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23 aprile 2014

Lou Reed - Berlin, 1973


«Impossibile immaginare come sarebbe stata la musica rock se i Velvet Underground non fossero mai esistiti. […] Si può affermare in modo piuttosto convincente che l’album di debutto della band, The Velvet Underground & Nico (1967), è stato il più influente della storia del rock. Di sicuro è difficile pensare a un altro disco che abbia alterato il suono e il vocabolario del rock in modo così  forte, spostandone in un solo colpo tutti i parametri. Ampie fasce di musica pop venute dopo esistono solo all’ombra di quel disco: è possibile che il glam rock, il punk e tutto ciò che rientra anche lontanamente nella categoria dell’indie rock e dell’alternative rock sarebbero esistiti anche senza The Velvet Underground & Nico, ma è difficile immaginare in che modo. Di sicuro i Velvet Underground non sono stati l’unica band della fine degli anni sessanta a tentare di colmare il baratro apparentemente sconfinato tra il rock e l’avanguardia, e Lou Reed di sicuro non è stato l’unico autore convinto che i testi delle canzoni potessero avere la stessa dignità e la stessa importanza della letteratura “seria”. Loro però sono stati gli unici a far sembrare il superamento di quel baratro la cosa più naturale del mondo. […] Con l’avanzare della sua carriera, Lou Reed diventava sempre più contraddittorio. Il volto che presentava al mondo, almeno nelle interviste, era incessantemente combattivo, sdegnoso e taciturno, e questo si rifletteva spesso nella sua musica: le quattro faticose canzoni che compongono il lato b del suo concept album del 1973, Berlin, sono espressioni piuttosto straordinarie di freddezza e crudeltà».

Alexis Petridis, The Guardian (November, 2013)



Non basta certamente un solo ascolto per capire il sound di Berlin (1973). L’etichetta di concept album, formula per definire una raccolta le cui canzoni ruotano attorno a un unico tema, di sicuro non basta a contenere tutte le suggestioni di questo lavoro. La prima volta che mi ci sono messa, non troppo tempo fa, non l’ho capito quasi per nulla ma di sicuro posso dire di esserne rimasta affascinata. La crudeltà dei suoni lascia l’ascoltatore spiazzato, costringendolo a prendere a calci i suoi quattro stracci borghesi, nel caso in cui ne sia vestito. E l’elemento che più a suo tempo scatenò la critica è proprio questo schiaffo dato platealmente alle convenzioni borghesi. Il racconto impietoso di una crisi di coppia cozzava con i migliori spot dell’idillio familiare, perfetto, equilibrato e senza macchia. La famiglia descritta da Reed è invece l’anticamera di tutte le ansie e contraddizioni moderne. La musica crea uno spaccato narrativo senza precedenti e Reed sembra voler trascinare il suo pubblico davanti allo specchio per dire a ognuno senza girarci troppo intorno: «Amico, o hai il coraggio di guardarti o hai chiuso». Scelta tematica estremamente coraggiosa perché c’è anche molto di autobiografico, una autoanalisi esibita su un palco.
L’artista lega il suo cinismo, la sua buona dose di umorismo macabro e yiddish, la sua personalità schizofrenica, le sue paranoie, il suo senso di alienazione allo sfondo di una Berlino altrettanto cupa e delirante, che dialoga a meraviglia con la sua personalità. Reed trova una sintonia perfetta proprio con la città del Muro, che lo contamina e finisce per esasperare certi tratti della sua musica: del resto, dove meglio avrebbe potuto essere concepito un disco che parla di una separazione tra due persone, di una rottura che non potrà essere sanata in alcun modo, di un rapporto che va a rotoli in una singolare e deprimente coincidenza tra storia individuale e collettiva?
La relazione tra Jim e Caroline, entrambi tossicodipendenti, corre sul ‘versante selvaggio’ di nichilismo, degrado, meschinità che spesso sfociano in gesti di odio e cattiveria gratuita, concludendosi tragicamente col suicidio di Caroline.
«A film for the ear» lo definì Reed, e in effetti quel pianoforte che affiora dalla buia e fumosa sala di un caffè, tormentato quanto basta per l’atmosfera che si respira attorno al Muro, una volta sentito vi resterà addosso come la più pungente delle ossessioni. Notte  anni ’70,  frontiera gelida e insonne, davanti a questa tastiera scura in volto resterete completamente disarmati: la melodia non vi darà tregua, picchierà dritta sui vostri nervi, che vi piaccia o no scenderà giù come un bicchiere di veleno e si farà ascoltare.
Così Reed firma una delle più dolenti e crude cartoline della metropoli, incrociando spietatamente la Stimmung di quel complicato decennio; questa Berlino triste, introversa, stremante, città simbolo della divisione e della decadenza, narrata sul filo dei riferimenti a Bertolt Brecht e Kurt Weill, finisce per abitare ognuno di noi.
Perfino quando si ascolta un pezzo strumentale come Neuköln (la grafia giusta sarebbe con la doppia “L”), scritto da David Bowie, che a Berlino viveva a Schöneberg sulla Hauptstraße, e Brian Eno nel 1977 per l’album Heroes, si comprende quanto Reed abbia lasciato il segno con la sua Berlin del ’73. Bowie, del resto, non celò mai il grande debito d’ispirazione che lo legava a Reed, tanto da avergli prodotto il suo secondo album di grande successo, Transformer, lavoro che precede proprio Berlin.
«It’s intensely dark in its lyrical content» si legge in un commento della BBC, e questo è infatti il marchio di fabbrica di uno scavo affilatissimo dentro i caratteri umani, un’opera al nero che guarda in faccia le miserie della vita.
Lou Reed, scomparso a 71 anni lo scorso 27 ottobre 2013, vogliamo ricordarlo così, come un interprete assurdo e proprio perciò altrettanto impeccabile di un’epoca. Ribelle, fuori dalle righe, poeta devoto alla sua stagione in inferno, Reed ha scritto a suo modo una parte di storia all’ombra del Muro, e ci pare giusto, tra le tante immagini e testimonianze che vanno avvicendandosi in questo venticinquesimo anniversario della caduta, far rivivere anche un po’ della sua voce.

