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8 aprile 2017

Alle Gallerie di Trento la grande fotografia d'autore




Trento si è candidata capitale italiana della cultura per il 2018. Un titolo che sarebbe stato meritatissimo a giudicare dall’offerta che la città sta mettendo in campo, non solo in occasione delle tante ricorrenze e iniziative ispirate dal centenario della Grande Guerra.
Un salto al centro espositivo delle Gallerie – località Piedicastello, circa un chilometro dalla stazione – poliedrico crocevia di arti e storie, è una tappa obbligata, direi, per qualsiasi visitatore di passaggio. 
Sono qui in corso tre grandi mostre, tutte a ingresso libero – viene richiesto un contributo minimo qualora si desideri acquistare il materiale messo a disposizione dai curatori – cataloghi, digitalizzazione di immagini, stampe.
Il primo degli eventi che desidero segnalare riguarda la suggestiva rassegna fotografica sul Nepal, raccontato dagli scatti di Giuseppe Benanti, Giacomo d’Orlando, Paolo Piechele, che riserva uno spazio particolare al disastroso terremoto del 25 aprile 2015. L’economia già fragile di questo paese, in seguito al violento sisma, subisce un ulteriore durissimo colpo. I numeri del dramma sono davvero sconvolgenti, in termini di perdite di vite umane e distruzioni materiali: ottomila morti, tre milioni di sfollati, novecentomila abitazioni distrutte o lesionate.  

Questi fotografi coniugano l’amore per il luogo all’impegno umanitario. Il progetto Maheela (“donna” in nepalese), di cui sono promotori, cerca di offrire assistenza ai nuclei familiari, facendo leva soprattutto sulle figure femminili. Una scuola di lavorazione dei tessuti, l’avvio alla coltivazione di pochi ortaggi permette a una donna di raggiungere un’autonomia economica minima in grado di risollevarla dallo stato di estrema povertà; il che fa una grande differenza, specie nella profonda crisi in cui è scivolato il paese dopo l’evento sismico. Le mani ruvide di queste figure arcaiche, i loro sguardi levigati dai gesti quotidiani e dai singolari contrasti del paesaggio nepalese, e poi i silenzi sacri, quasi tangibili, dei rituali per i defunti o dei momenti riservati alla preghiera. E su tutto lo sguardo distaccato e meditabondo delle cime himalayane, altri occhi, innevati, lontani, catturati dentro un groviglio di nubi, mentre più sotto fioriscono i verdi campi da tè. Opposizioni cromatiche chiamate ad armonizzarsi in uno spicchio di terra dalle caratteristiche inconsuete quanto affascinanti. 

Segnalo quindi le altre due emozionanti esposizioni costruite intorno al binomio conflitti-profughi, tema di portata enorme nelle vicende umane e, purtroppo, di triste attualità. Da una parte, Fabio Pasini con una tecnica di esposizione insolita ci regala bianchi e neri sfuocati delle montagne trentine. Il Sass de Stria e le dolomiti di Sesto, per citare solo alcuni dei gruppi fotografati, affiorano con i loro profili ammorbiditi e fiabeschi. L’aspetto sognante, quasi spiritato, dei monti ci restituisce intatta l’avventura umana, nei suoi risvolti positivi legati alle scalate e alla scoperta di passi e vie nuove – il prima della guerra che aleggia come termine cronologico indefinito, inattingibile – insieme a quelli più foschi, destinati a divenire preminenti, suscitati dal conflitto, quando sulle vette correva la linea del fronte.

Nell’assenza di soggetti, Pasini mette volutamente al centro il paesaggio in quanto collettore di memorie tra chi all’ombra delle montagne ha vissuto e chi sulle creste si è trovato a combattere. Perciò non sorprende che le sue vette ci parlino con voce umana e che l’osservatore si trovi a dialogare con questi ritratti esattamente come farebbe di fronte a volti in carne e ossa. Di notevole interesse anche la sua idea di documentare la taiga siberiana, altri scatti di abbacinante solitudine, immagini come grandi murales in evidente collisione con la scelta minimalista dei quadri montani. L’autore ha voluto infatti evocare la perdita di punti di riferimento dei profughi di guerra dell’impero austroungarico, dispersi in Siberia e da lì costretti a estenuanti viaggi di ritorno – si pensi al celebre romanzo di Joseph Roth, Fuga senza fine. Mancava una restituzione visiva di questa vicenda, passata quasi sotto silenzio, e Pasini è riuscito, lasciando parlare la natura e la sua apparente, ma solo apparente, immobilità, a generare un transfert emotivo e diretto con i recenti naufragi della storia.

