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2 febbraio 2019

Walter Benjamin - Strada a senso unico


«Rilievo. Si è in compagnia della donna che si ama, si conversa con lei. Poi, settimane o mesi più tardi, quando si è lontani, ci si ricorda qual era stato il tema della conversazione. E ora il motivo se ne sta lì banale, crudo, senza profondità, e ci si rende conto che solo lei, curvandovisi sopra per amore, con la sua ombra l’aveva protetto da noi, così che in tutte le pieghe e in tutti gli anfratti il pensiero palpitava come un rilievo. Se siamo soli, come ora, esso s’appiattisce esponendosi, senza ombra né conforto, alla luce della nostra conoscenza».

Walter Benjamin, Strada a senso unico (Einbahnstrasse), a cura di Giulio Schiavoni, Einaudi, 2006.

A piedi lungo le vie della città, una prosa di viaggio bizantina e labirintica, oscillante tra sogno e critica sociale. Un grido d’allarme che si esprime in forma di frammenti, dove la lingua e il pensiero appaiono volutamente destrutturati, perché il lettore abbia coscienza piena del disorientamento in cui è immerso. Poco prima che accada l’irreparabile, questa è l’ultima passeggiata che Walter Benjamin compie, ripercorrendo le latitudini del suo immaginario e i segnali che lo hanno guidato, inquieto viandante, a dorso di una strada a senso unico.

Così scrivevo in un mio pezzo del 2011. Questa raccolta di prose benjaminiane, che già al tempo della loro pubblicazione con Ernst Rowohlt nel 1928 venne felicemente ribattezzata “bazar filosofico”, ha esercitato un fascino durevole sulle espressioni della mia scrittura e i modi del suo comunicarsi. Dedito alla “kleine Form”, quell’incantevole bonsai letterario fine ottocentesco fiorito ai bordi della nascente metropoli, Benjamin ne fece uno spazio per l’incontro di suggestioni memoriali e urgenze poetiche, di cui l’Infanzia berlinese rappresenta un altro capolavoro giocato sull’intreccio dei generi e la compresenza oracolare, bifronte di un allegorico passato-presente.
La sua strada a senso unico la percorse negli anni Venti, quando l’inflazione tedesca aveva cominciato a dar segni di forte squilibrio, avvitandosi in una crisi interna senza tregua. Un viaggio tra le rovine tedesche del primo dopoguerra, dal quale l’autore risalì spossato, toccando con mano gli egoismi di una media borghesia impoverita, che si vedeva quotidianamente scivolare in un’inaccettabile arretratezza, costretta a intaccare le proprie rendite di posizione. Ma erano anche gli anni di una crisi profonda nella vita stessa dell’osservatore. Emarginato dall’università, poteva contare solo su fonti di guadagno precarie garantite dalla collaborazione con alcune riviste. Eppure, si trattava ancora della Germania weimariana, quella che gli intellettuali come Benjamin si sforzarono di difendere prima del baratro. Certo, non fu un quadro politico concorde, mai lo fu quell’esperimento in nessun anno della sua breve esistenza, brutalmente appesantito dai debiti di guerra e dal venir meno della coesione sociale. Lamentava anche questo il grande scrittore berlinese, che guardava con rassegnazione all’autoreferenzialità delle cerchie accademiche e sentiva fortemente su di sé la disillusione nei confronti dell’intellighenzia privilegiata.
Così, i Denkbilder qui raccolti, le immagini di pensiero destinate a fluire nel suo onirico labirinto dandogli forma, non si occupano di discettare sulla Hochkultur, la cultura alta, pseudo impegnata, dove le aderenze di potere finiscono per soffocare la genuinità del dibattito. Vanno piuttosto in cerca di quelle poetiche minime, di quelle effimere architetture del quotidiano in cui si accendono lampi di verità: scantinati, baracconi, fiere, giostre, bambini, robivecchi e poi oggetti o anche solo nomi capaci ancora di sprigionare un po’ di calore e bellezza. Frammenti brevissimi titolano “lampada ad arco”, “loggia”, “garofano selvatico”, “asfodelo”.
È un’opera di sopravvivenza questa Strada a senso unico, una scialuppa nella tempesta sulla fine della quale tuttavia l’autore non si fa illusioni né vuole venderne ai suoi lettori. Piuttosto metterli sullavviso circa i tranelli di una cultura dell’alto, consolidata, che finge d’impegnarsi in battaglie d’avanguardia salvo poi sfilarsi o tradire le più elementari regole della solidarietà e della morale comune. C’è tanto di questa riflessione benjaminiana anche nell’oggi e tanto di un’appropriazione indebita di uno studioso che ebbe un rapporto conflittuale, complicato con i suoi contemporanei che pochi spazi gli concessero ben prima dell’ascesa nazionalsocialista. Tant’è. Anche oggi, tra noi, c’è chi firma petizioni solidali e poi non ha il minimo ritegno a mancare di rispetto al suo prossimo e a quel suo prossimo fa sistematicamente del male, utilizzando, come ha fatto notare Borges in molte sue pagine che ci dimentichiamo di rileggere, metodi fascisti e se vogliamo dire più in generale, autoritari, vestendo panni di democraticissimo. L’odierna apologetica indirizzata al mondo antico parla di Atene come il modello di una democrazia senza macchia, aperta agli stranieri, forte in mare e in terra, non violenta. Eppure per divenire la potenza che fu Atene praticò lo schiavismo, non si fece scrupolo di perpetrare eccidi ai danni dei coloni ribelli, commise errori strategici clamorosi, cadde nella tirannide e nell’oligarchia, e infine venne sconfitta da Sparta. La democrazia non è uno strumento neutrale, non è una forma priva di sentimento o d’interpretazione politica. Si partecipa alla democrazia e la misura della sua solidità sta proprio nell’ampiezza della partecipazione e nei modi in cui gli atteggiamenti e i bisogni di chi vi prende parte si traducono all’interno degli apparati governativi. Non possono delle fazioni, in maniera apodittica, rivendicare la democrazia per sé e non lo possono neppure i cosiddetti detentori della cultura. Quando tra l’altro questi stessi intellettuali hanno disponibili molteplici canali per esprimersi, non possono dire d’essere perseguitati né parlare di democrazia sotto scacco. Faccio notare che gli antifascisti del ’20 e del ’30 furono confinati e poi andarono per la maggior parte esuli. Attraversarono ogni genere di difficoltà, vissero nella paura e tra non poche privazioni. Non si scherzi con la memoria di queste cose, non si confonda l’impegno civico di queste persone con chi ora fa salotto e si appropria della storia in modo strumentale.
Anche oggi la battaglia per il potere macina vite, aspettative, mostra un volto efferato danzando sulle macerie di ideologie che già tanto danno hanno recato nel recente passato. Ma ancora ci si barrica dietro e dentro quelle ideologie visto che in gioco c’è una futuribile prospettiva di potere la quale, se venisse a mancare del tutto, rischierebbe seriamente di generare altri equilibri. E allora, anziché sviluppare un dibattito serio e anziché scontrarsi su terreni scelti e ad armi pari, si tira di sponda o ci si sottrae, perché è più comodo così, altrimenti bisognerebbe argomentare le proprie posizioni col pericolo di dover giustificare un privilegio che non ha più ragione d’essere in quanto ha perso le sue longeve basi di consenso.
Perché dunque tanto accanimento? Potere, potere, potere. Quando i rapporti di forza cambiano, chi prima godeva di favori si assottiglia fino a dissolvere. Ma fa di tutto per continuare a mostrarsi ben saldo. Potere, potere, potere. Ecco perché, dunque, tanto accanimento. 