(Di Claudia Ciardi)




Tracklist
:
Berlin
Lady Day
Man of good fortune
Caroline says I
How do you think it feels?
Oh, Jim
Caroline says II
The kids
The bed
Sad song
Rockol/ review
******


Berlin may be a great album, it's just not an easy one to listen to. It's intensely dark in its lyrical content, charting the doomed relationship of Caroline and Jim following them through drug addiction, domestic violence and suicide. Not the cheeriest of subjects for a concept album.

First released in 1973, it was a commercial failure but became a cult classic. Berlin came hot on the heels of Reed's glam rock masterpiece Transformer. Anyone expecting a commercial follow-up was non-plussed to say the least. But 30 years after its debut, Reed is now touring the album for the first time, hence the re-issue.

Lou Reed has never been the most melodious of singers, but his gravelly, nasal, mumble-y singing suits the subject matter perfectly. His voice sounds like he has been there, done that, and adds an air of jaded, cynical depression to the tracks.

Who else could carry off lyrics like, 'Caroline says as she gets up off the floor/You can hit me all you want to, but I don't love you anymore/ Caroline says while biting her lip/ Life is meant to be more than this, and this is a bum trip'? It's not exactly Kylie Minogue territory.

But doom and gloom aside, musically Berlin is brave, adventurous and keeps on surprising you.

"Caroline Says I'' is a particularly odd track, sounding generally upbeat. Until you listen to the lyrics, that is. More creepily, ''Kids'', about Caroline's children being taken away, features producer Bob Ezrin's children screaming for their mother.

"The Bed'' sounds like a love song, but is instead about Caroline's suicide. The words are filled with regret and the soft acoustic sounds help you picture her drifting into unconsciousness.
Berlin is definitely a challenge, and is about as far away from pop, or dinner party music as you can get. But thanks to Ezrin's production it has a rich, lush sound with the string and horn sections, and backing choir (and occasional cracking guitar solo), showcased best on "Sad Song''. 

This was the sound of Lou trying something new, brave and ambitious at a time before he was in thrall to rock 'n' roll history. As such it's stood the test of time and you won't regret the time you spend listening to it. Just don't expect to be cheered up.

BBC Review by Helen Groom


Lou Reed - portrait
Links:

20 Essential Lou Reed Tracks
A look back at the legendary rocker's best moments from the Velvet Underground and beyond - su Rolling Stone Music

Remembering Lou Reed's Classic Album Berlin  - Ted Drozdowski

Lou Reed - Berlin Album Review - Contact Music

Official Italian Site

Clouds&Clocks di Beppe Colli

Lou Reed: Berlin. La prima tragedia pop postmoderna
Sul blog «Detriti di passaggio», il 21 ottobre 2013

Lou Reed (part two)
Sul blog «Spirito critico»



25 gennaio 2014

Meeting Ost: «Most»