   
Per chiudere, infine, la mostra “Gli spostati” geniale già dal titolo, sui trentini costretti alla fuga e al trasferimento a causa dell’avanzare del fronte di guerra. Le foto delle distruzioni a Rovereto e in Vallarsa danno la dimensione tangibile di una catastrofe che inevitabilmente sradicò migliaia di persone dai propri territori (il programma avviato dal Comando italiano tra il ’15 e il ’17 implicò il ricollocamento di trentacinquemila civili in trecento comuni della penisola). A moltissimi altri toccò in sorte la deportazione forzata nei territori dell’impero: si tratta delle comunità che occuparono i cosiddetti “villaggi di legno”, agglomerati di baracche dove si faceva la fame e spesso si moriva. Lager ante litteram, chi riuscì a cavarsela in questi posti lo dovette alla fortuna e alla capacità di arrangiarsi; mestieri e ogni genere di abilità aiutarono a guadagnare quel poco che serviva a mangiare e vestirsi. Attraverso le foto e le lettere degli spostati si è ricostruita una testimonianza intima e diretta delle vicissitudini affrontate da ciascuna delle comunità disperse dallo scoppio della guerra.

(Di Claudia Ciardi)


All’entrata del polo sono presenti anche le mie due monografie di inediti tedeschi:

Robert Musil, Narra un soldato e altre prose, a cura di Claudia Ciardi, traduzione di Claudia Ciardi e Elisabeth Krammer, Via del Vento edizioni, 2012.
(Presente in poche copie in quanto il lavoro risale al 2012. Si tratta di una “fine tiratura” che mi sembrava buona cosa condividere in questa sede).

Thomas Mann, Sedute spiritiche e un'altra prosa inedita, cura e traduzione di Claudia Ciardi, Via del Vento edizioni, 2016.
(Diverse copie, trattandosi di una pubblicazione recente. Quindi chi è in zona o capita qui, si faccia avanti).



Maheela, mostra fotografica sul Nepal, fino al 28 aprile 2017


Fabio Pasini, Dalle Alpi alla Siberia, fino al 25 giugno 2017


Gli spostati. Guerra e profughi trentini, fino al 3 dicembre 2017


Segnalo anche La Gran Vera - La Grande Guerra, Galizia-Dolomiti presso il polo museale del Teatro Navalge di Moena fino al 28 ottobre 2017