(Di Claudia Ciardi)



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Berliner Spreepark

28 ottobre 2014

Intervista a Fabrizio Casari


Fabrizio Casari dirige la testata di informazione online «altrenotizie.org». Giornalista di professione, si occupa principalmente di analisi politica internazionale. Con alcuni colleghi, insieme ai quali ha condiviso esperienze di lavoro sia sulla carta stampata che sul web, ha deciso di fondare un suo spazio, in cui raccontare la notizia in una versione non allineata rispetto ai grandi media. 
Così si legge in un passo tratto dalla presentazione del sito:  
«Il conflitto d'interessi si è risolto con la fine del conflitto e la crescita degli interessi. L'informazione, che dovrebbe controllare, è completamente controllata. È ridotta ad un container di pubblicità ed il governo della famiglia garantisce che l'una e l'altra restino nelle solite mani. In questo panorama rovesciato, in questa generale ipertrofia del nulla, alcuni tentano di dire quello che pensano e di fare quello che dicono».
Ha accettato di parlare con noi di informazione e di Europa, commentando la crescente insofferenza tra governanti e governati, campanello d’allarme sullo stato di salute della democrazia in questo inizio di secolo. Il suo intervento tiene a battesimo la sezione riservata dal nostro blog alle interviste e gliene siamo grati.




In una fase che somma i dati sulla recessione economica a una desolante sterilità del dibattito politico, che cosa significa informare in Italia da una posizione non allineata con i grandi media?

