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2 febbraio 2019

Walter Benjamin - Strada a senso unico


«Rilievo. Si è in compagnia della donna che si ama, si conversa con lei. Poi, settimane o mesi più tardi, quando si è lontani, ci si ricorda qual era stato il tema della conversazione. E ora il motivo se ne sta lì banale, crudo, senza profondità, e ci si rende conto che solo lei, curvandovisi sopra per amore, con la sua ombra l’aveva protetto da noi, così che in tutte le pieghe e in tutti gli anfratti il pensiero palpitava come un rilievo. Se siamo soli, come ora, esso s’appiattisce esponendosi, senza ombra né conforto, alla luce della nostra conoscenza».

Walter Benjamin, Strada a senso unico (Einbahnstrasse), a cura di Giulio Schiavoni, Einaudi, 2006.

A piedi lungo le vie della città, una prosa di viaggio bizantina e labirintica, oscillante tra sogno e critica sociale. Un grido d’allarme che si esprime in forma di frammenti, dove la lingua e il pensiero appaiono volutamente destrutturati, perché il lettore abbia coscienza piena del disorientamento in cui è immerso. Poco prima che accada l’irreparabile, questa è l’ultima passeggiata che Walter Benjamin compie, ripercorrendo le latitudini del suo immaginario e i segnali che lo hanno guidato, inquieto viandante, a dorso di una strada a senso unico.

