L’unica certezza con cui ci avviciniamo al referendum del 17 aprile è la scarsissima informazione aggravata e rilanciata dalla dissuasione al voto. Quest’ultimo aspetto è il più amaro, dal momento che l’astensionismo ha segnato in negativo le ultime tornate elettorali, e semmai dovrebbe allarmare l’intera classe politica. Il calo dell’affluenza tradisce un salto genetico della democrazia, purtroppo cavalcato dalle forze della maggioranza. Oggi l’elettorato si configura sempre più come qualcosa di scomodo. Lo si riduce a strumento destabilizzante e con ciò si disconosce pericolosamente l’innesto di rappresentanza nelle istituzioni di cui è l’unico legittimo portatore, il che costituisce per l’appunto la base dei nostri ordinamenti. Grazie all’inchiesta sulle attività estrattive in Basilicata, i riflettori sono tornati ad accendersi. E tuttavia il principio non mi soddisfa: senza indagati, senza la testa di un ministro, che sono di per sé fatti eclatanti, destinati ad avere una grande risonanza, quali elementi avrebbe avuto il cittadino per interrogarsi sul merito della questione energetica? Ben pochi.
La solita vulgata dell’ambientalista nemico del progresso sarebbe entrata in circolo più indisturbata di quanto non sia accaduto nelle ultime settimane. Resta il fatto che solo le inchieste avviate sui centri di Viggiano e Tempa Rossa, hanno determinato un’informazione di rimbalzo attorno a un tema che non è per nulla contingente, ma implica il nostro modo di impostare le politiche energetiche nell’immediato futuro; anche questo di per sé è dolo e dovrebbe far riflettere.
Di sicuro la transizione alle rinnovabili non può avvenire con uno strappo immediato rispetto alle fonti di energia, per così dire, tradizionali. Sarebbe irragionevole pensarlo. Però, occorre fare un paio di precisazioni, affatto accessorie. La prima è che tutto quello che risulti essere lesivo per il territorio e la salute pubblica, sia oggetto di indagini serrate, e qualora il danno sia inequivocabilmente provato, si proceda a immediata sospensione e condanna di ciò che lo determina. La seconda, ancor più importante della prima perché la giustizia ha sì carattere riparatorio ma non potrà sanare le cose alla radice, è scegliere ciò che vogliamo per il nostro futuro. Votare è in tal senso l’unica garanzia.
Pronunciarsi con chiarezza affinché la strada sia quella dettata da un approvvigionamento che contempli il più basso impatto ambientale, questo siamo tenuti a farlo. E bisogna farlo adesso. La politica è l’unico strumento di cui disponiamo per influire sul corso della storia, per dare alle nostre vite quel carattere di impegno solidale e collettivo a cui ogni generazione è chiamata. La tutela del nostro ambiente e delle risorse che possiede ne è un tratto essenziale. Basta riprendere in mano la Costituzione italiana. L’articolo 9 pone al centro il nostro patrimonio culturale e paesaggistico, essendo due aspetti inalienabili su cui si basa l’identità dei suoi abitanti: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione».
L’Italia possiede risorse idriche strategiche. Nostro compito è tutelarle e porle al riparo da qualsiasi opera minacci di comprometterle. L’acqua si avvia a essere nel medio termine più importante del petrolio, specie in un paese come il nostro di estensione geografica limitata e dove la produttività agricola è una voce di grande peso nell’economia interna e a livello di esportazione. Il clima ci benedice, sperperare questa fortuna è follia. Invito a rileggere lo studio del geologo Franco Ortolani sulla Vallo del Diano, nel Cilento, luogo che dal 1997 suscita gli appetiti delle compagnie petrolifere straniere. I rischi strutturali legati alla conformazione del territorio ne metterebbero in discussione la sopravvivenza, qualora si trivellasse e nel contempo occorresse un evento sismico o la ancor più probabile rotazione del suolo, caratteristica di quelle zone, come di molte altre in Italia. Qui il collegamento: Caso petrolio-Vallo di Diano.
Da noi, reperire risorse nel sottosuolo terrestre o marino, è l’equivalente di cercare a tentoni un oggetto in una cristalleria lasciata al buio. La probabilità di urtare qualcosa e danneggiarlo senza rimedio è elevatissima. La differenza è che ciò che distruggiamo dove viviamo, non costituisce solo deturpamento estetico, ma significa la perdita di quanto ci permette di sopravvivere. Tutelarci è un invito al buon senso.
Ne parliamo con Riccardo Bottazzo, direttore della rivista «EcoMagazine», osservatorio sui conflitti ambientali, impegnato in tema di informazione, conservazione e monitoraggio. Invito alla lettura di questa testata chiunque non la conosca e voglia tenersi aggiornato sugli argomenti toccati nella nostra discussione.
Tra disinformazione e inviti a disertare le urne, ci avviamo a un appuntamento elettorale molto importante. In ballo la tutela del nostro mare e del nostro territorio, oltre alla possibilità di pronunciarci sul modo di impostare e gestire la politica energetica nel paese. Quale appello rivolgete ai cittadini perché vadano a votare?
