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2 febbraio 2019

Walter Benjamin - Strada a senso unico


«Rilievo. Si è in compagnia della donna che si ama, si conversa con lei. Poi, settimane o mesi più tardi, quando si è lontani, ci si ricorda qual era stato il tema della conversazione. E ora il motivo se ne sta lì banale, crudo, senza profondità, e ci si rende conto che solo lei, curvandovisi sopra per amore, con la sua ombra l’aveva protetto da noi, così che in tutte le pieghe e in tutti gli anfratti il pensiero palpitava come un rilievo. Se siamo soli, come ora, esso s’appiattisce esponendosi, senza ombra né conforto, alla luce della nostra conoscenza».

Walter Benjamin, Strada a senso unico (Einbahnstrasse), a cura di Giulio Schiavoni, Einaudi, 2006.

A piedi lungo le vie della città, una prosa di viaggio bizantina e labirintica, oscillante tra sogno e critica sociale. Un grido d’allarme che si esprime in forma di frammenti, dove la lingua e il pensiero appaiono volutamente destrutturati, perché il lettore abbia coscienza piena del disorientamento in cui è immerso. Poco prima che accada l’irreparabile, questa è l’ultima passeggiata che Walter Benjamin compie, ripercorrendo le latitudini del suo immaginario e i segnali che lo hanno guidato, inquieto viandante, a dorso di una strada a senso unico.

Così scrivevo in un mio pezzo del 2011. Questa raccolta di prose benjaminiane, che già al tempo della loro pubblicazione con Ernst Rowohlt nel 1928 venne felicemente ribattezzata “bazar filosofico”, ha esercitato un fascino durevole sulle espressioni della mia scrittura e i modi del suo comunicarsi. Dedito alla “kleine Form”, quell’incantevole bonsai letterario fine ottocentesco fiorito ai bordi della nascente metropoli, Benjamin ne fece uno spazio per l’incontro di suggestioni memoriali e urgenze poetiche, di cui l’Infanzia berlinese rappresenta un altro capolavoro giocato sull’intreccio dei generi e la compresenza oracolare, bifronte di un allegorico passato-presente.
La sua strada a senso unico la percorse negli anni Venti, quando l’inflazione tedesca aveva cominciato a dar segni di forte squilibrio, avvitandosi in una crisi interna senza tregua. Un viaggio tra le rovine tedesche del primo dopoguerra, dal quale l’autore risalì spossato, toccando con mano gli egoismi di una media borghesia impoverita, che si vedeva quotidianamente scivolare in un’inaccettabile arretratezza, costretta a intaccare le proprie rendite di posizione. Ma erano anche gli anni di una crisi profonda nella vita stessa dell’osservatore. Emarginato dall’università, poteva contare solo su fonti di guadagno precarie garantite dalla collaborazione con alcune riviste. Eppure, si trattava ancora della Germania weimariana, quella che gli intellettuali come Benjamin si sforzarono di difendere prima del baratro. Certo, non fu un quadro politico concorde, mai lo fu quell’esperimento in nessun anno della sua breve esistenza, brutalmente appesantito dai debiti di guerra e dal venir meno della coesione sociale. Lamentava anche questo il grande scrittore berlinese, che guardava con rassegnazione all’autoreferenzialità delle cerchie accademiche e sentiva fortemente su di sé la disillusione nei confronti dell’intellighenzia privilegiata.
Così, i Denkbilder qui raccolti, le immagini di pensiero destinate a fluire nel suo onirico labirinto dandogli forma, non si occupano di discettare sulla Hochkultur, la cultura alta, pseudo impegnata, dove le aderenze di potere finiscono per soffocare la genuinità del dibattito. Vanno piuttosto in cerca di quelle poetiche minime, di quelle effimere architetture del quotidiano in cui si accendono lampi di verità: scantinati, baracconi, fiere, giostre, bambini, robivecchi e poi oggetti o anche solo nomi capaci ancora di sprigionare un po’ di calore e bellezza. Frammenti brevissimi titolano “lampada ad arco”, “loggia”, “garofano selvatico”, “asfodelo”.
È un’opera di sopravvivenza questa Strada a senso unico, una scialuppa nella tempesta sulla fine della quale tuttavia l’autore non si fa illusioni né vuole venderne ai suoi lettori. Piuttosto metterli sullavviso circa i tranelli di una cultura dell’alto, consolidata, che finge d’impegnarsi in battaglie d’avanguardia salvo poi sfilarsi o tradire le più elementari regole della solidarietà e della morale comune. C’è tanto di questa riflessione benjaminiana anche nell’oggi e tanto di un’appropriazione indebita di uno studioso che ebbe un rapporto conflittuale, complicato con i suoi contemporanei che pochi spazi gli concessero ben prima dell’ascesa nazionalsocialista. Tant’è. Anche oggi, tra noi, c’è chi firma petizioni solidali e poi non ha il minimo ritegno a mancare di rispetto al suo prossimo e a quel suo prossimo fa sistematicamente del male, utilizzando, come ha fatto notare Borges in molte sue pagine che ci dimentichiamo di rileggere, metodi fascisti e se vogliamo dire più in generale, autoritari, vestendo panni di democraticissimo. L’odierna apologetica indirizzata al mondo antico parla di Atene come il modello di una democrazia senza macchia, aperta agli stranieri, forte in mare e in terra, non violenta. Eppure per divenire la potenza che fu Atene praticò lo schiavismo, non si fece scrupolo di perpetrare eccidi ai danni dei coloni ribelli, commise errori strategici clamorosi, cadde nella tirannide e nell’oligarchia, e infine venne sconfitta da Sparta. La democrazia non è uno strumento neutrale, non è una forma priva di sentimento o d’interpretazione politica. Si partecipa alla democrazia e la misura della sua solidità sta proprio nell’ampiezza della partecipazione e nei modi in cui gli atteggiamenti e i bisogni di chi vi prende parte si traducono all’interno degli apparati governativi. Non possono delle fazioni, in maniera apodittica, rivendicare la democrazia per sé e non lo possono neppure i cosiddetti detentori della cultura. Quando tra l’altro questi stessi intellettuali hanno disponibili molteplici canali per esprimersi, non possono dire d’essere perseguitati né parlare di democrazia sotto scacco. Faccio notare che gli antifascisti del ’20 e del ’30 furono confinati e poi andarono per la maggior parte esuli. Attraversarono ogni genere di difficoltà, vissero nella paura e tra non poche privazioni. Non si scherzi con la memoria di queste cose, non si confonda l’impegno civico di queste persone con chi ora fa salotto e si appropria della storia in modo strumentale.
Anche oggi la battaglia per il potere macina vite, aspettative, mostra un volto efferato danzando sulle macerie di ideologie che già tanto danno hanno recato nel recente passato. Ma ancora ci si barrica dietro e dentro quelle ideologie visto che in gioco c’è una futuribile prospettiva di potere la quale, se venisse a mancare del tutto, rischierebbe seriamente di generare altri equilibri. E allora, anziché sviluppare un dibattito serio e anziché scontrarsi su terreni scelti e ad armi pari, si tira di sponda o ci si sottrae, perché è più comodo così, altrimenti bisognerebbe argomentare le proprie posizioni col pericolo di dover giustificare un privilegio che non ha più ragione d’essere in quanto ha perso le sue longeve basi di consenso.
Perché dunque tanto accanimento? Potere, potere, potere. Quando i rapporti di forza cambiano, chi prima godeva di favori si assottiglia fino a dissolvere. Ma fa di tutto per continuare a mostrarsi ben saldo. Potere, potere, potere. Ecco perché, dunque, tanto accanimento. 