Così scrivevo in un mio pezzo del 2011. Questa raccolta di prose benjaminiane, che già al tempo della loro pubblicazione con Ernst Rowohlt nel 1928 venne felicemente ribattezzata “bazar filosofico”, ha esercitato un fascino durevole sulle espressioni della mia scrittura e i modi del suo comunicarsi. Dedito alla “kleine Form”, quell’incantevole bonsai letterario fine ottocentesco fiorito ai bordi della nascente metropoli, Benjamin ne fece uno spazio per l’incontro di suggestioni memoriali e urgenze poetiche, di cui l’Infanzia berlinese rappresenta un altro capolavoro giocato sull’intreccio dei generi e la compresenza oracolare, bifronte di un allegorico passato-presente.
La sua strada a senso unico la percorse negli anni Venti, quando l’inflazione tedesca aveva cominciato a dar segni di forte squilibrio, avvitandosi in una crisi interna senza tregua. Un viaggio tra le rovine tedesche del primo dopoguerra, dal quale l’autore risalì spossato, toccando con mano gli egoismi di una media borghesia impoverita, che si vedeva quotidianamente scivolare in un’inaccettabile arretratezza, costretta a intaccare le proprie rendite di posizione. Ma erano anche gli anni di una crisi profonda nella vita stessa dell’osservatore. Emarginato dall’università, poteva contare solo su fonti di guadagno precarie garantite dalla collaborazione con alcune riviste. Eppure, si trattava ancora della Germania weimariana, quella che gli intellettuali come Benjamin si sforzarono di difendere prima del baratro. Certo, non fu un quadro politico concorde, mai lo fu quell’esperimento in nessun anno della sua breve esistenza, brutalmente appesantito dai debiti di guerra e dal venir meno della coesione sociale. Lamentava anche questo il grande scrittore berlinese, che guardava con rassegnazione all’autoreferenzialità delle cerchie accademiche e sentiva fortemente su di sé la disillusione nei confronti dell’intellighenzia privilegiata.
Così, i Denkbilder qui raccolti, le immagini di pensiero destinate a fluire nel suo onirico labirinto dandogli forma, non si occupano di discettare sulla Hochkultur, la cultura alta, pseudo impegnata, dove le aderenze di potere finiscono per soffocare la genuinità del dibattito. Vanno piuttosto in cerca di quelle poetiche minime, di quelle effimere architetture del quotidiano in cui si accendono lampi di verità: scantinati, baracconi, fiere, giostre, bambini, robivecchi e poi oggetti o anche solo nomi capaci ancora di sprigionare un po’ di calore e bellezza. Frammenti brevissimi titolano “lampada ad arco”, “loggia”, “garofano selvatico”, “asfodelo”.
È un’opera di sopravvivenza questa Strada a senso unico, una scialuppa nella tempesta sulla fine della quale tuttavia l’autore non si fa illusioni né vuole venderne ai suoi lettori. Piuttosto metterli sullavviso circa i tranelli di una cultura dell’alto, consolidata, che finge d’impegnarsi in battaglie d’avanguardia salvo poi sfilarsi o tradire le più elementari regole della solidarietà e della morale comune. C’è tanto di questa riflessione benjaminiana anche nell’oggi e tanto di un’appropriazione indebita di uno studioso che ebbe un rapporto conflittuale, complicato con i suoi contemporanei che pochi spazi gli concessero ben prima dell’ascesa nazionalsocialista. Tant’è. Anche oggi, tra noi, c’è chi firma petizioni solidali e poi non ha il minimo ritegno a mancare di rispetto al suo prossimo e a quel suo prossimo fa sistematicamente del male, utilizzando, come ha fatto notare Borges in molte sue pagine che ci dimentichiamo di rileggere, metodi fascisti e se vogliamo dire più in generale, autoritari, vestendo panni di democraticissimo. L’odierna apologetica indirizzata al mondo antico parla di Atene come il modello di una democrazia senza macchia, aperta agli stranieri, forte in mare e in terra, non violenta. Eppure per divenire la potenza che fu Atene praticò lo schiavismo, non si fece scrupolo di perpetrare eccidi ai danni dei coloni ribelli, commise errori strategici clamorosi, cadde nella tirannide e nell’oligarchia, e infine venne sconfitta da Sparta. La democrazia non è uno strumento neutrale, non è una forma priva di sentimento o d’interpretazione politica. Si partecipa alla democrazia e la misura della sua solidità sta proprio nell’ampiezza della partecipazione e nei modi in cui gli atteggiamenti e i bisogni di chi vi prende parte si traducono all’interno degli apparati governativi. Non possono delle fazioni, in maniera apodittica, rivendicare la democrazia per sé e non lo possono neppure i cosiddetti detentori della cultura. Quando tra l’altro questi stessi intellettuali hanno disponibili molteplici canali per esprimersi, non possono dire d’essere perseguitati né parlare di democrazia sotto scacco. Faccio notare che gli antifascisti del ’20 e del ’30 furono confinati e poi andarono per la maggior parte esuli. Attraversarono ogni genere di difficoltà, vissero nella paura e tra non poche privazioni. Non si scherzi con la memoria di queste cose, non si confonda l’impegno civico di queste persone con chi ora fa salotto e si appropria della storia in modo strumentale.
Anche oggi la battaglia per il potere macina vite, aspettative, mostra un volto efferato danzando sulle macerie di ideologie che già tanto danno hanno recato nel recente passato. Ma ancora ci si barrica dietro e dentro quelle ideologie visto che in gioco c’è una futuribile prospettiva di potere la quale, se venisse a mancare del tutto, rischierebbe seriamente di generare altri equilibri. E allora, anziché sviluppare un dibattito serio e anziché scontrarsi su terreni scelti e ad armi pari, si tira di sponda o ci si sottrae, perché è più comodo così, altrimenti bisognerebbe argomentare le proprie posizioni col pericolo di dover giustificare un privilegio che non ha più ragione d’essere in quanto ha perso le sue longeve basi di consenso.
Perché dunque tanto accanimento? Potere, potere, potere. Quando i rapporti di forza cambiano, chi prima godeva di favori si assottiglia fino a dissolvere. Ma fa di tutto per continuare a mostrarsi ben saldo. Potere, potere, potere. Ecco perché, dunque, tanto accanimento. 

(Di Claudia Ciardi)



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Berliner Spreepark

30 aprile 2016

Metropole Berlin (I)





