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12 marzo 2016

Marc Chagall - Anni russi 1907-1924






Lo scorso novembre il Santa Giulia di Brescia ha inaugurato un ciclo di grandi mostre dedicate a figure di rilievo dell’arte del Novecento. L’inizio non poteva essere più coinvolgente con una rassegna dedicata agli esordi di Marc Chagall, prima del suo definitivo trasferimento in Europa, a Parigi. Trentatré opere suddivise in diciassette quadri e sedici disegni, con due taccuini di schizzi facenti parte dell’archivio dell’amico poeta Blaise Cendrars, i cui contenuti sono stati oggetto di divulgazione presso il largo pubblico solo a partire dal 2012 e in questa occasione esposti per la prima volta in Italia, oltre alla serie di inchiostri di china realizzati dall’artista per le due favole yiddish di Der Nister.
Non si esagera a definire l’evento un gioiello grazie all’impeccabile curatela che ha contribuito a un’atmosfera unica, assai vicina all’intimità sconvolta e sognante dello shtetl, il villaggio ebraico poverissimo e abbandonato a se stesso nella provincia imperiale, fosse quella asburgica descritta da Joseph Roth, per citare il più noto dei suoi narratori, o sovietica, come in questo caso, essendo Lyozno presso Vitebsk, patria bielorussa di Chagall, parte del dominio zarista. 
Una lodevole iniziativa, dunque, che ha affiancato istituzioni culturali russe e italiane – la direttrice del Museo russo di Stato, Evgenija Petrova, la Fondazione Brescia Musei insieme al Comune e all’editrice Giunti Arte – responsabili di un allestimento estremamente poetico. La sede bresciana si è inoltre configurata come validissima cornice all’estro pittorico di Chagall. Qualcosa nella Via dei Musei, dalle rovine del foro romano fino alla chiesa di Ermengarda e all’ingresso al polo espositivo, ne fa una passeggiata di rara bellezza, perfettamente preparatoria al clima fiabesco che attendeva il visitatore all’interno delle sale.  
La mostra ha inteso valorizzare la peculiarità creativa dell’artista che iniziò quasi da autodidatta, forse perfino senza troppa convinzione, in un ambiente che offriva ben poco, e miseria in abbondanza. Questo percorso, in cui l’avvicinamento alla pittura avviene in punta di piedi, è stato valorizzato e illuminato dalle considerazioni autografe di Marc Chagall, che raccolse i propri pensieri in uno scritto fondamentale, La mia vita (Moja žizn’), iniziato tra il 1915-16 e terminato durante il soggiorno berlinese del ’23, prima tappa all’indomani dell’uscita definitiva dalla Russia. Meta e stabile dimora per il resto della sua vita sarebbe divenuta Parigi, la metropoli dell’arte già ampiamente conosciuta in un lungo soggiorno di ventenne, tra il 1911 e il 1914, quando insieme ad altri colleghi, molti russi come lui, scelse di fare la fame in quella Babele-dormitorio che era La Ruche.              
I passi scelti in accompagnamento dei quadri, rendono in modo calzante il periodo di sospensione fra la ricerca del proprio linguaggio poetico e la fuga definitiva dalle strettezze del villaggio natale. Tuttavia Chagall, e questo dà la misura della sua personalità e serve a comprendere da dove traesse la forza creativa, non arrivò mai a disprezzare le proprie origini; nei familiari, anzi, nelle loro occupazioni quotidiane, nei riti chassidici, seppe sempre scorgere la radice di una rara poesia che andava preservata e narrata a chi ne ignorasse l’esistenza.              
«Mi erano congeniali il gergo di strada e le modeste parole del vocabolario corrente. Ma una parola così fantastica, letteraria, una parola venuta quasi da un altro mondo, la parola “artista” sì, forse l’avevo udita, ma nella mia città non è mai stata pronunciata. Era così lontana da noi! Da solo non avrei mai osato pronunciarla».
C’è lo struggimento dell’uomo che aspira a lasciarsi alle spalle gli angusti confini in cui è nato ma anche un amore senza condizioni per il “suolo” che ha nutrito il suo immaginario, un debito rafforzato dall’incontro con Bella Rosenfeld, sua musa ispiratrice e moglie. 
«Mattina e sera lei portava nel mio atelier i dolci pasticcini fatti in casa, del pesce ai ferri, del latte bollito, varie stoffe decorative, perfino delle tavole che mi servivano da cavalletto. Io aprivo soltanto la finestra della stanza e l’aria azzurra, l’amore e i fiori entravano con lei. Tutta vestita di bianco o tutta in nero lei vola da molto tempo attraverso le mie tele, guidando la mia arte. Non finisco quadro o incisione senza chiedere il suo “sì” o “no”».
Chagall sposò Bella nel 1915, e per questo dovette vincere le resistenze della famiglia di lei, molto più benestante e poco rassicurata dalla professione del giovane. La coppia si trasferì a San Pietroburgo, dove nello stesso anno il pittore espose con successo insieme ai nomi di spicco dell’avanguardia russa, Michail Larionov, Natalija Gončarova, Kazimir Malevič, Liubov’ Popova, che formavano l’eclettica compagine di La coda dell’asino (Oslinij chovst), uno dei tanti movimenti che si alternarono in Russia nel frastagliato arcipelago delle arti fiorite durante il primo decennio del ventesimo secolo. E qui la mente corre a un’altra mostra organizzata a Torino, per certi versi complementare a questa, che ho avuto la fortuna di visitare nel gennaio di un anno fa, dedicata alla collezione Costakis, il greco appassionato di arte russa contemporanea, i cui capolavori sono stati esposti per la prima volta in Italia nelle prestigiose sale di Palazzo Chiablese. 
Il rapporto tra Chagall e le avanguardie sia russe che europee è piuttosto complesso. Si può dire con certezza che ne sia stato influenzato, dai maestri europei in cui si imbatté nel corso del primo viaggio a Parigi soprattutto, ma mantenne sempre un suo sguardo indipendente, che rendono la sua mano inconfondibile agli occhi di quanti avvicinano le sue creazioni. E forse è anche questo il segreto di un’affinità indiscussa tra Chagall e il pubblico di ogni latitudine, che ovunque incontra con entusiasmo la sua opera, lasciandosi catturare dalla magia del suo primitivismo e da una narrazione per archetipi che trascende epoche e luoghi.
Un grande plauso va quindi a coloro che hanno lavorato con impegno alla rassegna bresciana, per realizzare questo sogno lucido.