Parallelamente alla crisi economica che da diversi anni affligge gli stati membri dell’Europa occidentale, è cresciuto il dibattito attorno ai paesi che occupano la metà orientale del vecchio continente. Tra aspettative e demonizzazioni l’intellighenzia figlia di un occidentalismo oltranzista, in preda ormai alla stanchezza senile, continua a guardare a est con non poco scetticismo, mostrando spesso nelle proprie analisi scarsa obiettività. L’eredità di atteggiamenti coltivati in piena guerra fredda è dura a morire e continua a infiltrare l’evolversi dei rapporti tra europei occidentali e orientali.
Non è infrequente sentir dire che il recente allargamento dell’Unione sarebbe una delle cause della crisi e del suo acuirsi. Dirimere una tale questione implicherebbe incrociare diversi dati e perdersi in parecchi meandri statistici. Sia sufficiente dire che le letture sbilanciate verso una sola ‘verità’ in genere fanno rima con parzialità, e chi punta preventivamente il dito contro qualcuno, di solito ha più di una cosa da farsi perdonare. Ricordiamo, per chiarezza storica, che a Atene nel 2003, dieci paesi dell’Europa centrale, orientale e mediterranea firmavano il trattato di adesione alla UE, entrato in vigore il 1° maggio del 2004 con le quindici ratifiche dei vecchi stati membri. Si realizzava così quello che è stato ribattezzato come “allargamento big bang”, con il passaggio dei membri UE da quindici a venticinque, per poi divenire ventisette nel 2007 (con l’ingresso di Romania e Bulgaria). Di fatto, a partire dal 2004, l’Unione non è più soltanto tra stati occidentali. Saper guardare a questa nuova realtà implica uscire dalla sindrome del “blocco unico”, visione livellante e deliberatamente preclusa a qualsiasi approfondimento. Entità unica l’Europa orientale lo è stata, pagando peraltro, è giusto non dimenticarlo, un prezzo altissimo a livello culturale e identitario. Ciò che ha reso temporaneamente possibile tale assimilazione è una sovrastruttura politica, perciò quando parliamo di Europa dell’est si dà propriamente a tale espressione un significato politico e non geografico. Questa Europa infatti non è nata né culturalmente né etnicamente omogenea. Al suo interno vivono comunità di orientamento religioso differente: cattolico, greco-cattolico, russo-ortodosso, romeno-ortodosso, luterano, battista, ebraico e musulmano. Abitano in città cosmopolite o comunità rurali, appartengono a diverse aree linguistiche: slave, romanze, ugro-finniche, baltiche e germaniche. Si può parlare di una regione orientale, non senza periodi di insofferenza e turbolenze all’indirizzo di Mosca, in un periodo storico preciso, che si colloca tra il 1945 e il 1989. E anche all’interno di questa forzata koiné bisogna distinguere tra chi faceva parte dell’Unione Sovietica già dal 1917-’18 e chi è entrato nel blocco dopo la seconda guerra mondiale. Se poi ci si spinge ancora più indietro, alla dominazione asburgica e all’influsso veneziano, ad esempio, si scoprono ulteriori incroci e ci si imbatte in altre realtà peculiari e non meno complesse. La sensazione rothiana di «perdere una patria dopo l’altra» – dapprima la sua Galizia si dissolverà insieme ai fasti viennesi con lo scoppio della Grande Guerra, poi l’annessione dell’Austria da parte della Germania nel 1938, aprirà una falla irreparabile nella sopravvivenza di questo ‘mondo di mezzo’ – testimonia la labilità in cui è immerso da sempre il variegato cosmo orientale, inevitabilmente fascinoso quanto sfuggente agli occhi di chi lo attraversa.  
Dunque, come differenti sono le storie e gli apporti culturali dei paesi dell’est (una cosa sono le repubbliche baltiche, un’altra i Balcani, altra ancora Polonia, Ucraina, Romania, Ungheria), come differente è stato il loro complicato decorso post sovietico, altrettanto versatile, comprensivo e lungimirante dovrebbe essere il dialogo che i membri fondatori dell’Unione europea hanno interesse a sostenere con una realtà tanto frastagliata.
La tendenza che va per la maggiore, anche perché per proporzione inversa comporta uno sforzo minore a livello di studio e ricerca sull’altro, è invece quella della riduzione della complessità fino alla banalizzazione del passato storico. Non c’è da stupirsi dunque, se la dialettica ovest-est conosce periodi di allontanamento e battute di arresto. Il pregiudizio occupa un posto ancora rilevante nel dibattito, e il vederne affiorare per intero l’apporto negativo, quando maggiori sono le difficoltà per tutti i membri comunitari, invita a fare urgentemente autocritica e a svecchiare visioni politiche molestamente incardinate a una dottrina occidentalista ormai in affanno.
L’incertezza che costantemente paralizza l'azione, il rigore astratto dei dettati protocollari di Bruxelles, il calendario delle regalie da elargire non prima di aver dato prova di adesione incondizionata alle teologie della BCE, se tirati troppo per le lunghe e senza che si giunga a un maggior coinvolgimento delle parti, come in tutti i progetti, quindi anche in quello unitario, rischiano di produrre disaffezione e logoramento.
Di tutto questo ci parla con competenza e passione «Most», la rivista quadrimestrale prodotta dalla redazione di East Journal, sito di approfondimento storico e analisi politica dedicato a eventi rilevanti di Europa centrale, orientale, Russia, Vicino Oriente e Asia. Si tratta di un osservatorio quanto mai prezioso, che mi sento di consigliare a chi desidera documentarsi e tenersi aggiornato su questa parte di mondo, perché proprio qui sono in atto importanti redistribuzioni di potere non prive di conseguenze per il futuro dell’Europa.
Gli autori insistono a ragione su un concetto che, in questo momento di bonaccia e disorientamento nelle dinamiche europeiste, è bene non stancarsi di divulgare: «Il processo di allargamento è ancora in corso e i Balcani e la Turchia sono oggi le sfide che l’Unione si trova davanti. Nella storia degli ultimi sessant’anni di integrazione europea, allargamento e approfondimento dell’Unione sono sempre andati di pari passo. L’UE assomiglia ad una bicicletta, che funziona solo quando le due ruote, allargamento ed approfondimento, procedono insieme. Se l’allargamento dovesse veramente essere messo in pausa, come paventato da alcuni, il rischio è che anche l’integrazione si arresti».
Un’affermazione che proprio nell’Ucraina degli ultimi due mesi vede un banco di prova molto delicato. La protesta pro-Europa si sta allargando anche alla parte russofona della popolazione. Se in questa circostanza Bruxelles mostrasse un po’ più di coraggio, la Russia finirebbe per venire a più miti consigli. Una Ucraina europea farebbe cadere le minacce russe: davvero Putin insisterebbe sulla chiusura dei rubinetti del gas? Andrebbe avanti su una posizione che implicherebbe la perdita degli entroiti derivanti dalla vendita degli idrocarburi ai paesi europei? Improbabile. Si tratta più che altro di una guerra dei nervi. L’Europa teme una escalation delle ritorsioni e allora l’unica cosa di cui è capace, mettendosi nella scia di Washington, è agitare lo spauracchio delle sanzioni, che danneggerebbero inevitabilmente la popolazione, già provata da un quadro economico difficile. I tentennamenti europei nei confronti dell’Ucraina hanno ricadute immediate sulla gente che adesso è in piazza ma anche sulla tenuta e coerenza del processo di integrazione. La giornalista Julija Mostovaja ha dato voce alla drammaticità di questo stallo, riassumendolo qualche settimana fa su «Zerkalo Nedeli» con queste parole: «Un tempo l’Ucraina era considerata il ponte tra la Russia e l’Europa. Lo è ancora oggi, ma in questa fase i suoi estremi geografici stanno affondando in un mare di soldi russi. E in questo mare si trova anche Evromajdan ["Piazza europea", il nome con cui in Ucraina si indica la mobilitazione filoeuropea]. Mosca la odia, Washington è nervosa, Bruxelles la ama di un amore platonico».
Il laboratorio di «Most» contribuisce alla costruzione di un’alternativa culturale e politica. Attraverso la ricognizione di dati storici, alternati al racconto dell’ampio spettro dell’attualità, invita il lettore a esercitare tutto il proprio senso critico, perché essere attori di quel che sta accadendo, avrà una profonda rilevanza nel dialogo tra future generazioni.