Circumnavigando l’uscita secondaria della stazione di Schöneberg, ingentilita dai tavolini all’aperto del ristorante italiano che invadono prontamente il piccolo slargo nelle giornate di sole, si risale per una stradina all’apparenza tranquilla dove un calzolaio, sempre in pieno sole, lavora su un panchetto tra la soglia del suo negozio e il marciapiede. E se si alza lo sguardo capita di vedere un paio di piedi spuntare da un davanzale, forse qualcuno che si gode la siesta ai primi caldi. Io mi immagino già un lettore incallito o un musicista con qualche tic. Sotto un palo della luce una piantina, imbracata con mezzi di fortuna, veglia i passanti. Sul vaso si legge, non senza sforzo, l’invito a dedicarle qualche cura. E come si fa, là sopra? Opera di un briccone, il tipo del davanzale? Ormai lo penso come un paio di piedi che trafficando in completa autonomia hanno provveduto a tutto. Non ci sarebbe da stupirsi.
Un altro slargo con panchine, e la musica cambia. Addio, caro artigiano, apparizione fuori tempo di una via laterale, addio alla tua testa china di radi capelli rossicci che ti incoronano morbidamente la nuca. Addio a quel silenzioso compare, che con l’altera devozione di un rabbino, in piedi davanti a te, non stacca lo sguardo dalle tue mani. Ora è tutto un corteo di vecchi, faccia scavata e fronte bassa, che scrutano astiosi chi gli sfila di fronte e con avida curiosità le minigonne delle ragazze. Qualcuno si lascia scappare un grugnito, più per quel che vorrebbe avvistare e che con altrettanta inesorabile pervicacia gli si sottrae. Le belle passanti navigano veloci, troppo veloci perché le loro voglie tarde riescano a andare a segno. È gente povera del quartiere e raramente sembra aver visto cose diverse da questo incrocio di strade. Se ne rimangono lì per ore, simili a statue di sale, si tollerano poco perfino tra loro, infastiditi dalla reciproca esibizione delle proprie miserie. C’è una chiara impudenza che accompagna il loro vivere quotidiano e li accomuna, ma ognuno vorrebbe esserne il detentore indiscusso. Ognuno al centro di un suo regno, tiranno e schiavo del proprio temperamento bilioso, allora sì riuscirebbe a compiacersi di ciò che è, non visto, non esautorato, per dire, dagli altri. Così in mezzo all’asfalto, invece, il singolo appare interamente condannato. 
Intorno guizzano senza posa i bottegai turchi. Alcuni salmodiando sul marciapiede il nome delle loro mercanzie, altri agitandosi furtivi dietro i banconi, ombre taciturne e quasi inavvicinabili. Superate le botteghe-bazar, sulla prima grande arteria a scorrimento veloce, s’incontra la Hauptstraße, altra affollata patria mediorientale. Una vecchia, con un turbante scolorito in testa, trascina un carrello pieno di lattine. Cerca qualcuno che le paghi il giusto per quella paccottiglia e nel frattempo impreca in un tono sordo che scade nel lugubre. Dice qualcosa riguardo suo figlio, a quanto pare non se la passa niente bene, e spera così di procurarsi più in fretta un acquirente. L’alternanza tra cantilena pietosa e bestemmie è un contrasto troppo singolare per non restarne scossi. Man mano che la donna viene avanti, l’oscillare pauroso del turbante sembra un monito a farsi da parte. Un occhio saettante ripiegato tra i lembi consunti della stoffa, un’animazione pronta a scatenare la tempesta attorno a sé, fendere i marosi, incenerire gli importuni, e far queste e altre cose diaboliche in appena uno schioccare di dita. Quel suo dio ritorto e sonnacchioso come un serpente ne incardina i movimenti, dandole una specie di autorevolezza e gettando su di lei l’inquieto incanto dei derelitti. 
Dietro un banco di frutta un uomo non giovane né vecchio con la barba lunga e un giacchettaccio nero da asceta della metropoli ripete in continuazione “Respekt”. Non si capisce con chi ce l’abbia. Intorno non c’è nessuno, e il banco incagliato sulla via somiglia a un altare miracolosamente scampato alla furia che ha distrutto il suo tempio. Capita di vedere qui ogni genere di commercio, e più che in altri quartieri si assiste a una colorita dimostrazione dell’arte di arrangiarsi. Che per l’appunto è l’arte di maggior successo tra quante si coltivano nelle grandi città. Una volta, a Torino, credo di aver assistito a una delle sue espressioni più bizzarre. Ero in stazione da diverse ore, in attesa di una coincidenza che tardava. Non potendone più di fare la spola tra la caffetteria e la sala d’aspetto, mi accoccolai sulle poltroncine all’aperto nello spazio centrale. Ci misi un po’ a realizzare che intorno a me fioriva uno smercio in grande stile di giornali abbandonati dai viaggiatori. Sulle prime non capii il motivo dei balzi improvvisi di chi mi sedeva intorno. A ogni nuovo arrivo, qualcuno scattava a salutare il capotreno e lestamente prelevava la mercanzia dalle carrozze. Ogni tanto si avvicinava anche qualche pendolare «Come te la passi? Ce l’hai il Corriere di oggi?» ma venivano anche perfetti sconosciuti che subito entravano in confidenza con gli edicolanti improvvisati. Mi sfilò sotto il naso tanta di quella stranezza che ancora non saprei spiegarla. A un certo punto un giovane disteso dietro di me che faceva la guardia ai giornali, si sollevò sui gomiti, e rivolto a un suo chiamiamolo compagno d’avventura: «Tutto è possibile, se quello lassù mi libera dalla pigrizia». Giuro che non ci ho capito nulla. Quando li lasciai seguitavano a impilare i quotidiani che da ogni dove affluivano in stazione. Un rumore continuo di carta strofinata, passata di mano in mano, che a ogni ora serrava le fila. Poi, diciamo così, un cliente, poi una corsa al binario e il capotreno che qualche volta veniva fin lì a dare un’occhiata. Scambio di convenevoli, caffè offerti da una parte e dall’altra. Io che fingevo di leggere ma non mi perdevo neppure una sillaba, né mi facevo scappare il benché minimo gesto. E intanto da quell’andare cadenzato scaturiva una forma di ipnotismo, la più ignobile, perché fondata su un abuso d’incomprensione.  
Nulla di paragonabile però alle stranezze del meticciato berlinese, umanità varia e sfuggente, avvezza a molte e incomprensibili cose e di cui non esiste alcun prototipo – com’è fatto un berlinese, chi ormai può essere considerato, sotto un profilo fisico, l’emblema del prussiano di città? Scrutate le facce della gente in strada e la risposta vi morirà in bocca. [...]

