degli attori di una compagnia teatrale che a Udine si travisano da inservienti e preparano la stanza dove Pellico e Maroncelli trascorreranno la notte prima di passare il confine. Uno sfiorarsi di mani, una stretta rubata lungo le scale, in silenzio, coi visi rivolti a terra per dissimulare i gesti e non farsi scoprire dalle guardie. Quanta poesia in ogni riga di questo episodio. Il contatto, negato per regolamento ai prigionieri, talvolta possibile grazie alla condiscendenza delle guardie, torna a più riprese, sprigionando una forza che si trasmette al lettore senza filtri retorici. Una sensazione che con immediatezza passa dal protagonista a chi ripercorre i fatti insieme a lui; potere irrefrenabile del gesto, l’umano che travalica la parola e di là dal linguaggio comunica tutto se stesso.
Nell’agosto del 1820 l’Austria aveva emanato un editto assai duro contro i reati politici, che contemplava la pena di morte per gli affiliati alla Carboneria. Chi incappava nella giustizia si aspettava allora il peggio. La polizia austriaca avrebbe comminato pene esemplari, per fiaccare l’adesione ai moti patriottici. Pellico lo sa e non teme tanto per se stesso, quanto per il dolore che ne avrebbero avuto i genitori una volta venuti a conoscenza della sua esposizione politica.
Il raffronto tra la pacifica condizione di intellettuale attivo nei circoli milanesi, fino all’anno che precede la sventura, e l’abbrutimento generato dalla prigionia, con l’angoscia che si addensa sui giorni trascorsi in cella, è uno dei centri radiali della narrazione. In questo spossante contrasto, la figura di Pellico è sul punto di spezzarsi. Eppure, quando ormai pare non potersi riprendere, trova energie nuove dentro di sé, riuscendo a risollevarsi. Il pensiero dei propri cari, la convinzione di non aver smarrito i principi guida della morale in ogni scelta compiuta, la consolazione della fede.            
Le memorie di quest’uomo minuto, la cui fisicità lo faceva apparire inerme ai disagi della reclusione, ma che aveva una forza nella propria mente, una disposizione caratteriale che gli hanno permesso di non sgretolarsi mai, di parare i colpi della sorte e volgere gli eventi alla propria salvezza, si sono mostrate un faro acceso nella tempesta. All’inizio dell’anno, quando ho ripreso in mano quest’opera, le sue parole sono giunte inaspettate, l’eco di un tempo trascorso che però a tratti mi pareva anche estremamente contiguo al mio. E poi, le immagini della sua vicissitudine affidate a una prosa così asciutta, incisiva, dove il resoconto di fatti monotoni e angoscianti – la lunga carcerazione in Moravia e prima ancora il fermo a Milano e le fasi dell’interrogatorio fino alla sentenza a Venezia – apre poeticissimi squarci che sorprendono il lettore proprio perché calati in un contesto ossessivo, di claustrofobica incertezza. Due righe bastano a circoscrivere un fatto, l’espressione di una persona, l’attimo di una giornata trascorsa nella più fosca disperazione in mezzo alla quale una voce cade improvvisa, recando sollievo al prigioniero.   
Quando si decise a divulgare la sua esperienza del carcere, era il 1832. La stesura iniziò nell’estate del 1831 e il manoscritto fu dato alle stampe dall’editore Bocca di Torino ai primi di novembre del 1832. L’opera ebbe un riscontro di pubblico immediato, non solo in Italia. Le traduzioni si moltiplicarono ovunque anche se ciò non significò un incremento dei guadagni da parte dell’autore – per contratto Pellico si vide corrisposte le sole 900 lire dovute alla consegna del libro. Anche questa una storia molto italiana, purtroppo. Entusiasmo e apprezzamenti arrivarono da tanti personaggi di spicco – Puškin lesse il libro pervaso da ammirata riverenza per colui che definì “il martire mansueto”, la nobiltà piemontese gli offrì la propria amicizia, Luigi Filippo di Francia lo richiese come precettore del suo ultimo figlio. Metternich invece nelle settimane di quel successo masticava amaro. Fu tentato inutilmente il sequestro censorio, vennero scritte due confutazioni da parte austriaca – una delle quali di pugno del governatore della Moravia – ma si decise di non pubblicarle, pervennero note di protesta ad alcuni governi, tra cui ovviamente la monarchia piemontese. Si provvide a un ritiro pro forma del volume che nei fatti continuò a circolare.