(Di Claudia Ciardi)


Alcuni tra gli argomenti di maggior rilievo su «Most» #6:
  • L’avventurosa e difficile migrazione dei Trentini in Bosnia
  • La questione dei Rom in Ungheria: tra razzismo e degrado sociale
  • L’allargamento dell’Europa: il problematico dialogo con la Turchia, la costellazione jugoslava, le aspettative europee del popolo ucraino
Ulteriori informazioni sul sito di East Journal 

In questo blog:
Oriente-Occidente
oriente - come ‛ occidente ' (v.), o. per lo più è usato in senso generico, a indicare la parte dell'orizzonte dove sorge il sole, il balco d'orïente dell'Aurora (Pg IX 2), la plaga irraggiata e fatta ridente da Venere mattutina (I 20, XXVII 94), la parte del cielo ove, poco prima dell'alba, i geomanti (v.) vedono apparire delle stelle nelle quali possono scorgere la figura della loro Fortuna Maggiore (XIX 5).
Assume un significato metaforico e simbolico quando è designato come luogo di nascita di s. Francesco in sostituzione di Assisi (Ascesi, Pd XI 54). Un altro punto interessante in tal senso è quello in cui un'anima della valletta dei principi intona l'inno della sera ficcando li occhi verso l'oriente (Pg VIII 11).
In proposito il Buti commenta: «nome de' fare l'omo quando adora Iddio, che si de' volgere all'oriente: e però tutte le chiese antiche ànno volto li altari a l'oriente; ma ora, quando non si può commodamente fare, non v'è cura, imperò che Iddio è in ogni luogo».

15 novembre 2013

Flüchtlinge aus dem Osten - Profughi dell’est


Joseph Roth und der Osten



Fürst Geza – (in Ungarn setzt man den Vornamen nach den Familiennamen), und er heißt nur so dank einem launigen Schcksal, das Bettlern manchmal herrscahftliche Attribute beizulegen beliebt –, also eigentlich: Geza Fürst war in einem Budapester Kolonialwarengeschäft Lehrling seit seinem zwölften Lebensjahre. Als er sechzehn Jahre alt war, began die ungarische Räteherrschaft, und der Kolonialwarenladen wurde geschlossen. Infolgedessen ging Geza zur roten Armee.
Als die Reaktion in Ungarn ans Ruder kam, flüchteten Geza Fürst und seine Eltern in das von den Rumänen besetzte Gebiet Ungarns. Die Rumänen wiesen die Familie Fürst aus. Der Vater Fürst, ein jüdischer Schneidermeister, übersiedelte mit Frau, vier Töchtern, Schere, Elle, Zwirn, Nadel und seinem jüngsten Sohn Geza in die Slowakei.
Nach Budapest konnte der sechzehnjährige Geza, der ja in der rotten Armee gedient hatte, nicht zurück. Also kam er nach Berlin.
Nicht etwa, um in Berlin zu bleiben. Der Demobilmachungskommissar ließ es ja ohnehin nicht zu. Geza Fürst, der kaum Siebzehnjährige, will nach Hamburg. Auf ein Schiff. Als Schiffsjunge. Soll er etwa neuerlich in einem Kramladen kunstvolle Tüten drehn, Heringe bei steifen Schwänzen aus den Fässern ziehn und Rosinen hinter dem Ladentisch verschütten? Oder sich bei Armeen anwerben lassen? Geza Fürst will mit Recht auf ein Schiff. Sirenen tuten, weiße Kamine prusten Dampf, Schiffsglocken läuten, Matrosen abgeben. Er ist breit gebaut und dennoch von schon Grenzenlosigkeit und blaue Horizonte.
Nun kam Geza Fürst nicht nach Hamburg, weil er vorläufig keine Papiere hatte.
Geza Fürst schlief in einem Logierhaus in der Grenadierstraße. Dort machte ich seine Bekanntschaft. Ich lernte noch andere kennen. In diesem Logierhaus waren nämlich etwa hundertzwanzig aus dem Osten geflüchtete Juden untergebracht. Viele Männer waren geradewegs aus der russischen Kriegsgefangenschaft gekommen. Ihre Kleidung bildete eine groteske Monteurfetzeninternationale. In ihren Augen war tausendjähriges Leid zu sehen. Frauen waren da. Sie trugen ihre Kinder auf dem Rücken wie schmutzige Wäschebündel. Und Kinder, die auf krummen Beinen durch eine rachitische Welt krochen, knabberten an harten Brotrinden.