Le due cose sono intimamente legate. La definitiva conquista della politica da parte del sistema finanziario, sia dal punto di vista ideologico con l’assunzione acritica dei postulati dell’ultramonetarismo e delle sue logiche, sia con l’ingaggio diretto - vero e proprio - degli uomini chiave nei posti strategici, ha reso inevitabilmente il dibattito politico tappezzeria allo stato puro. La morte delle ideologie ha comportato la morte delle idee in generale. L’idea stessa della discussione politica, di soluzioni diverse per la crisi socio-economica, prodotto di culture alternative e della prefigurazione di modelli di società diversi, è stata espunta. La dialettica politica, all’oggi, rappresenta un elemento di disturbo ed un potenziale bacino di pericolo per la gestione del consenso. Il mercato della circolazione delle idee, così come lo avevamo concepito durante il Novecento, risulta insopportabile per un modello che, proprio per la sua natura escludente e per la sua articolazione politica in un regime confessionale,  vive solo a condizione della morte del pensiero.

Uno degli elementi su cui si è incardinato il pensiero unico riguarda proprio il controllo militare del mercato della circolazione delle idee. In questo senso il controllo dei media è stato un tassello strategico, al pari di quanto lo sia stato – e tuttora lo sia – il dispositivo finanziario, quello politico e militare ai fini del controllo all’interno e del dominio all’esterno da parte di un modello che è del tutto obsoleto e non più in grado di sviluppare storia in forma progressiva. Un sistema di potere transnazionale che per arginare il suo declino ha bisogno di riaffermare con la forza idee, progetti ed interessi altrimenti difficili da veicolare.

Il controllo dei media ha rappresentato il fulcro di questa ambizione. La fine dell’editoria pura, come un tempo la si chiamava, ha consegnato la proprietà dei media a squali vestiti da tycoon e ad una pattuglia di miliardari che hanno sentito il bisogno di rovesciare il tavolo. Mentre infatti fino alla fine del Novecento gli editori intendevano conquistarsi uno spazio nella società per affermare i loro interessi, condizionare le scelte della politica ed assumere un ruolo di rilievo pubblico, oggi sono piuttosto impegnati a rilanciare voce ed interessi del blocco di potere di cui essi stessi sono parte. Se il 22% del pianeta consuma il 78% delle risorse, il racconto di una democrazia assediata dal terrore è l'unica arma di distrazione di massa possibile affinché quel 78 non chieda il conto al 22.

Sta riprendendo forza la battaglia sull’uscita dall’euro ma nessuno, per ora, sembra intenzionato a spendere qualche parola sull’eventuale dopo euro. Propaganda o volontà vera di svegliare i cittadini (e l’Europa) su un tema caldo?

L’uscita dall’euro può sembrare una soluzione viabile solo ai teorici dell’ottuso, tra i quali Salvini e Grillo. L’euro è, come tutte le monete, uno strumento, non una politica economica. Uscirne rappresenterebbe una tragedia finanziaria senza precedenti, dal momento che la quotazione di una moneta è internazionale e la lira, come la dracma o la peseta sarebbero quotate alla stregua di pezzi di metallo, dato lo stato di salute delle rispettive economie e, in particolare, la dimensione delle riserve in divisa, il rapporto tra deficit e PIL dei rispettivi paesi e la dimensione industriale e finanziaria esposta sull’estero. Dunque bisognerebbe dire che, come minimo, il valore dei depositi dei nostri conti correnti si ridurrebbe del 50-60%. Ma chi lo dice?

Cosa non va in questa Europa? Il progetto comunitario rischia concretamente il naufragio?

Non si può confondere l’idea dell’Europa unita con quella della moneta unica, che solo dovrebbe essere lo strumento monetario di politiche economiche. L’idea di una Europa unita, nacque in primo luogo per contenere all’interno di una responsabilità condivisa e continentale lo strapotere tedesco, per evitare che dopo l’impero di Prussia e il Terzo Reich arrivasse in pochi decenni anche il quarto. Il Manifesto di Ventotene, redatto da Altiero Spinelli, era però non solo questo: raffigurava una Europa a dimensione continentale come terza via tra il capitalismo statunitense e il socialismo reale; pur incardinando il Vecchio Continente all’interno della sfera occidentale e capitalista, il riferimento economico preciso era al Modello Renano, diverso in forma e sostanza dal modello della reaganomics (monetarismo ereditato da Milton Friedman e dai suoi Chicago Boys) che faceva riferimento a Keynes e che riteneva la struttura del welfare state l’elemento regolatore degli squilibri sociali.

Di quel disegno, che oggi sembrerebbe onirico ma che invece al tempo altro non era se non l’eredità della cultura socialdemocratica europea di Mitterrand, Willy Brandt, Olof Palme e Bruno Kreisky, si sono perse le tracce dopo che il turbo monetarismo ultraliberista ha assunto la totale egemonia nelle discipline economiche. Più che uscire dall’euro, quindi, si dovrebbe affrontare il tema del riequilibrio economico dell’Europa, le sue scelte di politica finanziaria e la quota di sovranità che deve o non deve essere ceduta. Allo stesso tempo appare risibile, francamente, che un paese che produce il PIL della Basilicata possa dettare regole e sanzioni a Francia o Italia.

