«Rilievo.
Si è in compagnia della donna che si ama, si conversa con lei. Poi, settimane o
mesi più tardi, quando si è lontani, ci si ricorda qual era stato il tema della
conversazione. E ora il motivo se ne sta lì banale, crudo, senza profondità, e
ci si rende conto che solo lei, curvandovisi sopra per amore, con la sua ombra
l’aveva protetto da noi, così che in tutte le pieghe e in tutti gli anfratti il
pensiero palpitava come un rilievo. Se siamo soli, come ora, esso s’appiattisce
esponendosi, senza ombra né conforto, alla luce della nostra conoscenza».
Walter
Benjamin, Strada a senso unico (Einbahnstrasse), a cura di Giulio Schiavoni,
Einaudi, 2006.
A piedi lungo le vie della città, una
prosa di viaggio bizantina e labirintica, oscillante tra sogno e critica
sociale. Un grido d’allarme che si esprime in forma di frammenti, dove la
lingua e il pensiero appaiono volutamente destrutturati, perché il lettore
abbia coscienza piena del disorientamento in cui è immerso. Poco prima che
accada l’irreparabile, questa è l’ultima passeggiata che Walter Benjamin
compie, ripercorrendo le latitudini del suo immaginario e i segnali che lo
hanno guidato, inquieto viandante, a dorso di una strada a senso unico.
Così
scrivevo in un mio pezzo del 2011. Questa raccolta di prose benjaminiane, che
già al tempo della loro pubblicazione con Ernst Rowohlt nel 1928 venne
felicemente ribattezzata “bazar filosofico”, ha esercitato un fascino durevole
sulle espressioni della mia scrittura e i modi del suo comunicarsi. Dedito alla
“kleine Form”, quell’incantevole bonsai letterario fine ottocentesco fiorito ai
bordi della nascente metropoli, Benjamin ne fece uno spazio per l’incontro di
suggestioni memoriali e urgenze poetiche, di cui l’Infanzia berlinese
rappresenta un altro capolavoro giocato sull’intreccio dei generi e la
compresenza oracolare, bifronte di un allegorico passato-presente.
La
sua strada a senso unico la percorse negli anni Venti, quando l’inflazione
tedesca aveva cominciato a dar segni di forte squilibrio, avvitandosi in una
crisi interna senza tregua. Un viaggio tra le rovine tedesche del primo
dopoguerra, dal quale l’autore risalì spossato, toccando con mano gli egoismi
di una media borghesia impoverita, che si vedeva quotidianamente scivolare in
un’inaccettabile arretratezza, costretta a intaccare le proprie rendite di
posizione. Ma erano anche gli anni di una crisi profonda nella vita stessa
dell’osservatore. Emarginato dall’università, poteva contare solo su fonti di
guadagno precarie garantite dalla collaborazione con alcune riviste. Eppure, si
trattava ancora della Germania weimariana, quella che gli intellettuali come
Benjamin si sforzarono di difendere prima del baratro. Certo, non fu un quadro
politico concorde, mai lo fu quell’esperimento in nessun anno della sua breve
esistenza, brutalmente appesantito dai debiti di guerra e dal venir meno della
coesione sociale. Lamentava anche questo il grande scrittore berlinese, che
guardava con rassegnazione all’autoreferenzialità delle cerchie accademiche e
sentiva fortemente su di sé la disillusione nei confronti dell’intellighenzia
privilegiata.
Così,
i Denkbilder qui raccolti, le immagini di pensiero destinate a fluire nel suo
onirico labirinto dandogli forma, non si occupano di discettare sulla
Hochkultur, la cultura alta, pseudo impegnata, dove le aderenze di potere
finiscono per soffocare la genuinità del dibattito. Vanno piuttosto in cerca di
quelle poetiche minime, di quelle effimere architetture del quotidiano in cui
si accendono lampi di verità: scantinati, baracconi, fiere, giostre, bambini,
robivecchi e poi oggetti o anche solo nomi capaci ancora di sprigionare
un po’ di calore e bellezza. Frammenti brevissimi titolano “lampada ad arco”,
“loggia”, “garofano selvatico”, “asfodelo”.