(Di Claudia Ciardi)



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Berliner Spreepark

26 agosto 2018

L'antropologia letteraria di Carlo Levi


Nell’attesa di tornare a scrivere più avanti qualche considerazione sugli aspetti letterari del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, stendo intanto alcune impressioni a caldo, dopo la lettura. Romanzo autobiografico sull’esperienza da confinato, vissuta a Grassano e poi a Gagliano in Basilicata tra il 1935 e il ’36, è da considerare fra le opere maggiormente formative e dense di implicazioni nel panorama novecentesco italiano. Per quanto possa sorprendere è assai poco uno scritto politico ma più che altro un affresco sociale, un documento di ritratti e riflessioni su quel mondo contadino escluso dalla storia, vessato e perciò poverissimo, a sua volta confinato in una dimensione parallela al tempo storico che non riesce a incrociare, di cui tantomeno può sperare di divenire interprete.

Se il fascismo è il facitore del trionfo di uno statalismo piccolo borghese che non sa e non vuole integrare la classe contadina né in alcuna misura emanciparla, Levi esprime notevoli preoccupazioni per quanto sarebbe accaduto in seguito. Le macerie dello statalismo fascista si sarebbero mischiate a quelle liberali con il pericolo di una dittatura ancora più estrema, perché instaurata sottotraccia, nella quale coscientemente si sarebbe continuato a escludere gli ultimi. Qualcuno può obiettare che l’avvento dell’industrializzazione abbia cambiato i rapporti di classe. Non più un mondo contadino da integrare ma un mondo operaio che in parte ha incarnato la forzata trasformazione degli spazi rurali. Le rivendicazioni di tanti uomini avviati alla marginalità si sono trasferite dalle campagne alle città. E non a caso, nell’Italia post bellica, sono proprio tali soggetti i protagonisti dell’opera di Pasolini, in una poetica epopea dei vinti; il ragionamento sociale alla base della letteratura e dell’antropologia pasoliniane prende le mosse, io credo, dalla denuncia di Carlo Levi. Levi incide la prima pietra e intuisce che la mancata integrazione del mondo rurale avrebbe seguitato ad essere un elemento destabilizzante per qualsiasi stagione di governo successiva, come anche non si sarebbe acquisita un’autentica e pienamente rappresentata idea di Stato finché tutte le componenti sociali non vi avessero trovato giusta e degna espressione.
Di fatto le tensioni mai risolte del mondo rurale si sono trasferite solo in parte nelle lotte operaie ed entrambe, quelle scaturite da chi è rimasto impotente ad assistere all’impoverimento delle campagne e quelle veicolate da coloro che hanno cercato altrove un illusorio progresso sociale, sono confluite in un’identica conflittualità, soccombente quanto ostinata, la medesima che lo storico F. Braudel registra nelle sommosse popolari delle civiltà mediterranee tra il Cinquecento e il Seicento. È un conflitto permanente, disperato e proprio per questo longevo, che allora non aveva i connotati della lotta di classe e che solo tra la fine dell’Ottocento e nel Novecento si configura come tale. Una lotta che non ha abdicato ai caratteri di una durevolezza quasi atemporale, pur essendo ogni volta costretta a tornare sui suoi passi senza che alcuna apertura nelle dirigenze statali abbia saputo sopirne le vertiginose fiammate. Tensione che, riportata ai giorni nostri, si riscopre anche negli attuali schemi politici italiani.