21 settembre 2015

Il più lungo giorno

Con questo intervento, che rompe un silenzio piuttosto prolungato, desidero ringraziare chi nelle ultime settimane, in Italia e Germania, mi ha dedicato il proprio tempo e dato ospitalità, nonostante i crescenti problemi deflagrati per l’appunto nel cuore della civilissima e progredita Europa. Su tutti la voce della cara saggia Sigrid che da luglio fino a pochi giorni fa è stata una presenza cortese e oserei dire quasi oracolare in mezzo al pandemonio.
A Berlino mi è capitato di sentire parlare della Baviera come una sorta di enclave razzista, molto chiusa e poco ospitale. Monaco ha invece mostrato un volto estremamente solidale, per certi versi perfino più pacato al confronto di tante nevrosi berlinesi. Nei giorni in cui sono arrivati in quarantamila e lo «Spiegel» riprendeva un’agenzia al minuto, quando non si capiva davvero più nulla – sospensione degli accordi di Schengen, come di fatto è avvenuto, blocco del traffico ferroviario – la città ha risposto con compostezza, direi addirittura serenità, mettendo in campo una catena di volontariato incredibile, che ha permesso di reggere una situazione difficile e assai confusa. Mentre la signora Merkel era impegnata in selfie stucchevoli quanto a mio avviso offensivi per i profughi strumentalizzati dall’agone politico – e i rimproveri che ha ricevuto sono stati credo fin troppo blandi – una città intera diventava crocevia di migliaia di persone in fuga, lasciata praticamente da sola a far fronte all’emergenza.
Ne ho ricavato una profonda lezione di vita. Se è vero che i gesti sono quello che contano e ciò che resta di un essere umano, posso dire che in quei giorni i tedeschi, almeno per tutto quanto mi ha coinvolta in prima persona, sono stati perfetti. Dal personale delle ferrovie agli affittacamere, alla gente che si è messa in strada per portare anche solo un bicchiere di tè caldo o indicazioni utili a quanti sono scesi alla Hauptbahnhof in mezzo al caos. Parlando ancora di gesti: due volte, a causa dell’aggravarsi di questa crisi, sono stata costretta a modificare le date di soggiorno, cambiando per conseguenza anche i miei biglietti. Avrei dovuto pagare una differenza in denaro che nessuno si è sognato di chiedermi. Anzi, su tutti i volti che mi sono trovata di fronte era stampata la mortificazione per non poter accogliere al meglio chi era arrivato in città in quei giorni. Anche questo è un modo silenzioso di venire incontro alle persone, senza abdicare al senso di ospitalità. 
Tornando invece dalle mie parti, vorrei ricordare la bella cerimonia di venerdì scorso che si è tenuta a Firenze, presso Palazzo Panciatichi, organizzata da Rodolfo Ridolfi, direttore di «Marradifreenews», alla presenza della direttrice del Centro studi campaniani di Marradi, la professoressa Mirna Gentilini, e del presidente del Consiglio della regione Toscana, Eugenio Giani. Nell’ambito delle celebrazioni campaniane per il centenario della stesura dei Canti Orfici, evento festeggiato nel 2014 che ha prodotto numerose iniziative anche quest’anno, si è svolta la premiazione del concorso intitolato a Dino Campana, “La poesia ci salverà”. Ringrazio la commissione per il prezioso riconoscimento che mi ha conferito. Il premio è stato inoltre l’occasione per parlare diffusamente dell’identità culturale e storica dell’area tosco-romagnola, con le sue preziose comunità appenniniche da Firenze a Faenza, quest’ultimo altro luogo caro alle mie più recenti peregrinazioni.

(Di Claudia Ciardi)



Gli splendori di Palazzo Panciatichi - Firenze

Segnalazioni:


Premio cultura della presidenza del Consiglio dei Ministri, nell'ambito delle celebrazioni campaniane che si sono svolte nel 2014 e tuttora in corso. Il Centro studi campaniani di Marradi  pubblica i risultati del premio "La poesia ci salverà". La cerimonia si è svolta venerdì 18 settembre a Palazzo Panciatichi a Firenze alla presenza del Presidente del Consiglio Regionale della Toscana Eugenio Giani.

Sul blog di Giuda edizioni pubblicato il mio articolo che commenta la graphic novel su Dino Campana firmata da Simone Lucciola e Rocco Lombardi nel 2011.





La recensione dedicata da «Mangialibri», a cura di Alessandra Farinola, al racconto inedito Una notte di Lou Andreas Salomé, pubblicato per la prima volta in italiano da Via del Vento edizioni.




Via del Vento pubblica Una notte, il racconto della donna che ammaliò Nietzsche a cura di Giulia Siena per «Chronicalibri». 





La recensione del racconto inedito Una notte, pubblicato da Via del Vento edizioni, su «Librobreve» a cura di Alberto Cellotto.







Ringraziamenti a Hajo Jahn, direttore della Else Lasker-Schüler Gesellschaft di Wuppertal per la segnalzione del volume di inediti pubblicato da Via del Vento edizioni nel suo bollettino informativo «Ausgabe 99» (II Quartal 2015). Grazie anche a Katharina Majer per aver sollecitato questa collaborazione presso il Centro Studi a Wuppertal.    