È
un’opera di sopravvivenza questa Strada a senso unico, una scialuppa nella
tempesta sulla fine della quale tuttavia l’autore non si fa illusioni né vuole
venderne ai suoi lettori. Piuttosto metterli sull’avviso circa i tranelli di una
cultura dell’alto, consolidata, che finge d’impegnarsi in battaglie
d’avanguardia salvo poi sfilarsi o tradire le più elementari regole della
solidarietà e della morale comune. C’è tanto di questa riflessione benjaminiana
anche nell’oggi e tanto di un’appropriazione indebita di uno studioso che ebbe
un rapporto conflittuale, complicato con i suoi contemporanei che pochi spazi
gli concessero ben prima dell’ascesa nazionalsocialista. Tant’è. Anche oggi, tra
noi, c’è chi firma petizioni solidali e poi non ha il minimo ritegno a mancare
di rispetto al suo prossimo e a quel suo prossimo fa sistematicamente del male,
utilizzando, come ha fatto notare Borges in molte sue pagine che ci
dimentichiamo di rileggere, metodi fascisti e se vogliamo dire più in generale,
autoritari, vestendo panni di democraticissimo. L’odierna apologetica
indirizzata al mondo antico parla di Atene come il modello di una
democrazia senza macchia, aperta agli stranieri, forte in mare e in terra, non
violenta. Eppure per divenire la potenza che fu Atene praticò lo schiavismo,
non si fece scrupolo di perpetrare eccidi ai danni dei coloni ribelli, commise
errori strategici clamorosi, cadde nella tirannide e nell’oligarchia, e infine venne
sconfitta da Sparta. La democrazia non è uno strumento neutrale, non è una
forma priva di sentimento o d’interpretazione politica. Si partecipa alla
democrazia e la misura della sua solidità sta proprio nell’ampiezza della
partecipazione e nei modi in cui gli atteggiamenti e i bisogni di chi vi prende
parte si traducono all’interno degli apparati governativi. Non possono delle fazioni, in
maniera apodittica, rivendicare la democrazia per sé e non lo possono neppure i
cosiddetti detentori della cultura. Quando tra l’altro questi stessi
intellettuali hanno disponibili molteplici canali per esprimersi, non possono
dire d’essere perseguitati né parlare di democrazia sotto scacco. Faccio notare
che gli antifascisti del ’20 e del ’30 furono confinati e poi andarono per la
maggior parte esuli. Attraversarono ogni genere di difficoltà, vissero nella
paura e tra non poche privazioni. Non si scherzi con la memoria di queste cose,
non si confonda l’impegno civico di queste persone con chi ora fa salotto e si
appropria della storia in modo strumentale.
Anche
oggi la battaglia per il potere macina vite, aspettative, mostra un
volto efferato danzando sulle macerie di ideologie che già tanto danno hanno
recato nel recente passato. Ma ancora ci si barrica dietro e dentro quelle
ideologie visto che in gioco c’è una futuribile prospettiva di potere la quale, se
venisse a mancare del tutto, rischierebbe seriamente di generare altri
equilibri. E allora, anziché sviluppare un dibattito serio e anziché scontrarsi
su terreni scelti e ad armi pari, si tira di sponda o ci si sottrae, perché è
più comodo così, altrimenti bisognerebbe argomentare le proprie posizioni col
pericolo di dover giustificare un privilegio che non ha più ragione d’essere in
quanto ha perso le sue longeve basi di consenso.
Perché
dunque tanto accanimento? Potere, potere, potere. Quando i rapporti di forza
cambiano, chi prima godeva di favori si assottiglia fino a dissolvere. Ma fa di
tutto per continuare a mostrarsi ben saldo. Potere, potere, potere. Ecco
perché, dunque, tanto accanimento.
(Di
Claudia Ciardi)
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