Nel turbamento con cui Silvio Pellico ripercorre i dieci anni di carcere, colpisce l’attenzione per tanti minimi dettagli che tuttavia s’impongono alla vista come preziosi intarsi. Dopo dieci anni la sua memoria è integra, nitida, non ha rimosso niente, non risparmia persone e circostanze. Il dolore per non aver potuto salutare un compagno, la pena per l’essere impedito dall’alleviare le sofferenze di qualcuno. Altra stupenda poesia: il vecchio Schiller che ormai malato si trascina in un piccolo cortiletto a leggere e riposare; la fine è vicina. Pellico lo intravede, lo segue qualche attimo con lo sguardo, vorrebbe sorreggerlo. Così l’Austria sfumerà in un’immagine rothiana fermata nel parco di Schönbrunn. Alla scarcerazione i prigionieri, accompagnati per Vienna affinché prendano atto della magnificenza dell’impero asburgico, passeggiano per le vie della residenza imperiale. D’improvviso «ne’ magnifici viali […] passò l’imperatore, ed il commissario ci fece ritirare, perché la vista delle nostre sparute persone non l’attristasse». 
Al dramma della prigione sottentrano quindi le limpide memorie dell’infanzia e della giovinezza, il caro parente che gli dà riparo a Lione, quando la bottega del padre a Torino inizia ad andar male, provvedendo alla sua educazione umanistica. Lo studio e la conoscenza di coltissimi amici a Milano, dove incrocia i nomi di punta che collaboravano al «Conciliatore» e dove lui stesso diviene precettore nella casa del conte Luigi Porro Lambertenghi.  
Nelle attuali dialettiche cui la politica e l’opinione pubblica attingono per rappresentarsi, appare chiaro come si faccia ricorso molto più frequentemente alla resistenza che al risorgimento. Non solo per una vicinanza generazionale, a mio avviso. La semplificazione del dibattito comporta una lettura più comoda e facilmente utilizzabile dei fatti relativi alla resistenza, laddove il risorgimento si configura come lotta nazionalista. Negli stessi racconti relativi alla resistenza gli elementi patriottici tendono a essere ridimensionati, sfumati in una guerra più grande e complessa in cui convivevano diverse istanze. E va bene, ma liberarsi dagli oppressori era liberare la patria. Nel Novecento come un secolo prima. Questo contenuto nazionalista ci si pone come un divieto, oggi. E divide fortemente gli intellettuali. Opere come Le mie prigioni e i tanti scritti prodotti da quella cultura resistente e congiunta nello sforzo di unire l’Italia, sono percepiti quasi come letteratura minore; dove ci sono i primi tasselli di una memoria collettiva, voltiamo le spalle, convinti che non si tratti di cose poi tanto importanti. Ma è l’ignoranza di quei testi, il fatto che ci si tiene a distanza dalle fonti, a non farci acquisire un giudizio storico schietto, che sappia guardare agli avvenimenti per ciò che realmente hanno prodotto. Peggio ancora, è questa ignoranza del fatto storico e dei suoi protagonisti che impedisce di ricordarci a noi stessi.
La decisione di scrivere l’autobiografia del decennio passato in carcere fu tutt’altro che semplice per Silvio Pellico. Era tornato in famiglia a Torino con molti problemi fisici. Impiegò più di due anni per riprendersi dalle artriti e dai problemi polmonari. Nei cosiddetti capitoli aggiunti parla delle difficoltà di ristabilirsi completamente e di come la madre, preoccupata, vegli di continuo sul suo stato di salute, perfino mentre dorme. C’è anche qui un momento di poesia assoluta. La prima notte di settembre del 1830, a casa, dopo un lungo viaggio affrontato tra febbri e timori che la liberazione venisse ritardata a causa dei moti occorsi in Francia alla fine di luglio. La madre si aggira per le stanze e vigila sul sonno del figlio, assicurandosi che stia bene. Questa scena, seguita subito dopo dal risveglio e dall’abbraccio tra i due, nel silenzio assoluto del mattino, placa di colpo tutte le angosce patite, i dolori, le asprezze di quei miseri anni di separazione. Simili doni che non pensava più di ricevere, permettono al prigioniero di riscattarsi, di rientrare a poco a poco nella propria vita.
Le polemiche sulla sua conversione in carcere, gli attacchi politici, anche veementi a mezzo stampa, di chi non aveva voluto comprendere il suo memoriale, non lo fiaccarono. Si tenne alla larga dalle contrapposizioni, lasciò che si esaurissero. L’essere tornato al centro dei propri affetti, l’aver lottato con dignità, la crescente risonanza pubblica bastarono al suo messaggio.     