Auf Italienisch...
... liegt jetzt die Übersetzung des Else Lasker-Schüler-Prosatextes
"Konzert" vor. "CONCERTO e altre prose sull'infanzia"
wurde übertragen von Claudia Ciardi und Katharina Majer. Die
kleine Broschüre ist in der Edition Via del Vento, Pistoia, im
Jahr 2014 erschienen, kostet € 4,00 und ist zu bestellen über die
Mailadresse info@viadelvento.il, ISBN 978-886226-079-4, aber
auch bei der ELS-Gesellschaft. 

15 novembre 2013

Flüchtlinge aus dem Osten - Profughi dell’est


Joseph Roth und der Osten



Fürst Geza – (in Ungarn setzt man den Vornamen nach den Familiennamen), und er heißt nur so dank einem launigen Schcksal, das Bettlern manchmal herrscahftliche Attribute beizulegen beliebt –, also eigentlich: Geza Fürst war in einem Budapester Kolonialwarengeschäft Lehrling seit seinem zwölften Lebensjahre. Als er sechzehn Jahre alt war, began die ungarische Räteherrschaft, und der Kolonialwarenladen wurde geschlossen. Infolgedessen ging Geza zur roten Armee.
Als die Reaktion in Ungarn ans Ruder kam, flüchteten Geza Fürst und seine Eltern in das von den Rumänen besetzte Gebiet Ungarns. Die Rumänen wiesen die Familie Fürst aus. Der Vater Fürst, ein jüdischer Schneidermeister, übersiedelte mit Frau, vier Töchtern, Schere, Elle, Zwirn, Nadel und seinem jüngsten Sohn Geza in die Slowakei.
Nach Budapest konnte der sechzehnjährige Geza, der ja in der rotten Armee gedient hatte, nicht zurück. Also kam er nach Berlin.
Nicht etwa, um in Berlin zu bleiben. Der Demobilmachungskommissar ließ es ja ohnehin nicht zu. Geza Fürst, der kaum Siebzehnjährige, will nach Hamburg. Auf ein Schiff. Als Schiffsjunge. Soll er etwa neuerlich in einem Kramladen kunstvolle Tüten drehn, Heringe bei steifen Schwänzen aus den Fässern ziehn und Rosinen hinter dem Ladentisch verschütten? Oder sich bei Armeen anwerben lassen? Geza Fürst will mit Recht auf ein Schiff. Sirenen tuten, weiße Kamine prusten Dampf, Schiffsglocken läuten, Matrosen abgeben. Er ist breit gebaut und dennoch von schon Grenzenlosigkeit und blaue Horizonte.
Nun kam Geza Fürst nicht nach Hamburg, weil er vorläufig keine Papiere hatte.
Geza Fürst schlief in einem Logierhaus in der Grenadierstraße. Dort machte ich seine Bekanntschaft. Ich lernte noch andere kennen. In diesem Logierhaus waren nämlich etwa hundertzwanzig aus dem Osten geflüchtete Juden untergebracht. Viele Männer waren geradewegs aus der russischen Kriegsgefangenschaft gekommen. Ihre Kleidung bildete eine groteske Monteurfetzeninternationale. In ihren Augen war tausendjähriges Leid zu sehen. Frauen waren da. Sie trugen ihre Kinder auf dem Rücken wie schmutzige Wäschebündel. Und Kinder, die auf krummen Beinen durch eine rachitische Welt krochen, knabberten an harten Brotrinden.