L’interrogativo di Carlo Levi sull’allontanamento dell’intellettuale borghese dalle istanze della massa, e dunque la sua incapacità di parlarle e interpretarne i sussulti senza voler rinunciare alla propria autoreferenzialità, alle letture di un buon senso classista che distolgono dalle possibili soluzioni, è tuttora aperto e all’origine di tanta accesa veemenza anche nelle polemiche odierne tra cosiddetto populismo e visione liberale dello status quo. Categorie che in questo momento appassionano l’intellettuale che crede di parlare al sicuro lontano dalla tempesta, mentre non si accorge che quella corrente di vendicativa esasperazione non solo lo tira dentro il conflitto – forza gravitazionale ineludibile – ma in buona parte ne ha già decretato la fine.

Proprio ora che il concetto di massa pare più fluido rispetto a ogni altra epoca, e tralasciarla o considerarla solo come astrazione significa in maggior misura far torto contemporaneamente sia alla sfera individuale sia alle possibilità del comunicarsi individuale nel collettivo. In questo inizio di millennio quelli che “non fanno storia” – i frammenti di una società rurale che ancora abitano le campagne, gli operai in cui essa si è in parte trasformata e infine gli esclusi di questi due mondi che non son riusciti a compiere le loro rivoluzioni e affollano le periferie urbane – vogliono entrare nella corrente della storia, vogliono poter dire qualcosa. Forse adesso, per la prima volta, sono loro i destinati a un tempo storico – non più semplice protesta e fiammata ma volontà di affermazione – mentre chi finora ne è stato attore e narratore rischia l’oblio.

Carlo Levi ha espresso tutto ciò un’ottantina di anni fa, e non lo ha fatto parlando di politica ma descrivendo lo stato miserabile della civiltà contadina. Uno spaccato tra i più alti che siano stati dedicati alla storia d’Italia, volume profondissimo di letteratura e antropologia, che contiene tra l’altro alcune delle pagine migliori mai scritte sulla questione meridionale. Per me il compendio assoluto degli altrettanto preziosi volumi di Ernesto de Martino, studiati durante i miei vent’anni, le cui conclusioni ho qui ritrovato in uno sguardo d’insieme, lucido e potente.  

(Di Claudia Ciardi)


8 settembre 2016

Un improvvido raggiro



Book of Hours. Detail. Netherlands 14th cent. Ms Codex 738. Penn Lib.