(Di Claudia Ciardi)

Catalogo:

Chagall. Anni russi 1907-1924
Museo di Santa Giulia, Brescia, 20 novembre 2015 - 15 febbraio 2016
Giunti



Related links:

Avanguardia russa - La collezione Costakis per la prima volta in Italia a Palazzo Chiablese - Torino


Boris Nossik - Anna Achmatova e Amedeo Modigliani, Odoya edizioni
   
  
La scuola carrarese dell'Ermitage - in collaborazione con l'Ermitage di San Pietroburgo - Carrara, 2015


Poeti russi oggi - rassegna di poesia russa contemporanea a cura di Annelisa Alleva, Libri Scheiwiller




L'avveniristico soffitto della metropolitana di Brescia

26 luglio 2014

Golem Stories - Sammy Harkham


Sammy Harkham, poco più che trentenne, è un autore di rilievo sulla scena del fumetto indipendente americano. Sfogliando la raccolta Golem Stories, pubblicata in Italia nell’estate 2013 da Coconino Press di Bologna, si comprendono tutto il suo talento e, dunque, le ragioni di una precoce affermazione. 
Ma prima di farmi prendere la mano dalle sue strisce, voglio dedicare qualche riga a un piccolo chiarimento ad uso dei lettori, che forse con una certa incredulità si staranno chiedendo perché mai abbia deciso di parlare di un libro a fumetti, e se questo non rappresenti una deviazione rispetto agli argomenti di cui sono solita occuparmi. La passione per il fumetto d’autore risale a prima della mia adolescenza. All’esame di maturità ricordo di aver messo a punto un’ottima terapia anti-stress grazie alla lettura quotidiana di qualche episodio di Schulz. Questo metodo l’ho poi girato ad altri studenti più giovani, che mi chiedevano come gestire le energie in fase di ripasso e quale fosse il modo migliore per staccare, lasciando riposare la mente, ma senza deconcentrarsi troppo. Schulz, a quanto mi hanno riferito in seguito, fu un successo.
Del resto, chi non ha sperimentato in viaggio o alla vigilia di qualche impegno o dopo una giornata piuttosto faticosa, la gioia di isolarsi per un po’ in compagnia delle sue storie preferite, lasciandosi letteralmente trasportare dal susseguirsi dei disegni? Dunque, questo potrebbe già essere un motivo sufficiente a giustificare la mia scelta. Tuttavia, in caso non sembrasse bastante, ve ne è anche uno più letterario. I racconti a fumetti firmati da grandi autori, e Harkham rientra a pieno titolo tra questi, sono né più né meno dei pezzi d’arte, al pari di quadri o romanzi, cui un’epoca generalmente affida il suo messaggio e anche il proprio colore. In anni recenti, il genio di non pochi maestri delle tavole illustrate ha incrementato la considerazione verso tali opere; Neil Gaiman e i volumi della serie Sandman, Art Spiegelman, Hugo Pratt – La favola di Venezia resta per me un vertice della narrativa contemporanea – la poesia di Jirō Taniguchi che oppone i suoi battiti di china alla frenesia del mondo.
Vi è infine un tratto specifico dell’opera di Harkham, esploratore delle periferie e delle solitudini umane, che non può sottrarsi ai miei interessi. Attraverso la predilezione da lui accordata ai margini e agli stati d’animo che vi si rivelano, segue le tracce di ciò che si potrebbe definire la resistenza degli ultimi, di quanti, pur in balìa delle proprie debolezze e dell’emarginazione che la realtà cinicamente riserva loro, vanno avanti. In simili situazioni limite la mano del disegnatore raccoglie scintille di poesia. Pochi istanti di grazia sottratti a una quotidianità che calpesta e stravolge ogni cosa.