Dunque andrebbero cancellati gli accordi di Maastricht e ricostruita una politica comune europea che veda l’economia, il commercio, la politica estera e la difesa come elementi comuni. Last, but no least, stabilire se l’impero americano, giunto in una fase di declino conclamata, ormai autentico ostacolo ad una idea equilibrata di governance globale, debba esercitare ancora la leadership sull’Occidente, ottenendo così il mantenimento del ruolo dell’Europa sottoposto agli interessi USA (vedi Ttip o embargo alla Russia); o se, invece, gli interessi europei, palesemente divergenti sul piano strategico, debbano trovare una loro rappresentazione politica nell’indipendenza da Washington sotto il profilo economico, politico e militare.

Da professionista dell’informazione, e soprattutto da cittadino, cosa la preoccupa maggiormente nell’incomunicabilità tra amministratori e amministrati? Quale lettura si sente di dare a un fenomeno sempre più esteso?

L’incomunicabilità è figlia della crisi della rappresentanza. La rappresentanza esiste solo per i grandi interessi, mentre per il mondo del lavoro nell'odierna società di massa, alle prese con le difficoltà del vivere, tale strumento fondamentale di espressione e partecipazione risulta cancellato. Da qui la fine della credibilità per una categoria, come i politici, che fanno della loro riperpetuazione ciclica l’Alfa e l’Omega della politica. Se il ceto politico diventa la forma della politica, è perché il censo si è sostituito al protagonismo delle larghe masse.

Le tre grandi scuole di pensiero del “secolo breve” - socialismo, pensiero cattolico e liberalismo - non sono più rappresentate sul piano culturale. I partiti che ne erano stati la diretta espressione sono diventati dei supermercati del consenso, dove le cose comprano la gente. Ma mentre le ultime due ideologie vivono nella carne degli interessi dominanti, della prima si sono perse le tracce, sepolta probabilmente sotto il Muro di Berlino. In realtà, la caduta del Muro doveva essere la data di nascita di un socialismo del terzo millennio, il primo giorno quindi di una storia tutta da costruire; ma l’incapacità di leggere e interpretare i grandi mutamenti sociali intervenuti a seguito della maledetta globalizzazione dei mercati, si sono sommati ad una generale incapacità di proiettare le idealità nell’area del possibile e dell’auspicabile, così che non già gli ideali della Rivoluzione bolscevica, ma quelli (molto più attuali e giusti) della Rivoluzione francese, sono diventati concetti da carta dei baci perugina.

L’egemonia economica e mediatica del capitalismo, che proprio mentre è diventato unipolarismo ha messo a nudo la sua natura escludente e non includente, ha completato l’opera, rendendo il pensiero alternativo una sorta di involucro di sovversione e appropriandosi dei concetti affascinanti che - dall’illuminismo fino alla rivoluzione cubana, dalla vittoria contro il nazifascismo fino alla decolonizzazione - avevano sedotto miliardi di persone. In una generale fiera del paradosso, i termini come Libertà, Uguaglianza, Fraternità, sono stati sequestrati nel generale silenzio dalla destra che, in Italia come in ogni parte del mondo, li ha sempre combattuti. Se persino la sfera della comunicazione alternativa, come lo furono i volantini negli anni ’60 e ’70 sono diventati la comunicazione a terra del BTC (business to consumer) e le forme di ribellione estetica sono diventate moda, si può osservare come nulla sia stato lasciato al caso.

Fare bastian contrario, mentre il governo prova a blindare il suo operato al ritmo di un annuncio al giorno, rischia di essere una posizione impopolare, specialmente se la politica gioca al rilancio promettendo moneta sonante. Perché, secondo lei, è necessario togliere la maschera a troppo facili sponsor?

Perché denudare il re è sempre un piacere inenarrabile. Perché continuo a pensare che il giornalismo sia il cane da guardia del potere, che per riprodursi ha bisogno della menzogna o anche solo dell’opacità. La trasparenza, prima ancora che i codici che lo stesso sistema ‘democratico’ si è dato, risultano ormai insopportabili per le esigenze di controllo sociale ed incompatibili con la cultura elitaria che sottintende la differenza tra governo e comando. Porre domande scomode, rifiutare l’arruolamento nelle file dell’ossequio, rivolgere dubbi impertinenti, non accettare le verità prefabbricate, è il senso unico della professione di informare. Tenere la schiena dritta è fondamentale per vivere controvento e costruire la sana prevalenza della passione nella vita che scandisce i minuti che ci si mettono a disposizione su questa terra, c’impone di non piegare la testa, non chiudere gli occhi e le orecchie. Avvertire delle menzogne che il potere diffonde, tenere viva la capacità di critica, saper esercitare la nobile arte del rifiuto, mi pare un buon modo di spendere il nostro credito.

(Intervista di Claudia Ciardi)

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