Es waren Flüchtlinge. Man kennt sie allgemein unter dem Namen «Die Gefahr aus dem Osten». Pogromangst schweißt sie zusammen zu einer Lawine aus Unglück und Schmutz, die, langsam wachsend, aus dem Osten über Deutschland rollt. Im Berliner Ostviertel staut sich ein Teil in größeren Klumpen. Wenige sind jung und haben gesunde Glieder wie Geza Fürst, der geborene Schiffsjunge. Fast alle sind alt, gebrechlich und gebrochen.
Sie stammen aus der Ukraine, Galizien, Ungarn. Hunderttausende sind zu Hause Pogromen zum Opfer gefallen. Hundertvierzigtausend fielen in der Ukraine. Überlebende kommen nach Berlin. Von hier aus wandern sie nach dem Westen, nach Holland, Amerika und manche nach dem Süden, nach Palästina.
Im Logierhaus riecht es nach Schmutzwäsche, Sauerkraut und Menschenmasse. Auf dem Fußboden lagern zusammengerollte Körper wie Gepäckstücke auf einem Bahnsteig. Ein paar alte Juden rauchen Pfeife. Die Pfeife stinkt nach verbranntem Horn. Kinderkreischen flattert in den Winkeln herum. Seufzer verlieren sich in den Ritzen der Dielenbretter. Einer Petroleumlampe rötlicher Schimmer kämpft sich mühsam durch eine Wand aus Rauch und Schweißdunst.
Geza Fürst aber hält es nicht aus. Er streckt die Hände in die ausgefransten Rocktaschen, pfeift sich eins und geht auf die Straße, frische Luft schöpfen. Morgen wird er vielleicht in dem ostjüdischen Obdachlosenasyl in der Wiesenstraße unterkommen. Wenn er nur Papiere hätte. Denn man ist sehr streng in der Wiesenstraße und nimmt nicht so ohne Weiteres jeden auf.
Im Ganzen sind 50.000 Menschen aus dem Osten nach dem Kriege nach Deutschland gekommen. Es sieht freilich aus, als wären es Millionen. Denn das Elend sieht man doppelt, dreifach, zehnfach. So groß ist es. Es sind mehr Arbeiter und Handwerker unter den Zugewanderten als Händler. Nach der beruflichen Gliederung sind 68,3 Prozent Arbeiter, 14,26 Prozent Lohnarbeiter und nur 11,13 Prozent freie Händler.
Sie können in keinem deutschen Betrieb untergebracht werden, obwohl die größte Gefahr nur dann besteht, wenn die Leute nicht arbeiten dürfen. Dann warden sie natürlich Schieber, Schmuggler und sogar gemeine Verbrecher.
Der Verein der Ostjuden in Berlin bemüht sich vergeblich, die Öffentlichkeit zu überzeugen, dass das Gesündeste die Verteilung der zugewanderten Arbeitskräfte auf den gesamten deutschen Arbeitsmarkt wäre. Aber selbst die Abschiebung der Leute begegnet Schwierigkeiten bei den Behörden. Statt allen jenen, die ein Ausreisevisum verlangen, sofort die Abreise zu ermöglichen, versucht die Behörde, die Erledigung der Ausreisegesuche in die Länge zu ziehen. Wochenlang sterben die Geflüchteten hier von der Mildtätigkeit der Mitmenschen, eh’ es ihnen möglich wird, das Weite zu suchen. Bis jetzt ist es zwölfhundertneununddreißig Personen gelungen, Berlin zu passieren, ohne hungers gestorben zu sein.

In der Wiesenstraße, in dem städtischen Asyl für Obdachlose, das eine Zeit lang geschlossen war, ist jetzt eine Unterkunftsstätte für geflüchtete Ostjuden geschaffen worden. Die Leute werden gebadet, desinfiziert, entlaust, gespeist, gewärmt und schlafen gelegt. Dann verschafft man ihnen die Möglichkeit, Deutschland zu verlassen. Es ist eines der segensreichsten Vorbeugungsmittel gegen die «Gefahr aus dem Osten».
Hie und da ist einer unter den Leuten, der Intelligenz und Unternehmungsgeist besitzt. Er wird nach New York gehen und Dollarprinz werden.
Vielleicht gelingt es Geza Fürst, nach Hamburg zu kommen und Schiffsjunge zu werden. Geza Fürst, der jetzt in der Grenadierstraße auf und ab geht. Hände in der Hosentasche, Rotgardist außer Dienst, Abenteuer und Seepirat in spe. Ich hörte ihn letzthin ein ungarisches Lied singen, das hatte folgenden Text: Ich und der Wind, wir beide sind gut Freund; kein Haus und kein Hof und kein Menschenkind, das um uns weint …

«Neue Berliner Zeitung», 12 – Uhr-Blatt, 20.10.1920

Michael Bienert, Joseph Roth in Berlin. Ein Lesebuch für Spaziergänger,
KiWi (Kiepenheuer & Witsch), 2010
   


