30 aprile 2016

Metropole Berlin (I)





Circumnavigando l’uscita secondaria della stazione di Schöneberg, ingentilita dai tavolini all’aperto del ristorante italiano che invadono prontamente il piccolo slargo nelle giornate di sole, si risale per una stradina all’apparenza tranquilla dove un calzolaio, sempre in pieno sole, lavora su un panchetto tra la soglia del suo negozio e il marciapiede. E se si alza lo sguardo capita di vedere un paio di piedi spuntare da un davanzale, forse qualcuno che si gode la siesta ai primi caldi. Io mi immagino già un lettore incallito o un musicista con qualche tic. Sotto un palo della luce una piantina, imbracata con mezzi di fortuna, veglia i passanti. Sul vaso si legge, non senza sforzo, l’invito a dedicarle qualche cura. E come si fa, là sopra? Opera di un briccone, il tipo del davanzale? Ormai lo penso come un paio di piedi che trafficando in completa autonomia hanno provveduto a tutto. Non ci sarebbe da stupirsi.
Un altro slargo con panchine, e la musica cambia. Addio, caro artigiano, apparizione fuori tempo di una via laterale, addio alla tua testa china di radi capelli rossicci che ti incoronano morbidamente la nuca. Addio a quel silenzioso compare, che con l’altera devozione di un rabbino, in piedi davanti a te, non stacca lo sguardo dalle tue mani. Ora è tutto un corteo di vecchi, faccia scavata e fronte bassa, che scrutano astiosi chi gli sfila di fronte e con avida curiosità le minigonne delle ragazze. Qualcuno si lascia scappare un grugnito, più per quel che vorrebbe avvistare e che con altrettanta inesorabile pervicacia gli si sottrae. Le belle passanti navigano veloci, troppo veloci perché le loro voglie tarde riescano a andare a segno. È gente povera del quartiere e raramente sembra aver visto cose diverse da questo incrocio di strade. Se ne rimangono lì per ore, simili a statue di sale, si tollerano poco perfino tra loro, infastiditi dalla reciproca esibizione delle proprie miserie. C’è una chiara impudenza che accompagna il loro vivere quotidiano e li accomuna, ma ognuno vorrebbe esserne il detentore indiscusso. Ognuno al centro di un suo regno, tiranno e schiavo del proprio temperamento bilioso, allora sì riuscirebbe a compiacersi di ciò che è, non visto, non esautorato, per dire, dagli altri. Così in mezzo all’asfalto, invece, il singolo appare interamente condannato. 
Intorno guizzano senza posa i bottegai turchi. Alcuni salmodiando sul marciapiede il nome delle loro mercanzie, altri agitandosi furtivi dietro i banconi, ombre taciturne e quasi inavvicinabili. Superate le botteghe-bazar, sulla prima grande arteria a scorrimento veloce, s’incontra la Hauptstraße, altra affollata patria mediorientale. Una vecchia, con un turbante scolorito in testa, trascina un carrello pieno di lattine. Cerca qualcuno che le paghi il giusto per quella paccottiglia e nel frattempo impreca in un tono sordo che scade nel lugubre. Dice qualcosa riguardo suo figlio, a quanto pare non se la passa niente bene, e spera così di procurarsi più in fretta un acquirente. L’alternanza tra cantilena pietosa e bestemmie è un contrasto troppo singolare per non restarne scossi. Man mano che la donna viene avanti, l’oscillare pauroso del turbante sembra un monito a farsi da parte. Un occhio saettante ripiegato tra i lembi consunti della stoffa, un’animazione pronta a scatenare la tempesta attorno a sé, fendere i marosi, incenerire gli importuni, e far queste e altre cose diaboliche in appena uno schioccare di dita. Quel suo dio ritorto e sonnacchioso come un serpente ne incardina i movimenti, dandole una specie di autorevolezza e gettando su di lei l’inquieto incanto dei derelitti. 
Dietro un banco di frutta un uomo non giovane né vecchio con la barba lunga e un giacchettaccio nero da asceta della metropoli ripete in continuazione “Respekt”. Non si capisce con chi ce l’abbia. Intorno non c’è nessuno, e il banco incagliato sulla via somiglia a un altare miracolosamente scampato alla furia che ha distrutto il suo tempio. Capita di vedere qui ogni genere di commercio, e più che in altri quartieri si assiste a una colorita dimostrazione dell’arte di arrangiarsi. Che per l’appunto è l’arte di maggior successo tra quante si coltivano nelle grandi città. Una volta, a Torino, credo di aver assistito a una delle sue espressioni più bizzarre. Ero in stazione da diverse ore, in attesa di una coincidenza che tardava. Non potendone più di fare la spola tra la caffetteria e la sala d’aspetto, mi accoccolai sulle poltroncine all’aperto nello spazio centrale. Ci misi un po’ a realizzare che intorno a me fioriva uno smercio in grande stile di giornali abbandonati dai viaggiatori. Sulle prime non capii il motivo dei balzi improvvisi di chi mi sedeva intorno. A ogni nuovo arrivo, qualcuno scattava a salutare il capotreno e lestamente prelevava la mercanzia dalle carrozze. Ogni tanto si avvicinava anche qualche pendolare «Come te la passi? Ce l’hai il Corriere di oggi?» ma venivano anche perfetti sconosciuti che subito entravano in confidenza con gli edicolanti improvvisati. Mi sfilò sotto il naso tanta di quella stranezza che ancora non saprei spiegarla. A un certo punto un giovane disteso dietro di me che faceva la guardia ai giornali, si sollevò sui gomiti, e rivolto a un suo chiamiamolo compagno d’avventura: «Tutto è possibile, se quello lassù mi libera dalla pigrizia». Giuro che non ci ho capito nulla. Quando li lasciai seguitavano a impilare i quotidiani che da ogni dove affluivano in stazione. Un rumore continuo di carta strofinata, passata di mano in mano, che a ogni ora serrava le fila. Poi, diciamo così, un cliente, poi una corsa al binario e il capotreno che qualche volta veniva fin lì a dare un’occhiata. Scambio di convenevoli, caffè offerti da una parte e dall’altra. Io che fingevo di leggere ma non mi perdevo neppure una sillaba, né mi facevo scappare il benché minimo gesto. E intanto da quell’andare cadenzato scaturiva una forma di ipnotismo, la più ignobile, perché fondata su un abuso d’incomprensione.  
Nulla di paragonabile però alle stranezze del meticciato berlinese, umanità varia e sfuggente, avvezza a molte e incomprensibili cose e di cui non esiste alcun prototipo – com’è fatto un berlinese, chi ormai può essere considerato, sotto un profilo fisico, l’emblema del prussiano di città? Scrutate le facce della gente in strada e la risposta vi morirà in bocca. [...]

(Di Claudia Ciardi - prima parte)

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