(Di Claudia Ciardi)


* Le foto a corredo di questo articolo sono di Daniele Regis ©

La foto di copertina ritrae la tomba di Silvio Pellico al Cimitero Monumentale di Torino



Edizione consultata: 

Silvio Pellico, Le mie prigioni, a cura di Angelo Jacomuzzi, Mondadori, Milano 2012 [prima edizione 1986]

*molto valida per il ricco apparato di note provvisto dal curatore





 









 

Per i cosiddetti "capitoli aggiunti":

Edizioni Paoline, Bari 1951 




Iscrizione celebrativa della stesura di Le mie prigioni in Via Barbaroux a Torino, presso quella che fu labitazione di Silvio Pellico





Via Barbaroux - Torino

14 maggio 2017

Ernst Friedrich - Guerra alla guerra



Anarchico, pacifista, Ernst Friedrich fece della denuncia degli orrori scaturiti dalla prima guerra mondiale una ragione di vita. La sua pubblicazione, Guerra alla guerra, è una raccolta fotografica che tutt’oggi costituisce un unicum nel suo genere per la quantità dei materiali e il significato che questi numerosi scatti dai campi di battaglia assumono negli accostamenti voluti da Friedrich. Suo intento smascherare l’ipocrisia borghese, la sistematica menzogna, la violenza militarista di cui erano intrise le società europee di fine Ottocento. Tali aspetti non potevano che deflagrare in uno scontro immane destinato a cambiare il vecchio continente almeno su tre livelli: quello etnico, perché le popolazioni soffrirono perdite elevatissime e ripetuti sradicamenti dai territori dorigine, quello politico con il crollo degli imperi, e in conseguenza quello geografico, perché le nazioni videro mutare le loro frontiere. 
Nato a Wroclaw (Polonia) nel 1894 in una famiglia della piccola borghesia, Friedrich fin da giovane frequentò i movimenti operai. Poco prima della guerra riuscì a coronare il sogno di fare l’attore, recitando in diversi ruoli importanti al regio teatro prussiano di Potsdam. All’indomani dello scoppio del conflitto, essendosi rifiutato di andare al fronte, venne internato fino al 1918, quindi liberato dai rivoluzionari spartachisti alla cui causa decise di unirsi. Naufragato anche questo progetto, con lassassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, riparò a Berlino, dove si occupò di organizzare i gruppi pacifisti chiamati “Freie Jugend”. Proprio in uno di questi raduni Friedrich inaugurò la prima “Mostra d’arte dei lavoratori”, esposizione fortemente connotata dall’impegno sociale e il rispetto dei diritti dei ceti più poveri, in cui trovarono spazio opere di Käthe Kollwitz, Georg Grosz, Otto Dix e Marc Chagall.

