Erano
in molti, anche tra gli amici più stretti, ad additarlo come l’orso di Basilea
per il carattere scontroso e fiero che manifestava non a caso nella natura
indipendente della sua ricerca. Critico con i più celebrati maestri dello
storicismo da Niebhur a Mommsen e inviso ai filologi formati alla scuola di
Wilamowitz, la sua posizione accademica fu sempre in bilico per non dire
apertamente osteggiata. Johann Jakob Bachofen (1815-1887), magnifico esponente di un colto
patriziato svizzero, uomo che usò la propria fortuna economica per una vita di
studio e scrittura fuori dagli schemi, nonostante il carattere non facile e
l’indipendenza perseguita e sempre rivendicata nel proprio metodo ha
avvicinato la migliore intellighenzia tedesca che durante l’Ottocento lasciò un’impronta fondativa e indelebile nell’ambito della conoscenza del
mondo antico. Può considerarsi uno dei primi ingegni chiamati ad accrescere
l’albero della cosiddetta storia delle mentalità, sui diversi fronti
dell’approfondimento storico, antropologico e letterario, che nel Novecento
troverà coltivatori eccellenti, da Marc Bloch a Carlo Ginzburg, da Jules Isaac a
Ernesto De Martino e Carlo Levi. Il tema all’apparenza astruso, inafferrabile,
lontano della monografia sul popolo licio ne fa in realtà un’opera estremamente
toccante sul tentativo di restituire un volto, una sostanza spirituale a cose
che ci sembrano inghiottite dal continuo avvicendarsi degli eventi, livellate per
sempre dalla storia. Perché dunque leggere adesso un saggio che ci pare così
specialistico, settoriale, incentrato su un luogo che fatichiamo a collocare
nello spazio e nel tempo? Cos’ha da dirci oggi un simile libro, a noi che
distrattamente posiamo lo sguardo sull’antico come su una città abbandonata, le cui
vestigia che pure un tempo hanno vissuto ci appaiono solo come cose morte,
immobili, avvolte nel silenzio dei millenni? E questo immobilismo, questo
silenzio ci mette ancor più in disagio nella misura in cui la nostra esistenza
si aggira frenetica, irrisolta, distaccata dalle autentiche fonti di un sentire
che desolatamente ignoriamo. Bachofen, animo ottocentesco immerso
nella temperie del romanticismo, sa che quei centri della liturgia e infine,
della poesia umana, non possono essere trascurati e li investe del ruolo di oracolo ultimo e necessario alle sue ricognizioni. Nel caso dei Licii, come in altre
ricerche, si tratta dunque «d’individuare un popolo nel movimento e nella
verità della vita». Certo, man mano che si attinge ai substrati più distanti e
perciò labili della nostra storia, diventa anche più arduo cogliere il soffio di
questo spirito vitale. Eppure l’erudito di Basilea segna un cammino che per
quanto non solo ai suoi tempi, ma forse ancor più adesso, abbia fatto storcere il
naso a chi prova insofferenza per le forme comparative evidenziando limiti
indubbi circa l’enfasi riservata a una polarità strutturale nella lettura dei
fenomeni umani, si pone con un respiro proprio. In tale messa a fuoco vengono
in sottotraccia apporti e attriti trasmessi dalla cerchia di studiosi con i
quali fu in contatto. Dal giovane Nietzsche, incrociato per l’appunto nella
nativa Basilea, a Savigny, il caro maestro propugnatore del Volksgeist (lo
spirito del popolo), a Burckhardt, il geniale storico e mitologo, l’amico di
una vita.
In
questa monografia la Licia assurge a una sorta di patria perduta che
psicologicamente in ciò che per convenzione definiamo progredire umano, ovvero
il suo ingresso nella modernità, incarna il trauma della scomparsa delle madri.
La madre è in senso lato la componente femminile, la carica ctonia,
conservatrice, protettiva della vita, nume tutelare della società, del suo
ordinamento, e quindi della durata dei suoi caratteri attraverso le epoche. Nel
vaglio delle testimonianze – sepolture, monumenti, iscrizioni votive,
miti – la Licia, secondo i nessi stabiliti da Bachofen, ha espresso una
compagine resiliente e longeva nel quadro della culture antiche, in particolare
rispetto alle limitrofe realtà dell’Asia Minore, nella misura in cui ha
traghettato senza cesure l’essenza matriarcale, ginaicocratica entro gli stadi
successivi della propria organizzazione. E dove poteva trarre questi elementi
se non volgendosi alle pratiche religiose, alle ombre delle necropoli che lo
studioso qui ci descrive con toccante partecipazione, nel tipico spirito
dell’intellettuale romantico che si aggira ritualmente tra le rovine del
passato, restando in ascolto?