Cover - KiWi ©


Fürst Geza – gli ungheresi mettono il nome di battesimo dopo il cognome – si chiama così solo grazie a un capriccio del destino, che qualche volta si diletta ad assegnare ai mendicanti titoli signorili; Geza Fürst, dunque, lavorava come apprendista per un negozio di generi coloniali a Budapest da quando aveva dodici anni. Quando ne compì sedici ebbe inizio il governo ungherese dei soviet e il negozio di generi coloniali venne chiuso. Così Geza si arruolò nell’Armata Rossa.
Dopo il trionfo della rivoluzione ungherese, Fürst Geza fuggì con i suoi genitori nei territori dell’Ungheria che erano occupati dai rumeni, i quali però cacciarono l’intera famiglia Fürst. Fürst padre, un maestro sarto ebreo, emigrò così in Slovacchia con moglie, quattro figlie, forbici, metro, filo da cucire, ago, nonché il figlio minore Geza. Il sedicenne Geza, poiché aveva servito l’Armata Rossa, non poteva fare ritorno a Budapest. Andò dunque a Berlino.
Non per rimanervi: il commissario della smobilitazione non glielo avrebbe in nessun caso concesso. Fürst Geza ha appena compiuto diciassette anni, vuole andare ad Amburgo e imbarcarsi come mozzo su una nave. Deve forse tornare a preparare buste di carta artigianali in una bottega? Tirare fuori dalle botti le aringhe con la coda rigida e versare uva passa sul bancone? Oppure lasciarsi arruolare nell’Armata? Fürst Geza vuole a buon diritto imbarcarsi su una nave: squillano le sirene, i camini bianchi sbuffano vapore, suonano le campane e il mondo non ha fine. Fürst Geza sarebbe un buon marinaio, ha spalle larghe e un corpo agile, e i suoi occhi verdi già vedono orizzonti sconfinati e l’azzurro infinito.
Tuttavia, Fürst Geza non è partito per Amburgo, poiché non aveva i documenti.
Dormiva in un dormitorio per i poveri nella Grenadierstrasse. Fu là che feci la sua conoscenza. Ne conobbi molti altri: in quella pensione erano alloggiati infatti circa centoventi ebrei fuggiti dall’est.. Molti uomini tornavano direttamente dalla prigionia russa; il loro abbigliamento costituiva una grottesca sfilata internazionale di divise stracciate. Negli occhi vi si leggeva una sofferenza millenaria. C’erano donne, portavano sulla schiena i loro figli come fagotti di biancheria sporca, e bambini che, provenienti da un mondo rachitico, si trascinavano su gambe storte sgranocchiando croste di pan secco.
Sono profughi. Si conoscono sotto il nome comune di ‘pericolo dell’est’. La paura dei pogrom li tiene insieme come una valanga di infelicità e fango, che, crescendo piano piano, arriva rotolando dall’est attraverso la Germania. Una parte di loro si è fermata in grandi gruppi nel quartiere orientale di Berlino. Ce ne sono di giovani con corpi sani, come Geza Fürst, il marinaio nato. Ma quasi tutti sono vecchi, deboli, disfatti.
Vengono dall’Ucraina, dalla Galizia, dall’Ungheria. Centinaia di magliaia sono stati vittime di pogrom in casa propria. Quattrocentomila sono morti in Ucraina. I sopravvissuti arrivano a Berlino. Da qui volgono a occidente, verso l’Olanda, l’America, e alcuni verso il sud, in Palestina.
Il dormitorio odora di corpi umani ammucchiati, di biancheria sporca e crauti. Sul pavimento si accampano persone come bagagli sulla pensilina di una stazione. Un paio di anziani ebrei fuma la pipa. La pipa puzza di corno bruciato. Si sentono strilli di bambini tutt’intorno. I sospiri si disperdono tra le fessure delle assi del pavimento. Il chiarore rossastro di una lampada a petrolio lotta con fatica per farsi varco attraverso un muro di fumo e sudore.
Geza Fürst non ne può più. Infila le mani nelle tasche sfilacciate della sua giacca e fischiettando se ne va in strada per respirare un po’ di aria fresca. Forse domani troverà un alloggio all’asilo per gli ebrei dell’est senzatetto nella Wiesenstrasse.
Se solo avesse i documenti. Perché nella Wiesenstrasse sono molto severi, e non accolgono chiunque si presenti.
In tutto sono 50.000 le persone che dall’est sono venute in Germania dopo la guerra. Ma a dire il vero sembrano milioni, poiché la miseria appare doppia, tripla, decuplicata, tanto è grande. Tra gli immigrati ci sono più operai e artigiani che commercianti. Secondo le statistiche sull’impiego per il 68,3 per cento sono operai, per il 14,26 lavoratori salariati e solo l’11,13 è costituito da liberi commercianti. Non possono essere collocati in nessuna azienda tedesca, sebbene il pericolo maggiore venga proprio dal non permettere alla gente di lavorare. Allora diventano, com’è ovvio, spacciatori, contrabbandieri e persino criminali comuni. L’associazione degli ebrei dell’est a Berlino si impegna inutilmente per convincere l’opinione pubblica che la miglior soluzione sarebbe la ripartizione della forza lavoro degli immigrati sull’intero mercato del lavoro tedesco. Ma persino l’espulsione di queste persone incontra difficoltà da parte dell’amministrazione. Invece di autorizzare la partenza immediata a tutti quelli che richiedono un visto di uscita, le autorità si ingegnano a prolungare il processo di richiesta di espatrio. Per intere settimane i profughi si sfiniscono così stando dietro alla carità del prossimo per riuscire a prendere il largo. Fino ad ora ce l’hanno fatta milleduecentonovantatre persone a passare per Berlino senza prima morire di fame.

Nella Wiesenstrasse, nell’asilo cittadino per i senzatetto, che per un certo tempo è rimasto chiuso, è stato creato ora un alloggio per gli ebrei profughi. La gente viene lavata, disinfettata, spidocchiata, alimentata, riscaldata e messa a letto. Poi viene data loro la possibilità di lasciare la Germania. È una delle più utili misure preventive contro ‘il pericolo dell’est’.
Di quando in quando capita qualcuno tra di loro che possiede intelligenza e spirito d’iniziativa: andrà a New York e diventerà miliardario.
Forse a Geza Fürst riuscirà di andare ad Amburgo e diventare un mozzo. Geza Fürst che ora va su e giù per la Grenadierstrasse, mani in tasca, guardia rossa fuori servizio, e forse futuro avventuriero e pirata dei mari. Di recente l’ho sentito canticchiare una canzone ungherese: io e il vento siamo buoni amici, né una casa né un cortile né un figlio spargono una lacrima per noi…

Joseph Roth, A passeggio per Berlino,
a cura di Vittoria Schweizer,
Passigli Editori, 2010