Es waren Flüchtlinge. Man kennt sie allgemein unter dem Namen «Die Gefahr aus dem Osten». Pogromangst schweißt sie zusammen zu einer Lawine aus Unglück und Schmutz, die, langsam wachsend, aus dem Osten über Deutschland rollt. Im Berliner Ostviertel staut sich ein Teil in größeren Klumpen. Wenige sind jung und haben gesunde Glieder wie Geza Fürst, der geborene Schiffsjunge. Fast alle sind alt, gebrechlich und gebrochen.
Sie stammen aus der Ukraine, Galizien, Ungarn. Hunderttausende sind zu Hause Pogromen zum Opfer gefallen. Hundertvierzigtausend fielen in der Ukraine. Überlebende kommen nach Berlin. Von hier aus wandern sie nach dem Westen, nach Holland, Amerika und manche nach dem Süden, nach Palästina.
Im Logierhaus riecht es nach Schmutzwäsche, Sauerkraut und Menschenmasse. Auf dem Fußboden lagern zusammengerollte Körper wie Gepäckstücke auf einem Bahnsteig. Ein paar alte Juden rauchen Pfeife. Die Pfeife stinkt nach verbranntem Horn. Kinderkreischen flattert in den Winkeln herum. Seufzer verlieren sich in den Ritzen der Dielenbretter. Einer Petroleumlampe rötlicher Schimmer kämpft sich mühsam durch eine Wand aus Rauch und Schweißdunst.
Geza Fürst aber hält es nicht aus. Er streckt die Hände in die ausgefransten Rocktaschen, pfeift sich eins und geht auf die Straße, frische Luft schöpfen. Morgen wird er vielleicht in dem ostjüdischen Obdachlosenasyl in der Wiesenstraße unterkommen. Wenn er nur Papiere hätte. Denn man ist sehr streng in der Wiesenstraße und nimmt nicht so ohne Weiteres jeden auf.
Im Ganzen sind 50.000 Menschen aus dem Osten nach dem Kriege nach Deutschland gekommen. Es sieht freilich aus, als wären es Millionen. Denn das Elend sieht man doppelt, dreifach, zehnfach. So groß ist es. Es sind mehr Arbeiter und Handwerker unter den Zugewanderten als Händler. Nach der beruflichen Gliederung sind 68,3 Prozent Arbeiter, 14,26 Prozent Lohnarbeiter und nur 11,13 Prozent freie Händler.
Sie können in keinem deutschen Betrieb untergebracht werden, obwohl die größte Gefahr nur dann besteht, wenn die Leute nicht arbeiten dürfen. Dann warden sie natürlich Schieber, Schmuggler und sogar gemeine Verbrecher.
Der Verein der Ostjuden in Berlin bemüht sich vergeblich, die Öffentlichkeit zu überzeugen, dass das Gesündeste die Verteilung der zugewanderten Arbeitskräfte auf den gesamten deutschen Arbeitsmarkt wäre. Aber selbst die Abschiebung der Leute begegnet Schwierigkeiten bei den Behörden. Statt allen jenen, die ein Ausreisevisum verlangen, sofort die Abreise zu ermöglichen, versucht die Behörde, die Erledigung der Ausreisegesuche in die Länge zu ziehen. Wochenlang sterben die Geflüchteten hier von der Mildtätigkeit der Mitmenschen, eh’ es ihnen möglich wird, das Weite zu suchen. Bis jetzt ist es zwölfhundertneununddreißig Personen gelungen, Berlin zu passieren, ohne hungers gestorben zu sein.

In der Wiesenstraße, in dem städtischen Asyl für Obdachlose, das eine Zeit lang geschlossen war, ist jetzt eine Unterkunftsstätte für geflüchtete Ostjuden geschaffen worden. Die Leute werden gebadet, desinfiziert, entlaust, gespeist, gewärmt und schlafen gelegt. Dann verschafft man ihnen die Möglichkeit, Deutschland zu verlassen. Es ist eines der segensreichsten Vorbeugungsmittel gegen die «Gefahr aus dem Osten».
Hie und da ist einer unter den Leuten, der Intelligenz und Unternehmungsgeist besitzt. Er wird nach New York gehen und Dollarprinz werden.
Vielleicht gelingt es Geza Fürst, nach Hamburg zu kommen und Schiffsjunge zu werden. Geza Fürst, der jetzt in der Grenadierstraße auf und ab geht. Hände in der Hosentasche, Rotgardist außer Dienst, Abenteuer und Seepirat in spe. Ich hörte ihn letzthin ein ungarisches Lied singen, das hatte folgenden Text: Ich und der Wind, wir beide sind gut Freund; kein Haus und kein Hof und kein Menschenkind, das um uns weint …

«Neue Berliner Zeitung», 12 – Uhr-Blatt, 20.10.1920

Michael Bienert, Joseph Roth in Berlin. Ein Lesebuch für Spaziergänger,
KiWi (Kiepenheuer & Witsch), 2010
   