La rapidità con cui in Italia vengono istruiti processi alle streghe lascia di stucco. E la giovane sindaca di Roma in polemica con le eminenze capitoline difficilmente avrebbe potuto salvarsi. Quella che si è abbattuta sul Campidoglio nelle ultime ore somiglia sempre più a una bufera in un bicchier d’acqua. Purtroppo la mezza brutta figura resta, anche a causa di una linea non sufficientemente discussa all’interno del Movimento. Io credo che questa donna non manchi affatto di carattere, solo che risulta compressa da molti fattori interni al proprio schieramento di appartenenza ed esterni, perché le questioni cui bisogna far fronte peggiorano ogni giorno e chi vi si addentra va senza equipaggiamento né protezioni in un campo minato. E una tale vicenda a me sembra non solo ben rappresentare le difficoltà che hanno le italiane più giovani, oggi, a imporsi e contribuire a un progetto con le proprie idee – non ne è garanzia a quanto pare neppure una carica politica di alto livello – ma riflette ancor più lo stallo generazionale del paese, cioè della cittadinanza più giovane, tutta, che percepisce su di sé le conseguenze di un simile immobilismo e non trova risposte alle sue necessità.   
Detto ciò, stonano non poco certi paginoni d’apertura televisivi e non che vanno avanti a colpi di dichiarazioni e controdichiarazioni. Mi infastidisce ancor più l’impronta riduttiva con cui i fatti vengono analizzati, una tendenza che non riguarda solo le baruffe di partito. Su un versante c’è il sensazionalismo antropofago che si autoalimenta e sull’altro, dicasi profondità di analisi, il nulla o giù di lì. Ma puntualmente ognuno confessa di voler fare chiarezza, cosa impossibile a caldo, nel rincorrersi delle voci da un corridoio all’altro. Bisogna darsi un minimo di tempo; diamo tempo a chi è investito dal presunto scandalo di capire e rimediare, se come pare, si tratta di cose rimediabili.
Cinque milioni di persone che ogni mattina si alzano, avviandosi alle loro attività: benvenuti nella metropoli. Sradicare il malaffare, si capisce, richiederà molte energie; risolvere disservizi e corruttele di un ambiente così complesso non sarà certo il risultato di una giunta.
Per questo non rido delle difficoltà in casa d’altri. Se in un luogo tentacolare e ingestibile, a detta degli stessi romani, dove i problemi sono diventati disastri “il periodo in prova” di un’amministrazione fuori dagli schemi si traduce in un’ennesima battuta d’arresto, mi preoccupo non poco. Non solo per le sorti di Roma ma anche per il resto del paese. Chi si illude di intercettare l’eventuale diaspora di voti cinque stelle – tutta da vedere – in una specie di reflusso ex contrario, appunto si illude. Semmai resterà solo una scappatoia a esprimere la disaffezione per la politica di ogni colore, già peraltro ampiamente sperimentata nelle più recenti tornate elettorali, l’astensionismo.
Non rido del luogo comune scodellato da mesi, “se questi sono incapaci a livello locale, figuriamoci in cabina di regia” – per non parlare di una fastidiosissima contrapposizione tra locale e nazionale imperante nelle letture politiche degli ultimi mesi. Una sconfitta locale non avrebbe a che vedere con le dinamiche nazionali. Che strano, evidentemente i cittadini-elettori in quell’attimo si imbattono nel ponte Einstein-Rosenberg e compiono un salto di dimensione, votano e al contempo vanno altrove. La stessa signora Merkel sembra caduta in trappola, qualche giorno fa. Salto dimensionale anche per lei. Il Meclemburgo all’estrema destra? Roba locale. Eh sì, ma a forza di localismi si fa un bel brodo nazionalista.
Insomma mi preoccuperei più dell’estremismo che soffia da tutte le parti, portato in gloria inevitabilmente dalla stagnazione economica, cercherei di dare spazio ai problemi che zavorrano le banche, proverei ad analizzare meglio i dati sulla crescita zero in Italia e quelli assai deludenti relativi al manifatturiero tedesco – ancora locomotiva d’Europa? E in caso vogliamo vedere che tipo di carburate c’è in questa locomotiva? – tutto farei, anziché elucubrare sugli addentellati di un assessore con un noto studio legale. O sulle presunte ombre della destra romana intorno alla giunta Raggi.
Vorrei ricordare che Tsipras in Grecia ha scelto di governare insieme ai greci indipendenti di Kammenos, politico anti euro con inclinazioni fasciste. Lecita indignazione degli eredi della resistenza greca, ripeto lecita e comprensibilissima. Dopodiché esiste l’opportunità politica e la buonafede di Tsipras, secondo me mai scalfita, neppure dalla notte degli accordi con il Gotha Ue né dall’inizio del percorso di riforme “come Bruxelles vuole”. L’alleanza con To Potami, suggerita in maniera poco elegante, per usare un eufemismo, da Schulz avrebbe creato continui strappi interni alla coalizione, mentre il leader di Syriza necessitava di creare un fronte allineato su posizioni anti austerity, augurandosi un po’ più di solidarietà tra i popoli europei, di fatto mai venuta. Aggiungo anche che trovo ben grave usare i nomi della resistenza e i nomi di grandi statisti del passato per far passare delle strategie di partito contrarie all’interesse e al bene collettivo. In quest’ottica mi scandalizza molto meno l’alleanza con personalità ritenute ideologicamente scomode ma che mostrano convinzione e coerenza sul piano delle istanze di cui si fanno promotrici. E magari, nei confronti della Grecia, vediamo di essere un pochino meno smemorati, parliamo delle conseguenze sociali di un cammino tortuoso, e di fatto inconcludente, imposto dall’esterno per rimettere i conti in ordine, invece di ripescarla dal cilindro solo quando si tratta di spread e rampogne sul debito.
Ritengo che quando uno schieramento incontra degli ostacoli e avvia una discussione interna ciò non sia sintomo di debolezza e corruzione ma, al contrario, di rifiuto di quelle logiche messe in circolo da una galassia del potere abituato a forzature, a oliare il meccanismo per vie traverse, al “lo sappiamo noi cosa sia meglio per voi”. Da qui si arriva alla crescente insofferenza mostrata da non pochi onorevoli della repubblica per lesercizio della democrazia diretta, principalmente del diritto di voto. Non mi spiego in maniera diversa tanta euforia; pare che l’idea dell’astensionismo che cresce sia il premio di consolazione cui si aggrappa certa vecchia politica. Troppi ormai sono gli anni trascorsi fra governi d’emergenza, governi di scopo, governi tecnici. Postulando che tutto fosse andato per il meglio sempre si sarebbe dovuto tener conto di un’opinione pubblica quantomeno irritata da questo modo di procedere. Preferisco avere a che fare con soggetti che mostrano qualche incertezza e vanno incontro a degli intoppi, prima di quanti si muovono nei palazzi con una disinvoltura che talora scopre ben altre sponde. Insomma, stando alle circostanze, come raggiro questo dei Cinque stelle sembrerebbe piuttosto improvvido.       
Si capisce infine che coloro che hanno posizioni consolidate nel paese, per la maggior parte le generazioni più avanti negli anni e solo una parte infinitesima di giovani spinti a vario titolo su effimere corsie preferenziali, non voglia mettere in discussione quasi nulla. In virtù del posto che occupano o hanno occupato non possono che essere conservatori. Anche in tanta intellighenzia, che pure rispetto, sento insinuarsi troppo spesso un pensiero secondo me altrettanto pericoloso. Meglio andar così, meglio il meno peggio perché il resto non si sa. Il che mi pare un modo piuttosto insoddisfacente di affrontare le cose, un ragionare a braccetto con una riserva mentale oscillante tra beata indifferenza che si crede illuminata e bieco egoismo. Mentre quel che le persone si aspettano ora è vedersi coinvolte e avere la percezione che si fanno passi concreti verso di loro.     