Nel 1921 diede alle stampe l’opera Asilo proletario, manuale di cultura pacifista adottato dalle scuole del tempo nella speranza che formando le nuove generazioni al rifiuto della violenza bellica si sarebbero potute evitare altre tragedie. La storia andò diversamente. A neppure vent’anni di distanza il grande inganno fu di nuovo venduto ai popoli d’Europa che vi caddero dentro quasi senza alcuna presa di coscienza del recente passato.
Al ’24 risale il lavoro più importante di Friedrich, Guerra alla guerra, diventato in breve tempo un bestseller, tanto che l’anno successivo l’autore, prendendo spunto dalle serie fotografiche qui riprodotte, decise di creare un museo a tema proprio nel centro di Berlino, luogo in cui i disagi derivanti dal conflitto continuavano a farsi sentire in maniera ancor più grave che nel resto della Germania. Si pensi al problema rappresentato dai reduci, dagli invalidi, dalle vedove di guerra: se si considera l’impatto sulla società di queste migliaia di drammi ci facciamo un’idea del disastro che si andava consumando. Il celebre romanzo di Joseph Roth, La ribellione, è interamente incentrato sul trauma psicologico che affligge un reduce invalido il quale, tornando in patria, crede di essere portato in trionfo, mentre la realtà gli presenta un conto molto amaro: uno dei capolavori assoluti scaturiti dal primo dopoguerra. Quello che tende a sfuggirci fin troppo spesso è che una guerra non finisce mai nel momento in cui cessano le ostilità. Un paese che ha sopportato sul suo territorio una simile tragedia impiegherà decenni per riprendersi, per curare le ferite derivate dal suo impoverimento materiale e umano; è come un muro a cui vengono scalzate le fondamenta. Occorrerà un paziente lavoro di recupero, e se i danni sono irreparabili andrà ricostruito.
Come è ben immaginabile l’Internationales Anti-Kriegs-Museum fu soppresso dai nazisti e i suoi locali trasformati in luogo di tortura per prigionieri politici. Fuggito dalla Germania, Friedrich proseguì la sua attività in Belgio, riparando poi a Parigi nel secondo dopoguerra, dove si occupò attivamente della riconciliazione franco-tedesca.
Oggi, grazie all’impegno del nipote, il suo museo rivive a Berlino in Brusseler-Str. 21.

Mi sono imbattuta nell’opera di Ernst Friedrich durante la mia permanenza a Moena, visitando il polo Navalge, dov’erano presenti alcune riproduzioni di Guerra alla guerra. Si tratta di un allestimento ben curato che permette di avvicinare al meglio il lavoro di questo fotografo tedesco (visitabile fino a ottobre 2017).
Nel 1972 John Berger in un celebre saggio sulle fotografie di guerra, in Italia raccolto nel volume Contro i nuovi tiranni (Neri Pozza), s’interrogava sullo scopo di tali documenti e su come mai, nelle tragiche fasi del conflitto vietnamita, non avessero un impatto più dirompente nell’opinione pubblica. Secondo Berger foto di questo tipo, pubblicate sui maggiori quotidiani dell’epoca, avrebbero dovuto innescare un immediato moto collettivo di protesta, molto più ampio e trasversale di quello che si vide in seguito. Ecco cosa dice al riguardo: «Da circa un anno è diventato un fatto normale, per certi giornali a grande diffusione, pubblicare fotografie di guerra che qualche tempo fa sarebbero state censurate, perché ritenute troppo scioccanti. […] I giornali oggi pubblicano foto di guerra cariche di violenza perché il loro effetto, salvo rari casi, non è quello che una volta ci si aspettava. […] La macchina fotografica che isola un momento di agonia lo fa con la stessa violenza con cui l’esperienza di quel momento isola se stessa. La parola “scatto” usata per armi e macchine fotografiche, rispecchiava una corrispondenza che non si limita al semplice aspetto meccanico».
Perché, dunque, la reazione dei lettori non è quella aspettata? Perché il senso di rifiuto per quella violenza cieca non dura che qualche breve momento nella nostra giornata? Si potrebbe dire lo stesso, forse, degli orrori nei Balcani o più di recente per la guerra in Ucraina (irresponsabilmente fomentata da una parte della dirigenza occidentale e poi occultata) o per la Siria. Secondo Berger ciò si deve al fatto che il documento fotografico così divulgato punta il dito troppo genericamente sulle vere cause che stanno dietro al conflitto denunciato attraverso l’immagine. Tanto più che molti dei giornali che pubblicano simili materiali hanno avuto e hanno interessi in comune con quelle medesime dirigenze che preparano la guerra.
Ci sfuggono quindi le ragioni politiche, le convenienze più o meno nascoste, i coinvolgimenti del potere a vario livello, e così la denuncia si smorza e perde d’efficacia. Un tema su cui vale senz’altro la pena continuare a riflettere. Se si sfoglia il testo di Friedrich, la denuncia ha un preciso valore politico. Si dice Guglielmo II, le élites capitaliste, perfino la chiesa che manda i propri officianti a benedire i soldati e tradisce il vangelo che predica pace (ma non mancano scatti di preti impiccati perché appunto non hanno tradito e si sono tirati fuori dalla violenza); in quest’opera si mostra al popolo che viene mandato al fronte l’assoluto disprezzo dei capi che ne sfruttano il sacrificio  le immagini degli ufficiali in alta uniforme che sorseggiano tranquilli e beati il loro tè in veranda è emblematica.   
Qui la denuncia ha nomi e volti, e sebbene nei fatti Friedrich non sia riuscito a smuovere le coscienze per evitare il ripetersi della carneficina – ma come avrebbe potuto un uomo solo nella Germania di allora? – la sua è stata un’azione assai più efficace e intellettualmente più onesta e coerente di altre.