Cover - KiWi ©


Fürst Geza – gli ungheresi mettono il nome di battesimo dopo il cognome – si chiama così solo grazie a un capriccio del destino, che qualche volta si diletta ad assegnare ai mendicanti titoli signorili; Geza Fürst, dunque, lavorava come apprendista per un negozio di generi coloniali a Budapest da quando aveva dodici anni. Quando ne compì sedici ebbe inizio il governo ungherese dei soviet e il negozio di generi coloniali venne chiuso. Così Geza si arruolò nell’Armata Rossa.
Dopo il trionfo della rivoluzione ungherese, Fürst Geza fuggì con i suoi genitori nei territori dell’Ungheria che erano occupati dai rumeni, i quali però cacciarono l’intera famiglia Fürst. Fürst padre, un maestro sarto ebreo, emigrò così in Slovacchia con moglie, quattro figlie, forbici, metro, filo da cucire, ago, nonché il figlio minore Geza. Il sedicenne Geza, poiché aveva servito l’Armata Rossa, non poteva fare ritorno a Budapest. Andò dunque a Berlino.
Non per rimanervi: il commissario della smobilitazione non glielo avrebbe in nessun caso concesso. Fürst Geza ha appena compiuto diciassette anni, vuole andare ad Amburgo e imbarcarsi come mozzo su una nave. Deve forse tornare a preparare buste di carta artigianali in una bottega? Tirare fuori dalle botti le aringhe con la coda rigida e versare uva passa sul bancone? Oppure lasciarsi arruolare nell’Armata? Fürst Geza vuole a buon diritto imbarcarsi su una nave: squillano le sirene, i camini bianchi sbuffano vapore, suonano le campane e il mondo non ha fine. Fürst Geza sarebbe un buon marinaio, ha spalle larghe e un corpo agile, e i suoi occhi verdi già vedono orizzonti sconfinati e l’azzurro infinito.
Tuttavia, Fürst Geza non è partito per Amburgo, poiché non aveva i documenti.
Dormiva in un dormitorio per i poveri nella Grenadierstrasse. Fu là che feci la sua conoscenza. Ne conobbi molti altri: in quella pensione erano alloggiati infatti circa centoventi ebrei fuggiti dall’est.. Molti uomini tornavano direttamente dalla prigionia russa; il loro abbigliamento costituiva una grottesca sfilata internazionale di divise stracciate. Negli occhi vi si leggeva una sofferenza millenaria. C’erano donne, portavano sulla schiena i loro figli come fagotti di biancheria sporca, e bambini che, provenienti da un mondo rachitico, si trascinavano su gambe storte sgranocchiando croste di pan secco.
Sono profughi. Si conoscono sotto il nome comune di ‘pericolo dell’est’. La paura dei pogrom li tiene insieme come una valanga di infelicità e fango, che, crescendo piano piano, arriva rotolando dall’est attraverso la Germania. Una parte di loro si è fermata in grandi gruppi nel quartiere orientale di Berlino. Ce ne sono di giovani con corpi sani, come Geza Fürst, il marinaio nato. Ma quasi tutti sono vecchi, deboli, disfatti.
Vengono dall’Ucraina, dalla Galizia, dall’Ungheria. Centinaia di magliaia sono stati vittime di pogrom in casa propria. Quattrocentomila sono morti in Ucraina. I sopravvissuti arrivano a Berlino. Da qui volgono a occidente, verso l’Olanda, l’America, e alcuni verso il sud, in Palestina.
Il dormitorio odora di corpi umani ammucchiati, di biancheria sporca e crauti. Sul pavimento si accampano persone come bagagli sulla pensilina di una stazione. Un paio di anziani ebrei fuma la pipa. La pipa puzza di corno bruciato. Si sentono strilli di bambini tutt’intorno. I sospiri si disperdono tra le fessure delle assi del pavimento. Il chiarore rossastro di una lampada a petrolio lotta con fatica per farsi varco attraverso un muro di fumo e sudore.
Geza Fürst non ne può più. Infila le mani nelle tasche sfilacciate della sua giacca e fischiettando se ne va in strada per respirare un po’ di aria fresca. Forse domani troverà un alloggio all’asilo per gli ebrei dell’est senzatetto nella Wiesenstrasse.
Se solo avesse i documenti. Perché nella Wiesenstrasse sono molto severi, e non accolgono chiunque si presenti.
In tutto sono 50.000 le persone che dall’est sono venute in Germania dopo la guerra. Ma a dire il vero sembrano milioni, poiché la miseria appare doppia, tripla, decuplicata, tanto è grande. Tra gli immigrati ci sono più operai e artigiani che commercianti. Secondo le statistiche sull’impiego per il 68,3 per cento sono operai, per il 14,26 lavoratori salariati e solo l’11,13 è costituito da liberi commercianti. Non possono essere collocati in nessuna azienda tedesca, sebbene il pericolo maggiore venga proprio dal non permettere alla gente di lavorare. Allora diventano, com’è ovvio, spacciatori, contrabbandieri e persino criminali comuni. L’associazione degli ebrei dell’est a Berlino si impegna inutilmente per convincere l’opinione pubblica che la miglior soluzione sarebbe la ripartizione della forza lavoro degli immigrati sull’intero mercato del lavoro tedesco. Ma persino l’espulsione di queste persone incontra difficoltà da parte dell’amministrazione. Invece di autorizzare la partenza immediata a tutti quelli che richiedono un visto di uscita, le autorità si ingegnano a prolungare il processo di richiesta di espatrio. Per intere settimane i profughi si sfiniscono così stando dietro alla carità del prossimo per riuscire a prendere il largo. Fino ad ora ce l’hanno fatta milleduecentonovantatre persone a passare per Berlino senza prima morire di fame.