(Di Claudia Ciardi)


Manuscript miniature (France), XIII Century 

29 dicembre 2015

L'ellenismo secondo Berlino (I)





Il confronto tra Grecia e Germania che ha raggiunto il suo apice lo scorso luglio nei giorni delle frenetiche trattative sul debito ellenico, in realtà per rimandare la questione a data da destinarsi, ha rappresentato indubbiamente un punto di non ritorno nel dibattito politico europeo. Oltre a una sonora figuraccia di tutte le parti coinvolte. La Grecia invece, a quanto pare, ne è uscita piegata ma affatto sconfitta sul piano morale. Imponendo ai convenuti Ue un governo socialista, profondamente rinnovato rispetto ai vecchi oligopoli incarnati da Pasok e Nuova Democrazia, i due partiti che di fatto si erano divisi le zone di influenza nel paese, Alexis Tsipras, giovane fondatore di Syriza e volto nuovo della politica greca, è riuscito in un’impresa senza precedenti: liquidare in blocco la vecchia classe dirigente. Elemento importantissimo su cui non è minimamente caduta l’attenzione mediatica, presa dal terrore del populismo che ormai siamo abituati a sentire ovunque evocato, quasi sempre a sproposito. Uno sproposito che va a braccetto con la categoria del ridicolo e che rischia di rafforzare proprio il vero populismo, quello più irrazionale e violento, col quale gli attuali movimenti di protesta nati nello scenario europeo non hanno nulla a che vedere. Diversamente si seguita a infilare nel calderone gruppi anti-tutto, frange dei più vari e concitati estremismi, insieme a soggetti che tentano la via complicata dell’attivismo e della militanza politica per costruire discorsi alternativi e spostare gli equilibri di potere verso altre zone della società. Chi prova a intercettare il malcontento popolare, promuovendo una politica inclusiva e autenticamente rappresentativa non può ricevere la continua stigma verticistica di governanti e intellettuali. La pervicacia con cui ciò avviene tradisce interessi estranei al bene comune.
Torniamo al contesto europeo. Che Podemos, Ciudadanos (il Podemos di destra per dirla in maniera semplificata), Syriza, Movimento Cinque Stelle siano in ascesa è un dato di fatto. Entrano nei parlamenti, acquistano porzioni di consenso più ampie a ogni tornata elettorale. Sono forze che non legano tra loro, almeno al momento. Se si trattasse di amici si potrebbe dire che si conoscono per nome ma non amano frequentarsi. Ma la convergenza potrebbe anche verificarsi, chi lo sa. Piuttosto mi preme un altro discorso, diciamo riguardante la fenomenologia di questi gruppi. Nascono dalla crisi, ma non solo da quella economica come si ripete dappertutto, semmai da uno scivolamento sistemico, uno squilibrio innescato da molteplici fattori di crisi e perciò destinato ad avere conseguenze ad ampio raggio.    
Non ho menzionato Front National e Lega non per autocensura fascistica – tra l’altro anche questa narrazione del fascismo immanente rischia di essere un nonsenso quanto il populismo – ma perché, insieme a ben più autorevoli commentatori, credo si tratti di ‘rimanenze’ di apparato che amplieranno la loro piattaforma di votanti se il quadro sociale insisterà a essere deteriore; tuttavia non avranno molte chance di affermarsi in via durevole all’interno della ricomposizione cui si accennava. Tra i due schieramenti c’è inoltre una differenza non da poco, che l’alleanza in sede Ue si sforza di mascherare. Mentre Marine Le Pen ha come ipotetico referente l’insieme dell’elettorato francese, del resto il patriottismo è in Francia un argomento storicamente molto forte, Salvini ha un vizio di forma che non potrà superare nonostante ne inventi di tutti i colori, l’origine settaria e territoriale della Lega abbracciata all’ampolla padana. Inoltre il supposto nazionalismo italiano non sarebbe spendibile come collante, non almeno nella misura di quello francese. 
L’opinione pubblica delle diverse latitudini, e in Italia con accelerate ancora più brusche, ha già dimostrato di prendere a scorno un certo modo di fare che la indora per poi alla prima curva della strada tradirla in quel po’ di amor proprio che ancora le scorre in corpo; riguardo l’italiano medio, il limite invalicabile sta nell’essere platealmente ritratto come impecorito o ingufito – nel modo più bonario possibile dico pure che la metafora del gufo assiso e brontolone ha esaurito se stessa. In altre parole, l’elettore mostra a questo punto parecchia insofferenza e irritabilità se lo si tira in ballo come un infante da prendere per mano, sottintendendo che da solo non potrebbe fare di meglio perché privo di vero intendimento. 