(Di Claudia Ciardi - prima parte)

5 febbraio 2013

Franz Hessel-Marlene Dietrich

Cartoline dalla metropoli-Postkarten aus der Metropole



Una deliziosa biografia tascabile inaugura con raffinato gusto la nuova collana “Lampi” di Elliot edizioni, brevi ritratti di epoche e personaggi scaturiti dall’osservazione di interpreti illustri.
Qui è Franz Hessel, colto miniaturista degli umori berlinesi, a raccogliere la voce di una sensuale Marlene Dietrich, astro del cinema americano e mondiale. Sullo sfondo, o per meglio dire, sulla scena, la metropoli, il cui carattere pieno di contrasti e sfumate nostalgie sembra affiorare in ogni gesto dell’attrice, contribuendo alla foggia assolutamente particolare della sua femminilità.

«È cresciuta dove poi sarebbero sorti i quartieri berlinesi occidentali di Wilmersdorf e Westend. Figlia di un ufficiale, si è presto abituata ai trasferimenti legati ai cambiamenti di guarnigione, ma è sempre stata di casa nella città dai sobri e chiari colori del giorno e dai lunghi tramonti, dalle delicate albe invernali e dalle lunghe sere estive, indimenticabili per chiunque sia stato bambino a Berlino».

Il divismo di Marlene è cosa affatto incline e devota alla dimensione spettacolare, il suo successo va rintracciato piuttosto in un fascino erotico e in una carica seducente da cui nasce un’irresistibile empatia verso tutto il suo pubblico, in grado di conquistare indistintamente uomini e donne.
Il rientro dell’artista nella sua città, durante una breve pausa lavorativa, diviene l’occasione di un incontro nel 1931 con Hessel, giornalista e scrittore-flâneur, maestro della kleine Form, la prosa breve elaborata in tedesco sul modello francese del feuilleton, già alla base di esperimenti narrativi nell’Ottocento, come le ‘lettere berlinesi’ di Heine. Il genere raggiunge una piena maturità letteraria, parallelamente a una considerevole fortuna di pubblico, intorno agli anni Venti del Novecento, ed Hessel, cui si affiancano i nomi di Siegfried Kracauer e Joseph Roth, ne è uno dei più abili artigiani. Si tratta, del resto, di un’attitudine alla collezione di ascendenza ellenistico-bizantina (si pensi alle raccolte di glosse e ai lessici come la Suida) che viene a saldarsi su un vero e proprio culto della frammentarietà nel quale il tessuto testuale-archivistico è contaminato da elementi non-testuali, i media e la merce, ad esempio, ossia tutti quei ‘segnacoli’ prodotti dal labirinto della metropoli che non solo alimentano una nuova frontiera di scrittura ma divengono essi stessi soggetti narranti, inserendosi come parte in causa nel dibattito sulla Kulturwissenschaft e orientandolo a sé; basti considerare, al riguardo, le teorizzazioni di Warburg e Benjamin.