Aperta
una breve parentesi sulla fortuna geografica della Licia, terra di mare e di
montagna, che per la maestà degli impervi paesaggi dell’interno e la radice
schietta dei montanari sentiva affine alla sua Svizzera, Bachofen si concentra
sulle testimonianze dell’arte funebre e quindi sui riflessi cultuali che questo
popolo d’oriente indecifrabile solo a un’occhiata frettolosa avrebbe proiettato
nei miti e nelle proprie scelte politiche e d’azione. Un modus operandi destinato a gettare un influsso duraturo, se Fernand Braudel inaugurerà il suo
saggio monumentale sulle civiltà del Mediterraneo in un tono che tanto ci ricorda
questo incipit: «Tutto concorre, attraverso lo spazio e il tempo, a far sorgere
una storia al rallentatore, rivelatrice di valori permanenti. La geografia, in
questo gioco, non è più un fine a sé e diventa un mezzo. Essa aiuta a ritrovare
le realtà strutturali più lente, a organizzare una messa in prospettiva secondo
la linea di fuga della più lunga durata» [Da Civiltà e imperi del
Mediterraneo – Parte prima – L’ambiente; capitolo I, Le penisole:
montagne, altipiani, pianure]. Dalla scelta di inquadrare un popolo in
questo campo lungo, ossia a partire dalle condizioni ambientali, il nostro
mirabile antichista procede quindi lungo il corso dei residui costumi, delle
tradizioni ancora leggibili, degli spartiti rituali che nei secoli hanno scandito l’esistenza dei Licii. Il deposito delle già dette mentalità, valga ancor
più per gli antichi che il tempo ha trascinato così lungi da noi, non può pertanto
che trovarsi in maggior nei superstiti lacerti della sfera
devozionale. Il sacro con le sue stratificazioni e metamorfosi è quantomai
rivelatore. Nel metodo di Bachofen ciò assurge a perno centrale delle sue
trattazioni, si pensi per esempio ad opere ugualmente fondanti quali il Saggio
sulla simbologia delle tombe antiche (1859), La dottrina dell’immortalità
nella teologia orfica (1867) e l’articolo sulle Lampade sepolcrali romane.
Così,
con la presente opera, ci addentriamo negli strati più arcaici dell’orfismo
d’origine tracia e nella sua penetrazione asiatica, particolarmente in terra
licia, assistiamo allo sviluppo di una visione consolatrice e affatto lugubre
dell’aldilà. I passi omerici del VI e XVI libro, peraltro fra i più alti dell’Iliade,
riservati agli eroi della Licia, rispettivamente Glauco e Sarpedonte,
incarnerebbero alla perfezione ideali, religiosità, spirito di questo popolo. In
Glauco la melanconia espressa nella commovente similitudine del cadere delle
foglie come le stirpi mortali, un rassegnato atto di fede privo di angoscia
sulla finitezza umana e la caducità del vivere. In Sarpedonte un’immagine di
morte violenta – il corpo scempiato nella battaglia – che tuttavia viene
mitigata dalla visione salvifica di Apollo il quale, se non può opporsi alla
legge del destino, risana le ferite mortali in preparazione di un’altra vita
non terrena. È questa luce nella fatalità della fine, questa malinconica attesa
che non si dispera a costituire il nucleo del carattere licio, la sua resilienza al
passaggio del tempo. E secondo Bachofen ciò sarebbe da attribuire a un perdurare della componente femminile mai estromessa da quella maschile ma
mediata, inclusa, lasciata germogliare come sostrato irrinunciabile del vivere,
l’antica forma su cui gli usi si sarebbero originariamente plasmati per poi
mutarsi nel segno di una coerente continguità. Per questo nella società licia
la componente celeste uranica apollinea più tarda coesisterebbe senza traumi con
i resti della matrice demetriaca. Ciò sarebbe secondo lo studioso svizzero alla
base delle virtù di questo popolo, della conservazione nel tempo dei propri
caratteri, insomma di una indiscussa devozione alla propria identità.
Infine,
un breve appunto a chiusura. Questo saggio che vide la luce nel 1862, fu per la
prima volta dato alle stampe in Italia nel 1944. Per questo articolo ho
sfogliato l’edizione originale e leggere in quarta di copertina “Finito di
stampare nelle Officine Grafiche Fratelli Stianti, Sancasciano Val di Pesa
(Firenze), marzo 1944” mi ha sollecitato una riflessione ulteriore. Mentre
ancora la guerra imperversava, qualcuno continuava a tradurre, a tenere accesa
la lucerna della cultura. E non solo. Si scelse proprio in quell’anno di
offrire in traduzione italiana uno scritto di Bachofen, autore sino a quel
momento non leggibile nella nostra lingua. Ma non si scelse il monumentale Mutterrecht,
bensì questo agile volumetto che poteva stare in una tasca e recare a chi avesse avuto la fortuna di procurarselo un messaggio di
resistenza, pace, riscatto. L’austera e serena fierezza dei Licii attraverso le
parole di un uomo che un secolo prima, poco meno, vi aveva visto un barlume di
quello stesso spirito romantico che intorno a lui andava irrimediabilmente sgretolandosi,
alcuni decenni dopo veniva in soccorso a chi si angosciava tra le macerie della
guerra. La storia che c’è nella circolazione dei libri talvolta non è
secondaria al loro contenuto. In alcune situazioni accende di luce nuova le
ragioni che furono alla base della loro scrittura. Ebbene sì, è questa un’opera
che rassicura e che cura.
(Di Claudia Ciardi)
Edizione consultata:
Johann Jakob Bachofen, Il popolo licio, traduzione di Eugenio Giovannetti, collana “La Meridiana”, Sansoni, 1944
Si veda anche:
Germania e orientalismo
L'antropologia letteraria di Carlo Levi
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