I sobbalzi all’interno dei singoli paesi europei e le altrettante pressioni sui confini (crisi in Ucraina, emergenza profughi, turbolenze nei mercati asiatici) comportano che ogni vento minacci una tempesta, facendoci sentire in «piccioletta barca». Laddove servirebbero strategie, risposte decise e compatte, un fronte comune da opporre al disintegrarsi dei tanti fronti periferici, non per innalzare muri ma per farci trovare preparati e solidi dinanzi al deterioramento del quadro globale, permangono incertezze e assurdità nella gestione continentale. Anziché sfruttare il teatro della crisi greca come un palco da cui mostrare al mondo forza e fermezza politica (non fiscale!) e l’ecumenismo proprio di chi si proclama guida d’altri, la Germania ha preferito trasformarsi in una motrice impazzita. E così, nei caldi giorni di luglio, siamo deragliati. Di là dall’oceano gli Stati Uniti guardavano attoniti. Ad appena un paio di decenni dalla riunificazione, la Germania è partita per la sua galoppata in solitaria, mostrando di non possedere nessuno degli antidoti che l’America si era premurata di iniettarle nel corso della lunga liaison postbellica. La casa era ormai scoperchiata, l’insofferenza sotto gli occhi di tutti. E subito dopo la Grecia, sono venute le difficoltà coi profughi, al di là di molta propaganda a buon mercato – prima la Germania li avrebbe presi tutti, poi siccome il flusso si manteneva eccedente ha ricominciato a strigliare i paesi mediterranei perché non attuano i dovuti controlli; sarà una coincidenza ma dopo l’appello della cancelliera agli industriali dell’auto affinché si impegnassero a creare posti di lavoro per gli immigrati è scoppiato lo scandalo Volkswagen – qualcuno nella madrepatria non ha gradito e ha passato i suoi dossier a chi poteva sollevare un vespaio? Le spine reazionarie pungono sempre al momento giusto. E l’avvertimento non si è fatto attendere: signora non si allarghi troppo, siamo pur sempre la Germania! 
Incensare Merkel sul «Time» a fine anno è stata una mossa ancora una volta mediatica, per mettere un po’ di pace. Prima della valanga lepeniana, ci teniamo caro l’immobilismo della CDU. Inoltre il passaggio delle consegne per assicurare l’Europa o ciò che ne resterà al suo futuro non potrà che avvenire attraverso Berlino. Ecco qui la cosiddetta strategia d’uscita statunitense. Lasciare il vecchio continente per concentrarsi sulle potenzialità asiatiche. Una cosa all’apparenza semplice addirittura scontata, se non fosse che la sua attuazione rivela molte pecche. E quindi torniamo alla Grecia, perché tra i tanti incubi che la vicenda ha materializzato presso i diversi centri del potere mondiale, c’è anche la possibilità dell’Europa così impostata di cavarsela da sola. Per quanto conti la mia opinione, io credo che una simile teoria poggi su una premessa sbagliata. Finché immagineremo un’Europa a trazione di qualcuno, nel presente la Germania, il progetto continuerà ad avanzare pestandosi regolarmente i piedi e un bel giorno si rifiuterà di camminare. Nel caso specifico, la storia insegna che una Germania dominante tende a destabilizzare le altre nazioni; l’ultima volta l’effetto è stato tragico. È vero, i fatti non si ripetono, magari questi antidoti particolari adesso li abbiamo, però è bene non dare per scontato nulla. Penso che nei dibattiti pubblici questa sia una buona pratica. Si comincia omettendo qualcosa e si finisce chissà dove. Nei giorni della trattativa greca violenza e umiliazione si sono mescolate in modo sinistro, anche tra la gente comune: pagate, porci, o ve la faremo vedere. Alla solidarietà, estesa e però per lo più ridotta al lumicino di opache memorie liceali persino un po’ folkloriche, si alternavano frasi concitate e volgari che me ne ricordavano altre.
E siccome chi si sbraccia e alza la voce in genere la spunta sul più onesto oratore di questo mondo, in mancanza di una vera consapevolezza politica il pericolo non è superato. Diceva Hermann Hesse: «I tedeschi sono un grande e notevole popolo, chi lo negherà? Sono forse il sale della terra. Ma come nazione politica… impossibile. Voglio, una volta per tutte, non avere più nulla a che fare con loro sotto questo aspetto». Una frase estrema, frutto di un periodo particolarmente atroce per la Germania stessa a cui questa nazione era arrivata non senza avere in aiuto la dissennatezza del proprio vicinato. Eppure un certo fondo di verità scorre ancora in queste righe. Riconoscerlo non toglie nulla alla Germania, e rafforzerebbe in noi la volontà nel rivendicare un’integrazione autenticamente paritaria.