(Di Claudia Ciardi) 


    
    I facili e per certi versi isterici entusiasmi dell'agosto 1914



Papà in posa eroica per una rivista



Papà ritrovato due giorni dopo



Guglielmo II al fronte - la passerella in legno apparentemente serve per proteggersi dal fango, in realtà è per non affondare gli stivali nel sangue che impregna il terreno




Fosse comuni



Fosse comuni



Impiccagioni per tradimento
*Così si legge nella nota di Ernst Friedrich: «Durante la Grande Guerra nell'esercito austriaco migliaia di uomini sono stati condannati all'impiccagione. Nel solo esercito del granduca Ferdinando sono state erette 11.400 forche (sarebbero 36.000 secondo un'altra statistica)» 



Ernst Friedrich arringa la folla sulla Siegesallee di Berlino, incitando i soldati a ribellarsi



Edizione di riferimento:

Ernst Friedrich, Guerra alla guerra, 1914-1918: scene di orrore quotidiano, prefazione di Gino Strada, Einaudi, 2004  



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8 aprile 2017

Alle Gallerie di Trento la grande fotografia d'autore




Trento si è candidata capitale italiana della cultura per il 2018. Un titolo che sarebbe stato meritatissimo a giudicare dall’offerta che la città sta mettendo in campo, non solo in occasione delle tante ricorrenze e iniziative ispirate dal centenario della Grande Guerra.
Un salto al centro espositivo delle Gallerie – località Piedicastello, circa un chilometro dalla stazione – poliedrico crocevia di arti e storie, è una tappa obbligata, direi, per qualsiasi visitatore di passaggio. 
Sono qui in corso tre grandi mostre, tutte a ingresso libero – viene richiesto un contributo minimo qualora si desideri acquistare il materiale messo a disposizione dai curatori – cataloghi, digitalizzazione di immagini, stampe.
Il primo degli eventi che desidero segnalare riguarda la suggestiva rassegna fotografica sul Nepal, raccontato dagli scatti di Giuseppe Benanti, Giacomo d’Orlando, Paolo Piechele, che riserva uno spazio particolare al disastroso terremoto del 25 aprile 2015. L’economia già fragile di questo paese, in seguito al violento sisma, subisce un ulteriore durissimo colpo. I numeri del dramma sono davvero sconvolgenti, in termini di perdite di vite umane e distruzioni materiali: ottomila morti, tre milioni di sfollati, novecentomila abitazioni distrutte o lesionate.  

Questi fotografi coniugano l’amore per il luogo all’impegno umanitario. Il progetto Maheela (“donna” in nepalese), di cui sono promotori, cerca di offrire assistenza ai nuclei familiari, facendo leva soprattutto sulle figure femminili. Una scuola di lavorazione dei tessuti, l’avvio alla coltivazione di pochi ortaggi permette a una donna di raggiungere un’autonomia economica minima in grado di risollevarla dallo stato di estrema povertà; il che fa una grande differenza, specie nella profonda crisi in cui è scivolato il paese dopo l’evento sismico. Le mani ruvide di queste figure arcaiche, i loro sguardi levigati dai gesti quotidiani e dai singolari contrasti del paesaggio nepalese, e poi i silenzi sacri, quasi tangibili, dei rituali per i defunti o dei momenti riservati alla preghiera. E su tutto lo sguardo distaccato e meditabondo delle cime himalayane, altri occhi, innevati, lontani, catturati dentro un groviglio di nubi, mentre più sotto fioriscono i verdi campi da tè. Opposizioni cromatiche chiamate ad armonizzarsi in uno spicchio di terra dalle caratteristiche inconsuete quanto affascinanti. 

