Nell’attesa
di tornare a scrivere più avanti qualche considerazione sugli aspetti letterari
del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, stendo intanto alcune
impressioni a caldo, dopo la lettura. Romanzo autobiografico sull’esperienza da
confinato, vissuta a Grassano e poi a Gagliano in Basilicata tra il 1935 e il
’36, è da considerare fra le opere maggiormente formative e dense di
implicazioni nel panorama novecentesco italiano. Per quanto possa sorprendere è
assai poco uno scritto politico ma più che altro un affresco sociale, un
documento di ritratti e riflessioni su quel mondo contadino escluso dalla
storia, vessato e perciò poverissimo, a sua volta confinato in una dimensione
parallela al tempo storico che non riesce a incrociare, di cui tantomeno può
sperare di divenire interprete.
Se
il fascismo è il facitore del trionfo di uno statalismo piccolo borghese che
non sa e non vuole integrare la classe contadina né in alcuna misura
emanciparla, Levi esprime notevoli preoccupazioni per quanto sarebbe accaduto
in seguito. Le macerie dello statalismo fascista si sarebbero mischiate a
quelle liberali con il pericolo di una dittatura ancora più estrema, perché
instaurata sottotraccia, nella quale coscientemente si sarebbe continuato a
escludere gli ultimi. Qualcuno può obiettare che l’avvento
dell’industrializzazione abbia cambiato i rapporti di classe. Non più un mondo
contadino da integrare ma un mondo operaio che in parte ha incarnato la forzata
trasformazione degli spazi rurali. Le rivendicazioni di tanti uomini avviati
alla marginalità si sono trasferite dalle campagne alle città. E non a caso,
nell’Italia post bellica, sono proprio tali soggetti i protagonisti dell’opera
di Pasolini, in una poetica epopea dei vinti; il ragionamento sociale alla base
della letteratura e dell’antropologia pasoliniane prende le mosse, io credo,
dalla denuncia di Carlo Levi. Levi incide la prima pietra e intuisce che la
mancata integrazione del mondo rurale avrebbe seguitato ad essere un elemento
destabilizzante per qualsiasi stagione di governo successiva, come anche non si
sarebbe acquisita un’autentica e pienamente rappresentata idea di Stato finché
tutte le componenti sociali non vi avessero trovato giusta e degna espressione.
Di
fatto le tensioni mai risolte del mondo rurale si sono trasferite solo in parte
nelle lotte operaie ed entrambe, quelle scaturite da chi è rimasto impotente ad
assistere all’impoverimento delle campagne e quelle veicolate da coloro che
hanno cercato altrove un illusorio progresso sociale, sono confluite in
un’identica conflittualità, soccombente quanto ostinata, la medesima che lo
storico F. Braudel registra nelle sommosse popolari delle civiltà mediterranee
tra il Cinquecento e il Seicento. È un conflitto permanente, disperato e
proprio per questo longevo, che allora non aveva i connotati della lotta di
classe e che solo tra la fine dell’Ottocento e nel Novecento si configura come
tale. Una lotta che non ha abdicato ai caratteri di una durevolezza quasi
atemporale, pur essendo ogni volta costretta a tornare sui suoi passi senza che
alcuna apertura nelle dirigenze statali abbia saputo sopirne le vertiginose
fiammate. Tensione che, riportata ai giorni nostri, si riscopre anche negli
attuali schemi politici italiani.
L’interrogativo
di Carlo Levi sull’allontanamento dell’intellettuale borghese dalle istanze
della massa, e dunque la sua incapacità di parlarle e interpretarne i sussulti
senza voler rinunciare alla propria autoreferenzialità, alle letture di un buon
senso classista che distolgono dalle possibili soluzioni, è tuttora aperto e
all’origine di tanta accesa veemenza anche nelle polemiche odierne tra
cosiddetto populismo e visione liberale dello status quo. Categorie che in
questo momento appassionano l’intellettuale che crede di parlare al sicuro
lontano dalla tempesta, mentre non si accorge che quella corrente di
vendicativa esasperazione non solo lo tira dentro il conflitto – forza
gravitazionale ineludibile – ma in buona parte ne ha già decretato la fine.
Proprio
ora che il concetto di massa pare più fluido rispetto a ogni altra epoca, e
tralasciarla o considerarla solo come astrazione significa in maggior misura
far torto contemporaneamente sia alla sfera individuale sia alle possibilità
del comunicarsi individuale nel collettivo. In questo inizio di millennio
quelli che “non fanno storia” – i frammenti di una società rurale che ancora
abitano le campagne, gli operai in cui essa si è in parte trasformata e infine
gli esclusi di questi due mondi che non son riusciti a compiere le loro
rivoluzioni e affollano le periferie urbane – vogliono entrare nella corrente
della storia, vogliono poter dire qualcosa. Forse adesso, per la prima volta,
sono loro i destinati a un tempo storico – non più semplice protesta e fiammata
ma volontà di affermazione – mentre chi finora ne è stato attore e narratore
rischia l’oblio.
Carlo
Levi ha espresso tutto ciò un’ottantina di anni fa, e non lo ha fatto parlando
di politica ma descrivendo lo stato miserabile della civiltà contadina. Uno
spaccato tra i più alti che siano stati dedicati alla storia d’Italia, volume
profondissimo di letteratura e antropologia, che contiene tra l’altro alcune
delle pagine migliori mai scritte sulla questione meridionale. Per me il
compendio assoluto degli altrettanto preziosi volumi di Ernesto de Martino,
studiati durante i miei vent’anni, le cui conclusioni ho qui ritrovato in uno
sguardo d’insieme, lucido e potente.
(Di
Claudia Ciardi)
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