(Di Claudia Ciardi) 

17 novembre 2015

Un caffè con Weber


Vincent van Gogh, Vecchio seduto, (1890) olio su tela, Otterlo, Kroller-Muller Museum

Era il 2006, un anno importante sul piano personale, per alcuni incontri che si materializzarono nella mia vita, quasi fossero stati preparati e rafforzati da certe letture in cui mi addentrai allora in circostanze assolutamente casuali. Mi riferisco alla saggistica antropologica e alla poesia americana. L’antropologia innescò un lento processo di apertura verso l’esterno, cosa che l’esperienza universitaria aveva offerto in dosi carentissime, e inaugurò una fase di rimozione di quelli che nella sfera culturale si potrebbero definire freni inibitori. Espressione questa che forse suscita qualche perplessità, ma non saprei trovarne una più appropriata ripensando dopo tanto tempo a come la pluriennale ligia attenzione da parte mia a programmi e studi troppo poco discussi nel divenire delle cose, avesse stemperato una certa vivacità critica, o meglio, l’avesse messa al bando sul nascere. E qui ebbe inizio anche una singolare rottura, che purtroppo non trovò altro sbocco se non in una definitiva presa di distanza. Il chiuso delle aule aveva un volto piuttosto compiaciuto, non vi era alcuna drammatizzazione al riguardo, il corpo accademico rattrappiva ingessato e contrapposto da presunte distrofie ideologiche o da semplice disinteresse verso un progetto comune. Siccome l’obiezione sarebbe riuscita a manifestarsi solo dopo aver intrapreso dei giri molto larghi e sempre trascinandosi dietro lo spettro del fraintendimento, fu abbastanza naturale arretrare. Chiaramente nella totale indifferenza, ci sarebbe stato da sorprendersi del contrario. 
In parallelo, la poesia americana che cominciai a divorare allora, da Ezra Pound a Lawrence Ferlinghetti, gustati in piena beatitudine, nel rigetto istintivo di biografi e commentatori, mi aiutò a traghettare l’ormai appesantito bagaglio dei classici verso altre direzioni. Si può dire che sul piano letterario avvenne ciò che aveva insidiato, ribaltandolo, il mio sguardo sulla realtà. Era bastato entrare in una stanza e aprire una finestra per respirare un po’ d’aria fresca, gesti in apparenza banali ma non così tanto se qualcuno con una scusa o con un’altra ci tiene lontano dalla porta. L’ingenuità in cui mi dibattevo era tuttavia colossale. Non si tocca un personaggio ingombrante come Pound, pensando di campare solo dei suoi versi. Quello che io davo per scontato, non lo era per altri. Mi trascinai mio malgrado in una strana situazione, dove un interesse del tutto spontaneo per un poeta veniva stiracchiato e quindi platealmente tradito. Bisognava intanto capire chi fosse costei che parlava del poeta fascista. Una simpatizzante o un’innocua da palleggiare perché una bandiera fosse portata davanti a un’altra? Due aspetti che avrebbero potuto tranquillamente coesistere, sulla cui convivenza si faceva anzi un grande affidamento. Il bello però doveva ancora venire. La questione ebraica. Nel dubbio che fossi un’antisemita, l’indagine proseguì. Poiché avevo frequentazioni tedesche, pur non facendo parte di nessun empireo universitario, a che titolo soggiornavo in Germania, non avendo una borsa di studio né figurando il mio nome in nessuna zona franca nepotista? Credo di aver fatto un pieno di luoghi comuni come mai in nessun’altra stagione della mia vita. Per fortuna, quando questo controllo kafkiano mostrò il suo profilo dozzinale e abborracciato, i doni della poesia si erano già consolidati in me, e la seccatura in cui ero incappata non li poté disperdere. Fu come se stessi guadando un fiume in piena notte. Mentre qualcuno aspettava nel punto in cui mi ero immersa, pensando che sarei presto tornata indietro, i miei piedi poggiavano già su un fondale sicuro. E non se ne parlò più, com’era prevedibile, com’è sempre quando le cose cominciano mancando di autenticità, e su una forzatura così evidente pretenderebbero di accampare anche qualche diritto. 
Estate di nove anni fa, dunque. Con l’insospettabile immediatezza di un’alchimia tutto bruciò in me a una velocità vertiginosa. A un tale processo contribuì molto l’amicizia e il dialogo con una cerchia bizzarra e tutto sommato eterogenea per età e inclinazioni che mi spronò a andare fino in fondo a quel ripensamento. La rivolta interiore insomma abbracciò felicemente i suoi complici. 