I suoi protagonisti sono per lo più figure di alienati, erose dalle difficoltà della vita. Ma non si negano neppure i personaggi storici, con cui la matita di Harkham gioca a inventare scene spiazzanti. Qui, ad esempio, ci troviamo davanti a un Napoleone che, smessi i panni di condottiero, trascorre il tempo libero disegnando fumetti. Ma perfino in battaglia, l’unico assillo è la buona riuscita dei suoi schizzi su carta. Nel colophon invece, a venirci incontro è un Kafka alla prese con una affittacamere e con certi inquietanti sospetti sul suo nuovo alloggio. Si scoprirà che la stanza è infestata: un mostro occupa la credenza e a Kafka, al centro di una situazione kafkiana, non resta che darsela a gambe.
Poi c’è l’ironia yiddish che l’autore riserva alle stranezze della vita, rovesciando le convenzioni dell’ebraismo, come in Elisha e Lubavitch – Ucraina, 1876. In particolare la storia ambientata nella comunità ebraica di un villaggio ucraino mette in risalto la difficoltà di attenersi ai precetti del rabbi, a fronte dei bisogni materiali dettati dall’esistenza, in un angolo di mondo sempre minacciato e sul punto di disgregarsi. Tra gli episodi meglio costruiti vi è senz’altro la ballata dei pirati, Poor Sailor, adattamento di Maupassant, dove il protagonista lascia la moglie in cerca di fortuna per concludere la sua avventura nel modo peggiore.E non mancano certo frecciate all’indirizzo di bassezze e perversioni borghesi, incarnate dal protagonista di The New Yorker Story, professore in carriera che non affronta i problemi della figlia, tradisce regolarmente la moglie con appuntamenti clandestini in motel e quando lo sfiora il pensiero di dire un “ti amo” alla sua amante, l’idea muore prima ancora che abbia preso una ingestibile consistenza. Tutto nel prof. Ogden è calcolo e disprezzo per il prossimo, mentre si affanna a pubblicare qualcosa sul prestigioso «The New Yorker» e trama contro i colleghi per sbancare la concorrenza. Tipico esemplare dell’ipocrita fatto e vestito da capo a piedi, attento a non incappare in nulla che possa mettere a soqquadro il ridicolo equilibrio nel quale va barcamenandosi.
Quello del capovolgimento delle sorti è un chiodo fisso, saldamente piantato nella penna di Harkham, che non vi rinuncia in nessuno dei suoi racconti. In mezzo al libro si aggira un Golem sonnolento, immerso nella foresta tropicale, che pare farsi custode del tempo della narrazione. La versione italiana di questa raccolta, ottimamente presentata da Coconino Press, permette di assaporare molte delle sfaccettature di Harkham, artista a tutto tondo dalla vivace vena creativa, in grado di adattare il segno grafico alle atmosfere. Ecco come ce lo descrive il «Vice Magazine»: «Harkham è un grandissimo fumettista. E ha fondato Kramers Ergot, la migliore antologia di comics indipendenti al mondo». Per un ragazzo che disegna e pubblica con successo in questo settore dall’età di quattordici anni, cioè da quando si è trasferito a Sydney con la famiglia, prima di tornare a Los Angeles, sua città natale, non si può dire che siano complimenti esagerati.