Cover - Passigli Editori ©


Il grazioso volumetto edito da Passigli propone per la prima volta in traduzione italiana delle Berliner Bilder stese da Joseph Roth, quando si aggirava per le strade della metropoli in qualità di corrispondente dei numerosi giornali che vi si stampavano. La scrittura berlinese restituisce uno spaccato di vita quotidiana in Germania che ha un profondo valore documentale, catturando sguardi, mode, drammi, che si alternarono a ritmi vertiginosi tra gli anni Venti e Trenta sulla scena della Grande Città. “Figure e sfondi” frutto dei capricci della storia, poco più che manichini di cera destinati a soccombere alle bizzarrie del tempo, «spettrali e insieme corporei», per citare l’inizio del Panoptikum, dove lo scrittore non mancherà di recuperare questa grottesca qualità duale che assimila uomini e cose. Maschere effimere e tuttavia struggenti nel loro mondo di fantasticherie e repentini rovesci, attori che di lì a poco sarebbero scomparsi, come la maggior parte dei luoghi che li avevano tenuti a battesimo. Il libro contiene anche una cospicua sezione di note che aiutano a collocare i singoli brani nell’orizzonte culturale in cui hanno visto la luce. Quest’opera non può che impreziosire la biblioteca di qualsiasi appassionato di Roth e di storia di Berlino.

(Di Claudia Ciardi)



Marc Chagall - Il violinista sul tetto

11 dicembre 2012

Elias Canetti



Titolo: Il frutto del fuoco
Titolo originale: Die Fackel im Ohr. Lebensgeschichte 1921-1931
Curatori: Andrea Casalegno e Renata Colorni
Casa editrice: Adelphi
Anno di pubblicazione: 1994






I fiumi di un decennio di vita si accompagnano allo scorrere di un tempo abbagliante che, tra il 1921 e il ’31, inizia a scuotere e confondere gli argini millenari della Mitteleuropa, febbrilmente mischiando le voci di coloro che si sentono trascinati dalla concitata corrente della storia. Mentre la crisi economica avanza, esigendo posture e adattamenti meccanici alle sue aritmie, uno scrittore vive con intima intensità le stagioni e gli spazi battuti da un’umanità chimerica, sedotta dal mascheramento della massa, che anni dopo occuperà il suo memoriale.


La sensazione che qualcosa di irreparabile stia per consumarsi spinge la gente per strada, e un giovanissimo Canetti è lì a osservare quel fremito di corpi spezzati e urlanti, mossi dal feroce e oscuro abbandono di se stessi, nell’istante in cui prendono parte al rito collettivo che li trasforma in folla. Quel magnetismo che investe uomini e donne come un flusso inarrestabile, frangendo e portando con sé gesti, espressioni, umori, si manifesta nella storia raccontata dallo scrittore, accendendo i fuochi di un’epoca che si intreccia alla sua adolescenza; Wahrheit ist Feuer, recitava l’avanguardia klimtiana, e anche qui il fuoco officia una nascita doppia, come elemento di devastante ékpirosis dalle cui ceneri si mostra finalmente l’autenticità della forma. Dalle frasi scagliate di notte per strada nei comizi improvvisati durante gli scioperi di Francoforte, al 15 luglio di Vienna, dai corrosivi j’accuse di Karl Kraus, dal clamore stridente dei caffè letterari di Berlino, ai padiglioni dello Steinhof, la casa dei pazzi nelle quiete vicinanze della Wien, è sempre un’onda che scorre e un incendio che scoppia, rilasciando con foga l’energia che tiene in contraddittoria e ambigua tensione gli uomini e le loro azioni.


Scrivere cura le ferite ricevute dal corpo a seguito del duro passare degli anni. E nel resoconto di Canetti comporta anche la risoluta contrapposizione delle ragioni dell’arte a quelle di idee e azioni che per andare avanti hanno continuamente bisogno di giustificare se stesse. Auto da fé, il grande libro frutto dei sei anni passati davanti allo Steinhof, cova in questa Fackel, ravvivata trent’anni dopo, tra le braci di una vita ‘rimessa a fuoco’ da un grande interprete dei caratteri umani, il quale, al rumoroso affrettato atto di fede di una folla che si aggira estatica tra i baracconi del mondo, oppone un’estrema autodifesa per esorcizzare il dramma del secolo.

(di Claudia Ciardi)

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Beschreibung zu: Die Fackel im Ohr


Mit der "Fackel im Ohr" setzt Elias Canetti seine autobiographischen Erinnerungen fort, die er mit der Geschichte einer Jugend, "Die gerettete Zunge" (1977), begonnen hatte. Diesmal geht es um die Jahre 1921-1931, die Jahre zwischen sechzehn und sechsundzwanzig im Leben Canettis, in denen sich der Autor "die Welt mit dem Kopf aneignet". Canetti erlebt die Inflationszeit in Frankfurt am Main, die Studienjahre in Wien (mit dem Brand des dortigen Justizpalastes) und Berlin auf dem Höhepunkt der Zwanziger Jahre. Über die innere Entwicklung des Autors gibt dieses Buch Auskunft und wie er zu seinen späteren Themen findet - Masse, Tod, die Würde des Individuums. In den "Fackel"-Jahren liegen die ersten Ansätze zu Canettis späteren Hauptwerken, dem Roman "Die Blendung" und "Masse und Macht", der großen Studie, an der er noch dreißig Jahre gearbeitet hat. Mit sensiblen Augen und Ohren fängt Canetti in diesen Entwicklungsjahren seine Beobachtungen ein, genug für die folgenden fünfzig Schriftstellerjahre. "Man ist wacher nach der Lektüre."