Ma c’è un episodio che ricordo in particolare, fra le lunghe chiacchierate dell’anno in cui meglio mi sono conosciuta. Avvenne con uno studente fuori corso, ignoro chi me l’avesse presentato né come ci ritrovammo soli a un tavolino a parlare e parlare. Passarono due ore forse più e sembrava che ci fossimo appena seduti. A un tratto, confessò: «Io comunque mollo, ho bisogno di un lavoro. Non so neppure se lo troverò. Con questa roba non vado da nessuna parte. Qui siamo rimasti a Weber, te lo propinano come una Bibbia, e dopo sembra che non sia esistito altro. Siamo fermi al primo dopoguerra, quando va bene».
Fu una dichiarazione d’intenti abbastanza brusca e diceva tutto. Era anche molto più avanti di me. Se io avevo un’insofferenza generica verso alcune forme della ritualità accademica che mi sembravano indisponibili alla comunicazione e all’incontro, lui si era posto il problema di un’utilità reale, una ricaduta concreta di quello che era materia di studio. Fino a allora non avevo pensato di mettere in discussione, diciamo così, la sostanza del modello. Pur espressa in modo un po’ approssimato, la sua indignazione fotografava la comunità studentesca, nel suo intero o quasi, come un recipiente cui era destinato molto poco di quello che si sarebbe dovuto sapere, e quel poco era esposto a diverse storture se non proprio stravolto. Per lui, l’aver avuto coscienza di una cosa simile, bastava e avanzava a farlo desistere dal proseguire.
Qualche settimana dopo scrissi un articolo su questi temi, un articolo asciutto, direi maturo, che tuttora rivendica a pieno titolo l’attualità dell’argomento sollevato davanti a quel caffè, senza rivelare direi nessuna giovanile sfasatura, o se anche fosse, la si percepisce molto in sordina. Ecco perché mi sorprende non poco chi mi legge adesso, quando, inciampando in qualcosa che magari non gradisce su basi ideologiche, sposta il proprio fastidio su una mia presunta attitudine a imbarcarmi, a soggiacere a aspetti un po’ troppo ruvidi per una personalità femminile, a invischiarmi nella polemica – molto poco femminile anche questo – tutte cose che, volendo essere obiettivi, si sono sempre date, fin dal primo momento in cui ho cominciato a scrivere, e non mi pare abbiano corroborato nulla di eccessivamente indigesto.
Alcuni, quando leggono qualcosa senza aver prima allentato i lacci che legano la loro sensibilità, pregiudizi che condizionano irrimediabilmente il loro rapporto con l’altro, di cui credono di conoscere il carattere, tendono a scambiare un atteggiamento critico per una morbosa assiduità nel non essere in pace con se stessi. Quando dicono “arrabbiato” intendono “poverino”, mentre la rabbia è un sentimento pure molto nobile, quando è ragionato rifiuto di cose ingiuste e superficiali che attentano a un dibattito, al confronto di posizioni differenti, estromesse per impedirne l’integrazione, e non ha perciò nulla a che spartire con il pregiudizio borghese.   
E vengo a quanto ha sorretto fin qui il mio ragionare. L’incomunicabilità. Le lacerazioni che attraversano il nostro mondo, quello in cui comprensibilmente rivendichiamo di voler stare tranquilli, un mondo che nulla potrà impedire vada nella direzione della pace, della cultura e della convivenza proficua tra esseri umani, non solo in occidente ma ovunque, le tragedie che scuotono quelle che un attimo prima pensavamo fossero per noi delle indiscutibili certezze, uscire, incontrarsi, visitare un museo, sono figlie di una incomunicabilità di fondo. Siamo divisi, violentemente contrapposti anche a casa nostra. Il divario sociale scava solchi spaventosi. Disoccupazione, sacche di esclusi, diseredati, gente per cui l’opportunità di un riscatto dovrebbe essere contemplata al pari di coloro che quell’opportunità riescono a coglierla assai precocemente nella propria vita. Non possiamo ignorare che tutto questo ci indebolisca e ci esponga. La scuola, l’università devono essere strutture formative vere, comunità condivise e frequentate dai cittadini, anche dopo che il ciclo di studi di ognuno si sia concluso. Io vedo, invece, un occidente sempre più frantumato, colmo di livore, di deliri revanscisti degli uni contro gli altri, in preda a falsi ideologismi, a atteggiamenti di sconvolgente incongruenza qualsiasi siano i problemi che ci pungolano a cercare delle soluzioni. È chiaramente una guerra, strisciante, brutale come solo una guerra può esserlo, una rappresentazione bellica in astratto, perché si annida in una mentalità, quella occidentale odierna, che non vuole riconoscersi anche nelle sue debolezze. Non ci sarebbe nulla di male, anzi, ne usciremmo rafforzati. E il terrore non troverebbe più dove ingaggiare la propria battaglia.

(Di Claudia Ciardi)

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