Le volte che mi sono ritrovata a camminare per Schöneberg, dall’assiepamento quasi da bazar di negozi e mercati al vecchio gasometro, dalla vegliante malinconia del ‘miglio di Berlino’ a certe stradine laterali che in un improvviso trapasso dal cemento al verde si ridestano ai bordi della ferrovia, ammiccando come in sogno, non mi è mai sfuggita la natura liricamente intima e dimessa di questo quartiere. In ciò che questa zona di Berlino ancora sa offrire al passante, per quanto la scena sia di sicuro diversa da quella vissuta nell’infanzia di Marlene, si coglie tuttavia una carica emotiva del tutto singolare, capace di procurare facilmente l’accesso a una dimensione onirica, che senz’altro circondò l’attrice da bambina.
Alessandra Campo, attenta curatrice del volumetto, regala al lettore italiano la possibilità di avvicinare due grandi personaggi che, pur giocando ruoli diversi ma tra loro complementari, hanno interpretato un momento irripetibile sulla ribalta della nascente metropoli.
(di Claudia Ciardi)

Titolo: Marlene Dietrich. Un ritratto
Autore: Franz Hessel
Curatrice: Alessandra Campo
Casa editrice: Elliot
Collana: Lampi
Anno di pubblicazione: novembre 2012

Titolo originale/ original title: Marlene Dietrich: Ein Porträt
Franz Hessel, 1931, per l’editore Kindt & Bücher

Su Franz Hessel e la flânerie si veda l’articolo di Claudia Ciardi, Fantasticherie berlinesi, pubblicato da La Biblioteca di Israele, a cura di Giusi Meister




Marlene Dietrich/ a biography:

Marlene Dietrich, original name Marie Magdalene Dietrich, also called Marie Magdalene von Losch   (born Dec. 27, 1901, Schöneberg (now in Berlin), Ger.—died May 6, 1992, Paris, France), German American motion-picture actress whose beauty, voice, aura of sophistication, and languid sensuality made her one of the world’s most glamorous film stars.

Dietrich’s father, Ludwig Dietrich, a Royal Prussian police officer, died when she was very young, and her mother remarried a cavalry officer, Edouard von Losch. Marlene, who as a girl adopted the compressed form of her first and middle names, studied at a private school and had learned both English and French by age 12. As a teenager she studied to be a concert violinist, but her initiation into the nightlife of Weimar Berlin—with its cabarets and notorious demimonde—made the life of a classical musician unappealing to her. She pretended to have injured her wrist and was forced to seek other jobs acting and modeling to help make ends meet.

In 1921 Dietrich enrolled in Max Reinhardt’s Deutsche Theaterschule, and she eventually joined Reinhardt’s theatre company. In 1923 she attracted the attention of Rudolf Sieber, a casting director at UFA film studios, who began casting her in small film roles. She and Sieber married the following year, and, after the birth of their daughter, Maria, Dietrich returned to work on the stage and in films. Although they did not divorce for decades, the couple separated in 1929.

That same year, director Josef von Sternberg first laid eyes on Dietrich and cast her as Lola-Lola, the sultry and world-weary female lead in Der blaue Engel (1930; The Blue Angel), Germany’s first talking film. The film’s success catapulted Dietrich to stardom. Von Sternberg took her to the United States and signed her with Paramount Pictures. With von Sternberg’s help, Dietrich began to develop her legend by cultivating a femme fatale film persona in several von Sternberg vehicles that followed — Morocco (1930), Dishonored (1931), Shanghai Express (1932), Blonde Venus (1932), The Scarlet Empress (1934), and The Devil Is a Woman (1935). She showed a lighter side in Desire (1936), directed by Frank Borzage, and Destry Rides Again (1939).
*****
During the Third Reich and despite Adolf Hitler’s personal requests, Dietrich refused to work in Germany, and her films were temporarily banned there. Renouncing Nazism (“Hitler is an idiot,” she stated in one wartime interview), Dietrich was branded a traitor in Germany; she was spat upon by Nazi supporters carrying banners that read “Go home Marlene” during her visit to Berlin in 1960. (In 2001, on the 100th anniversary of her birth, the city issued a formal apology for the incident.) Having become a U.S. citizen in 1937, she made more than 500 personal appearances before Allied troops from 1943 to 1946. She later said, “America took me into her bosom when I no longer had a native country worthy of the name, but in my heart I am German—German in my soul.”