(Di Claudia Ciardi)



Related links
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Justindiecomics

Golem Stories su Lo spaziobianco.it – di Ettore Gabrielli 

Slowcomix – articolo di Alessio Bilotta

Letture consigliate:

Luigi Bairo, Praga, il Golem e altri Demoni  – Stampa Alternativa





23 aprile 2014

Lou Reed - Berlin, 1973


«Impossibile immaginare come sarebbe stata la musica rock se i Velvet Underground non fossero mai esistiti. […] Si può affermare in modo piuttosto convincente che l’album di debutto della band, The Velvet Underground & Nico (1967), è stato il più influente della storia del rock. Di sicuro è difficile pensare a un altro disco che abbia alterato il suono e il vocabolario del rock in modo così  forte, spostandone in un solo colpo tutti i parametri. Ampie fasce di musica pop venute dopo esistono solo all’ombra di quel disco: è possibile che il glam rock, il punk e tutto ciò che rientra anche lontanamente nella categoria dell’indie rock e dell’alternative rock sarebbero esistiti anche senza The Velvet Underground & Nico, ma è difficile immaginare in che modo. Di sicuro i Velvet Underground non sono stati l’unica band della fine degli anni sessanta a tentare di colmare il baratro apparentemente sconfinato tra il rock e l’avanguardia, e Lou Reed di sicuro non è stato l’unico autore convinto che i testi delle canzoni potessero avere la stessa dignità e la stessa importanza della letteratura “seria”. Loro però sono stati gli unici a far sembrare il superamento di quel baratro la cosa più naturale del mondo. […] Con l’avanzare della sua carriera, Lou Reed diventava sempre più contraddittorio. Il volto che presentava al mondo, almeno nelle interviste, era incessantemente combattivo, sdegnoso e taciturno, e questo si rifletteva spesso nella sua musica: le quattro faticose canzoni che compongono il lato b del suo concept album del 1973, Berlin, sono espressioni piuttosto straordinarie di freddezza e crudeltà».

Alexis Petridis, The Guardian (November, 2013)



Non basta certamente un solo ascolto per capire il sound di Berlin (1973). L’etichetta di concept album, formula per definire una raccolta le cui canzoni ruotano attorno a un unico tema, di sicuro non basta a contenere tutte le suggestioni di questo lavoro. La prima volta che mi ci sono messa, non troppo tempo fa, non l’ho capito quasi per nulla ma di sicuro posso dire di esserne rimasta affascinata. La crudeltà dei suoni lascia l’ascoltatore spiazzato, costringendolo a prendere a calci i suoi quattro stracci borghesi, nel caso in cui ne sia vestito. E l’elemento che più a suo tempo scatenò la critica è proprio questo schiaffo dato platealmente alle convenzioni borghesi. Il racconto impietoso di una crisi di coppia cozzava con i migliori spot dell’idillio familiare, perfetto, equilibrato e senza macchia. La famiglia descritta da Reed è invece l’anticamera di tutte le ansie e contraddizioni moderne. La musica crea uno spaccato narrativo senza precedenti e Reed sembra voler trascinare il suo pubblico davanti allo specchio per dire a ognuno senza girarci troppo intorno: «Amico, o hai il coraggio di guardarti o hai chiuso». Scelta tematica estremamente coraggiosa perché c’è anche molto di autobiografico, una autoanalisi esibita su un palco.
L’artista lega il suo cinismo, la sua buona dose di umorismo macabro e yiddish, la sua personalità schizofrenica, le sue paranoie, il suo senso di alienazione allo sfondo di una Berlino altrettanto cupa e delirante, che dialoga a meraviglia con la sua personalità. Reed trova una sintonia perfetta proprio con la città del Muro, che lo contamina e finisce per esasperare certi tratti della sua musica: del resto, dove meglio avrebbe potuto essere concepito un disco che parla di una separazione tra due persone, di una rottura che non potrà essere sanata in alcun modo, di un rapporto che va a rotoli in una singolare e deprimente coincidenza tra storia individuale e collettiva?
La relazione tra Jim e Caroline, entrambi tossicodipendenti, corre sul ‘versante selvaggio’ di nichilismo, degrado, meschinità che spesso sfociano in gesti di odio e cattiveria gratuita, concludendosi tragicamente col suicidio di Caroline.
«A film for the ear» lo definì Reed, e in effetti quel pianoforte che affiora dalla buia e fumosa sala di un caffè, tormentato quanto basta per l’atmosfera che si respira attorno al Muro, una volta sentito vi resterà addosso come la più pungente delle ossessioni. Notte  anni ’70,  frontiera gelida e insonne, davanti a questa tastiera scura in volto resterete completamente disarmati: la melodia non vi darà tregua, picchierà dritta sui vostri nervi, che vi piaccia o no scenderà giù come un bicchiere di veleno e si farà ascoltare.
Così Reed firma una delle più dolenti e crude cartoline della metropoli, incrociando spietatamente la Stimmung di quel complicato decennio; questa Berlino triste, introversa, stremante, città simbolo della divisione e della decadenza, narrata sul filo dei riferimenti a Bertolt Brecht e Kurt Weill, finisce per abitare ognuno di noi.
Perfino quando si ascolta un pezzo strumentale come Neuköln (la grafia giusta sarebbe con la doppia “L”), scritto da David Bowie, che a Berlino viveva a Schöneberg sulla Hauptstraße, e Brian Eno nel 1977 per l’album Heroes, si comprende quanto Reed abbia lasciato il segno con la sua Berlin del ’73. Bowie, del resto, non celò mai il grande debito d’ispirazione che lo legava a Reed, tanto da avergli prodotto il suo secondo album di grande successo, Transformer, lavoro che precede proprio Berlin.
«It’s intensely dark in its lyrical content» si legge in un commento della BBC, e questo è infatti il marchio di fabbrica di uno scavo affilatissimo dentro i caratteri umani, un’opera al nero che guarda in faccia le miserie della vita.
Lou Reed, scomparso a 71 anni lo scorso 27 ottobre 2013, vogliamo ricordarlo così, come un interprete assurdo e proprio perciò altrettanto impeccabile di un’epoca. Ribelle, fuori dalle righe, poeta devoto alla sua stagione in inferno, Reed ha scritto a suo modo una parte di storia all’ombra del Muro, e ci pare giusto, tra le tante immagini e testimonianze che vanno avvicendandosi in questo venticinquesimo anniversario della caduta, far rivivere anche un po’ della sua voce.