Nella Wiesenstrasse, nell’asilo cittadino per i senzatetto, che per un certo tempo è rimasto chiuso, è stato creato ora un alloggio per gli ebrei profughi. La gente viene lavata, disinfettata, spidocchiata, alimentata, riscaldata e messa a letto. Poi viene data loro la possibilità di lasciare la Germania. È una delle più utili misure preventive contro ‘il pericolo dell’est’.
Di quando in quando capita qualcuno tra di loro che possiede intelligenza e spirito d’iniziativa: andrà a New York e diventerà miliardario.
Forse a Geza Fürst riuscirà di andare ad Amburgo e diventare un mozzo. Geza Fürst che ora va su e giù per la Grenadierstrasse, mani in tasca, guardia rossa fuori servizio, e forse futuro avventuriero e pirata dei mari. Di recente l’ho sentito canticchiare una canzone ungherese: io e il vento siamo buoni amici, né una casa né un cortile né un figlio spargono una lacrima per noi…

Joseph Roth, A passeggio per Berlino,
a cura di Vittoria Schweizer,
Passigli Editori, 2010



Cover - Passigli Editori ©


Il grazioso volumetto edito da Passigli propone per la prima volta in traduzione italiana delle Berliner Bilder stese da Joseph Roth, quando si aggirava per le strade della metropoli in qualità di corrispondente dei numerosi giornali che vi si stampavano. La scrittura berlinese restituisce uno spaccato di vita quotidiana in Germania che ha un profondo valore documentale, catturando sguardi, mode, drammi, che si alternarono a ritmi vertiginosi tra gli anni Venti e Trenta sulla scena della Grande Città. “Figure e sfondi” frutto dei capricci della storia, poco più che manichini di cera destinati a soccombere alle bizzarrie del tempo, «spettrali e insieme corporei», per citare l’inizio del Panoptikum, dove lo scrittore non mancherà di recuperare questa grottesca qualità duale che assimila uomini e cose. Maschere effimere e tuttavia struggenti nel loro mondo di fantasticherie e repentini rovesci, attori che di lì a poco sarebbero scomparsi, come la maggior parte dei luoghi che li avevano tenuti a battesimo. Il libro contiene anche una cospicua sezione di note che aiutano a collocare i singoli brani nell’orizzonte culturale in cui hanno visto la luce. Quest’opera non può che impreziosire la biblioteca di qualsiasi appassionato di Roth e di storia di Berlino.

(Di Claudia Ciardi)



Marc Chagall - Il violinista sul tetto

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