Klappentext zu: Die Fackel im Ohr


"Die Fackel im Ohr" ist der zweite Teil von Canettis Lebenserinnerungen. Über individuelle Memoiren hinausgehend ist seine Erzählung der zehn Jahre von 1921 bis 1931 ein spannender Entwicklungsroman aus der ersten Hälfte des zwanzigsten Jahrhunderts. Der junge Canetti hat das umhegte Paradies seiner Kindheit verlassen und begibt sich nun auf einen vielfältig verschlungenen Lebensweg, dessen Erfahrungen und Erkenntnisse ihm zur Grundlage für sein literarisches Lebenswerk werden. Mit der "Fackel im Ohr" setzt Elias Canetti seine autobiographischen Erinnerungen fort, die er mit der Geschichte einer Jugend, "Die gerettete Zunge" (1977), begonnen hatte. Diesmal geht es um die Jahre 1921-1931, die Jahre zwischen sechzehn und sechsundzwanzig im Leben Canettis, in denen sich der Autor "die Welt mit dem Kopf aneignet". Canetti erlebt die Inflationszeit in Frankfurt am Main, die Studienjahre in Wien (mit dem Brand des dortigen Justizpalastes) und Berlin auf dem Höhepunkt der Zwanziger Jahre. Über die innere Entwicklung des Autors gibt dieses Buch Auskunft und wie er zu seinen späteren Themen findet - Masse, Tod, die Würde des Individuums. In den "Fackel"-Jahren liegen die ersten Ansätze zu Canettis späteren Hauptwerken, dem Roman "Die Blendung" und "Masse und Macht", der großen Studie, an der er noch dreißig Jahre gearbeitet hat. Mit sensiblen Augen und Ohren fängt Canetti in diesen Entwicklungsjahren seine Beobachtungen ein, genug für die folgenden fünfzig Schriftstellerjahre.


Autoren-Porträt von Elias Canetti


Elias Canetti wurde 1905 in Rustschuk (Bulgarien) geboren. 1911 zog seine Familie nach England und 1913, nach dem Tod des Vaters, nach Wien. Hier studierte Canetti bis 1929 Naturwissenschaften und promovierte in Philosophie. Er lebte bis zu seinem Tod im Jahre 1994 als freier Schriftsteller in Zürich. Sein Werk wurde mit zahlreichen internationalen Preisen bedacht. 1981 wurde ihm der Nobelpreis für Literatur verliehen. Zu seinen herausragenden Werken zählen neben dem Roman Die Blendung" seine Autobiographie, die in den Bänden Die gerettete Zunge", Die Fackel im Ohr" und Das Augenspiel" erschienen, sowie seine gesammelten Aufzeichnungen aus den Jahren 1942 bis 1993, die in den Bänden Die Provinz des Menschen", Das Geheimherz der Uhr", Die Fliegenpein", Nachträge aus Hampstead" und Aufzeichnungen 1992-1993" vorliegen. Zu seinen herausragenden Werken zählen neben dem Roman Die Blendung" seine Autobiographie, die in den Bänden Die gerettete Zunge", Die Fackel im Ohr" und Das Augenspiel" erschienen, sowie seine gesammelten Aufzeichnungen aus den Jahren 1942 bis 1993, die in den Bänden Die Provinz des Menschen", Das Geheimherz der Uhr", Die Fliegenpein", Nachträge aus Hampstead" und Aufzeichnungen 1992-1993" vorliegen.


Portrait of Elias Canetti

Links:

Teca libri - Il frutto del fuoco

Elias Canetti - Der Spiegel

Si veda anche Europa nel labirinto 
di Claudia Ciardi


Cover ©

Leggendaria -
n. 96 - November 2012
grazie a Anna Maria Crispino

Woolf, Yourcenar, Arendt: tre pensatrici del Novecento dialogano con la cultura antica

Abstract:

«Parola e gesto, pensiero e azione operano in simbiosi e necessariamente concorrono al pieno realizzarsi dell’essere umano. Segnato dalla frattura delle due guerre mondiali, il contributo alla cultura occidentale nasce per tutte e tre da una condizione di sradicamento che intacca profondamente anche il piano privato. Il recupero del sé avviene così attraverso il dialogo con le personae mitiche. Il mito suscita sguardi molteplici sulla realtà, e questo interrogarsi sulle sue figure stimola la comprensione e la riunione delle trame, perché il labirinto che le genera, pur continuando ad attrarle nelle sue stanze, non è solo «la patria dell’esitazione, la via di chi teme di arrivare alla meta», come ha giustamente osservato Walter Benjamin, ma anche un percorso che, tornando su se stesso, collega tra loro le parti del racconto. Sollecitati dalla lettura, ci sarà infine concessa un’ultima osservazione in rapporto al preoccupante esercitarsi di dittature economiche che zavorrano il dialogo tra i popoli europei, le cui sconcertanti conseguenze sono esplose sotto i nostri occhi in occasione della triste vicenda greca. È urgente formulare una risposta alternativa. Le nostre tre amiche ce l’hanno in parte suggerita e avrebbero seguitato a impegnarsi in questa direzione. Non è soltanto il rispetto per l’eredità del mondo antico a chiedercelo ma il nostro stesso diritto, che di questo lascito è il figlio più prezioso, ad essere cittadini di un’Europa di pace e integrazione».

(di Claudia Ciardi)



Sololibri.net recensione:

Donne, mito e politica
introduzione di Barbara Lanati, a cura di Andrea Pellizzari,
Iacobelli editore, collana workshop diretta da Anna Maria Crispino, euro 12, 90

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