After the war, Dietrich continued to make successful films, such as A Foreign Affair (1948), The Monte Carlo Story (1956), Witness for the Prosecution (1957), Touch of Evil (1958), and Judgment at Nuremberg (1961). She was also a popular nightclub performer and gave her last stage performance in 1974. After a period of retirement from the screen, she appeared in the film Just a Gigolo (1978). The documentary film Marlene, a review of her life and career, which included a voice-over interview of the star by Maximilian Schell, was released in 1986. Her autobiography, Ich bin, Gott sei Dank, Berlinerin (“I Am, Thank God, a Berliner”; Eng. trans. Marlene), was published in 1987. Eight years after her death, a collection of her film costumes, recordings, written documents, photographs, and other personal items was put on permanent display in the Berlin Film Museum (2000).

Dietrich’s persona was carefully crafted, and her films (with few exceptions) were skillfully executed. Although her vocal range was not great, her memorable renditions of songs such as “Falling in Love Again”, “Lili Marleen”, “La Vie en rose” and “Give Me the Man” made them classics of an era. Her many affairs with both men and women were open secrets, but rather than destroying her career they seemed to enhance it. Her adoption of trousers and other mannish clothes made her a trendsetter and helped launch an American fashion style that persisted into the 21st century. In the words of the critic Kenneth Tynan: “She has sex, but no particular gender. She has the bearing of a man; the characters she plays love power and wear trousers. Her masculinity appeals to women and her sexuality to men.” But her personal magnetism went far beyond her masterful androgynous image and her glamour; another of her admirers, the writer Ernest Hemingway, said, “If she had nothing more than her voice, she could break your heart with it.”


Franz Hessel/ notice:
One of the interesting characters from early 20th-Century Schwabing was Franz Hessel, a flaneur and friend of Walter Benjamin's whom Anke Gleber has characterized as 'one of the last representatives of the metropolitan, intellectual bohemian characteristic of the European culture of early modernity.' In his book Weimar Germany: promise and tragedy, Eric D. Weitz quotes extensively from Hessel's writings (and Joseph Roth's) in order to convey a sense of Berlin's street life during the Weimar Republic.

Born in Stettin, Hessel arrived in Munich in 1900 as a law student. He soon changed plans in order to focus on archaeology and philosophy. He also became a poet, a vocation that brought him into contact with Karl Wolfskehl and the members of his circle. (I wonder if he bumped into Frederick Grove.) In this part of Hessel's life, his bohemian credentials were well and truly established by his complicated relationship with Franziska Gräfin zu Reventlow, which began in 1903 when he entered a ménage à trois with her and Bogdan von Suchocki. (Here's a photo of the house in which Reventlow and Suchocki lived at the time; it's in Kaulbachstraße in Munich, and here's a photo in which you can see Hessel with Reventlow's son.) Suchocki seems to have been replaced in this arrangement in 1907 by Henri-Pierre Roché, by which time Hessel had moved to Paris.

Roché and Hessel would later maintain a similar relationship with the German journalist, Helen Grund, whom Hessel married in 1913. This ménage became famous as the centrepiece of Roché's novel, Jules et Jim, which was the basis of Francois Truffaut's film of the same name. The character of Jules was based on Hessel. Roché was the basis of Jim, and Catherine ('Kathe' in the novel) was based on Grund.

Hessel wrote his own novel about this relationship, but it doesn't seem to be available in English. In German it's called Alter Mann, while in French it's Le Dernier Voyage. Hessel wrote it in the 1930's, but it was thought to have been lost until it was recovered in 1984.

It looks like Hessel's most important relationships with women were in the context of a ménage à trois. In this setting, Jean-Michel Palmier writes that Hessel 'becomes [women's] confidant, he loves them and admires them at a distance, preferring the role of friend to that of lover.' (Here's the original, French version of Palmier's essay.) Of his relationship with Roché and Grund, Hessel himself (in Alter Mann) said that it 'expanded the habitual scope of friendship and love.'

Franz Hessel volunteered to fight for Germany in WWI. After the war, he worked in Germany for Rowohlt Verlag. It appears that he and his family fled for France relatively late (1938). In 1940, Hessel suffered a stroke while in a detention camp in France. I believe that he was held in that camp (Camp des Milles) before the Germans had control of it, at a time when the French were using it as an internment camp for any Germans and Austrians who happened to be in France. After his release from the camp, Hessel died in January, 1941.

His and Helen's son, Stéphane, fought for the French resistance and became an accomplished diplomat. Here are brief bios of father and son.
Source:
http://praymont.blogspot.it/2011/10/one-of-interesting-characters-from.html


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