(Di Claudia Ciardi)




Tracklist
:
Berlin
Lady Day
Man of good fortune
Caroline says I
How do you think it feels?
Oh, Jim
Caroline says II
The kids
The bed
Sad song
Rockol/ review
******


Berlin may be a great album, it's just not an easy one to listen to. It's intensely dark in its lyrical content, charting the doomed relationship of Caroline and Jim following them through drug addiction, domestic violence and suicide. Not the cheeriest of subjects for a concept album.

First released in 1973, it was a commercial failure but became a cult classic. Berlin came hot on the heels of Reed's glam rock masterpiece Transformer. Anyone expecting a commercial follow-up was non-plussed to say the least. But 30 years after its debut, Reed is now touring the album for the first time, hence the re-issue.

Lou Reed has never been the most melodious of singers, but his gravelly, nasal, mumble-y singing suits the subject matter perfectly. His voice sounds like he has been there, done that, and adds an air of jaded, cynical depression to the tracks.

Who else could carry off lyrics like, 'Caroline says as she gets up off the floor/You can hit me all you want to, but I don't love you anymore/ Caroline says while biting her lip/ Life is meant to be more than this, and this is a bum trip'? It's not exactly Kylie Minogue territory.

But doom and gloom aside, musically Berlin is brave, adventurous and keeps on surprising you.

"Caroline Says I'' is a particularly odd track, sounding generally upbeat. Until you listen to the lyrics, that is. More creepily, ''Kids'', about Caroline's children being taken away, features producer Bob Ezrin's children screaming for their mother.

"The Bed'' sounds like a love song, but is instead about Caroline's suicide. The words are filled with regret and the soft acoustic sounds help you picture her drifting into unconsciousness.
Berlin is definitely a challenge, and is about as far away from pop, or dinner party music as you can get. But thanks to Ezrin's production it has a rich, lush sound with the string and horn sections, and backing choir (and occasional cracking guitar solo), showcased best on "Sad Song''. 

This was the sound of Lou trying something new, brave and ambitious at a time before he was in thrall to rock 'n' roll history. As such it's stood the test of time and you won't regret the time you spend listening to it. Just don't expect to be cheered up.

BBC Review by Helen Groom


Lou Reed - portrait
Links:

20 Essential Lou Reed Tracks
A look back at the legendary rocker's best moments from the Velvet Underground and beyond - su Rolling Stone Music

Remembering Lou Reed's Classic Album Berlin  - Ted Drozdowski

Lou Reed - Berlin Album Review - Contact Music

Official Italian Site

Clouds&Clocks di Beppe Colli

Lou Reed: Berlin. La prima tragedia pop postmoderna
Sul blog «Detriti di passaggio», il 21 ottobre 2013

Lou Reed (part two)
Sul blog «Spirito critico»



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