Segnalo quindi le altre due emozionanti esposizioni costruite intorno al binomio conflitti-profughi, tema di portata enorme nelle vicende umane e, purtroppo, di triste attualità. Da una parte, Fabio Pasini con una tecnica di esposizione insolita ci regala bianchi e neri sfuocati delle montagne trentine. Il Sass de Stria e le dolomiti di Sesto, per citare solo alcuni dei gruppi fotografati, affiorano con i loro profili ammorbiditi e fiabeschi. L’aspetto sognante, quasi spiritato, dei monti ci restituisce intatta l’avventura umana, nei suoi risvolti positivi legati alle scalate e alla scoperta di passi e vie nuove – il prima della guerra che aleggia come termine cronologico indefinito, inattingibile – insieme a quelli più foschi, destinati a divenire preminenti, suscitati dal conflitto, quando sulle vette correva la linea del fronte.

Nell’assenza di soggetti, Pasini mette volutamente al centro il paesaggio in quanto collettore di memorie tra chi all’ombra delle montagne ha vissuto e chi sulle creste si è trovato a combattere. Perciò non sorprende che le sue vette ci parlino con voce umana e che l’osservatore si trovi a dialogare con questi ritratti esattamente come farebbe di fronte a volti in carne e ossa. Di notevole interesse anche la sua idea di documentare la taiga siberiana, altri scatti di abbacinante solitudine, immagini come grandi murales in evidente collisione con la scelta minimalista dei quadri montani. L’autore ha voluto infatti evocare la perdita di punti di riferimento dei profughi di guerra dell’impero austroungarico, dispersi in Siberia e da lì costretti a estenuanti viaggi di ritorno – si pensi al celebre romanzo di Joseph Roth, Fuga senza fine. Mancava una restituzione visiva di questa vicenda, passata quasi sotto silenzio, e Pasini è riuscito, lasciando parlare la natura e la sua apparente, ma solo apparente, immobilità, a generare un transfert emotivo e diretto con i recenti naufragi della storia.

   
Per chiudere, infine, la mostra “Gli spostati” geniale già dal titolo, sui trentini costretti alla fuga e al trasferimento a causa dell’avanzare del fronte di guerra. Le foto delle distruzioni a Rovereto e in Vallarsa danno la dimensione tangibile di una catastrofe che inevitabilmente sradicò migliaia di persone dai propri territori (il programma avviato dal Comando italiano tra il ’15 e il ’17 implicò il ricollocamento di trentacinquemila civili in trecento comuni della penisola). A moltissimi altri toccò in sorte la deportazione forzata nei territori dell’impero: si tratta delle comunità che occuparono i cosiddetti “villaggi di legno”, agglomerati di baracche dove si faceva la fame e spesso si moriva. Lager ante litteram, chi riuscì a cavarsela in questi posti lo dovette alla fortuna e alla capacità di arrangiarsi; mestieri e ogni genere di abilità aiutarono a guadagnare quel poco che serviva a mangiare e vestirsi. Attraverso le foto e le lettere degli spostati si è ricostruita una testimonianza intima e diretta delle vicissitudini affrontate da ciascuna delle comunità disperse dallo scoppio della guerra.

(Di Claudia Ciardi)


All’entrata del polo sono presenti anche le mie due monografie di inediti tedeschi:

Robert Musil, Narra un soldato e altre prose, a cura di Claudia Ciardi, traduzione di Claudia Ciardi e Elisabeth Krammer, Via del Vento edizioni, 2012.
(Presente in poche copie in quanto il lavoro risale al 2012. Si tratta di una “fine tiratura” che mi sembrava buona cosa condividere in questa sede).

Thomas Mann, Sedute spiritiche e un'altra prosa inedita, cura e traduzione di Claudia Ciardi, Via del Vento edizioni, 2016.
(Diverse copie, trattandosi di una pubblicazione recente. Quindi chi è in zona o capita qui, si faccia avanti).



Maheela, mostra fotografica sul Nepal, fino al 28 aprile 2017


Fabio Pasini, Dalle Alpi alla Siberia, fino al 25 giugno 2017


Gli spostati. Guerra e profughi trentini, fino al 3 dicembre 2017


Segnalo anche La Gran Vera - La Grande Guerra, Galizia-Dolomiti presso il polo museale del Teatro Navalge di Moena fino al 28 ottobre 2017


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