Ai cittadini chiediamo di rimettere in gioco lo stesso entusiasmo e lo stesso slancio che hanno evitato al Paese di cadere nella trappola del nucleare e ci hanno permesso di contrastare la privatizzazione dell’acqua. Oramai, più che il voto, sono i referendum che aprono spazi alla democrazia partecipativa, svilita da una rappresentanza parlamentare che, per lo più, non rappresenta più nulla. La portata del quesito referendario va ben al di là del quesito stesso, proprio come è avvenuto in tutti i casi precedenti. Non si tratta però di un Sì o un No al Governo Renzi, come qualche politico malaccorto sta cercando di sostenere, ma non è neppure un referendum sul mantenimento delle piattaforme dopo le scadenze, pur importante al fine di difendere il nostro mare. Chi sbarrerà la casella del Sì chiederà al Governo di cambiare la sua attuale, e perdente, politica energetica per intraprendere la strada delle alternative ai combustibili fossili. Come, d’altra parte, lo stesso Governo si è impegnato - ma solo a parole sino ad ora - sottoscrivendo l’accordo di Cop21.
Un filone della recente inchiesta sugli impianti in Basilicata riguarda il traffico illecito di rifiuti. L’impatto ambientale delle attività estrattive è di per sé affatto trascurabile, anche quando siano osservate tutte le normative vigenti in materia. Se a tale pratica si aggiunge il dolo, le conseguenze su ambiente e persone rischiano di essere pressoché irreparabili. Alla giustizia non resta che intervenire coi suoi mezzi, che nel caso italiano significano tempistiche altrettanto dolosamente lunghe, e ciò non rassicura certo la popolazione. Fintanto che non sia garantita un’efficace vigilanza su illeciti e abusi di potere, cose che l’idea di profitto purtroppo favorisce, è forse legittimo chiedere la sospensione di queste attività. Qual è la vostra idea?
C’è lo spazio per la Giustizia e c’è quello per la politica. Nel nostro Paese, spesso tendiamo a confondere i due ambiti di intervento. La magistratura ha i suoi tempi. Io sono di Venezia e mi sono occupato del caso Mose. Ci sono voluti vent’anni e più, perché i magistrati scoperchiassero quella pentole di malaffare, tangenti e devastazioni che gli ambientalisti denunciavano sin dall’inizio! Ma ancora oggi il Mose va avanti, pur se oramai è chiaro a tutti che è solo una macchina mangiasoldi inutile, anzi devastante, ai fini di difendere gli equilibri della lagune e capace solo di dirottare denaro pubblico nella mani di faccendieri privati, non di rado in odor di mafia. Il problema sta nel fatto che la magistratura può mandare in galera qualche corrotto, ma spetta alla politica decidere se proseguire o no con l’opera, e, in generale, come intervenire per tutelare l’ambiente. Magari seguendo i consigli di quella strana cosa. da tutti dimenticata in Italia, che si chiama “scienza”.
Le estrazioni petrolifere rischiano di ripetere questa storia. Che poi è la storia di tutte le grandi opere. Sospendere l’attività estrattiva in attesa di sentenze certe della magistratura, e ripensarla sotto un’ottica diversa e più ambientalista, che non sia quella di favorire i grandi interessi finanziari o quelli familiari di chi è al potere, sarebbe non solo legittimo ma anche intelligente e democratico.
Gli interessi di Total e Shell verso il nostro paese non sono nuovi. Dal ’97 a oggi gli abitanti della Vallo di Diano, riuniti in un comitato di difesa delle risorse idriche del territorio, sono stati impegnati in un duro testa a testa a colpi di perizie e cause in tribunale. Spesso si accusano questi movimenti di essere organizzazioni animate da pressappochismo e arretratezza, mentre leggendo le carte relative ai rischi corsi dai luoghi interessati dalle perforazioni, si ha lo spaccato di un paese che punta i piedi perché i rischi oggettivamente corsi non valgono il guadagno. L’Italia è un paese a forte sismicità e dove i problemi legati al dissesto idrogeologico si manifestano con particolare frequenza. I cittadini sono chiamati, credo, a opporsi fortemente a impiantare qualsiasi attività non consideri questi due aspetti, che determinerebbero una catastrofe di ampie proporzioni e la morte dei territori coinvolti. Non se ne parla mai abbastanza: i tratti geologici del nostro ambiente richiedono un occhio di riguardo. Cosa vi sentite di dire al riguardo?
In Italia oramai sta diventando vietato fare la cosa giusta. I processi ai No Tav, la militarizzazioni di cantieri devastanti per il territorio ma considerati alla stregua di “siti di interesse nazionale”, neanche fossero caserme, i linciaggi mediatici anche alle semplici opinioni come nel caso dello scrittore Erri De Luca, lo dimostrano. Chi difende il suo territorio da una politica economica oramai agli sgoccioli, costretta per tirare avanti a mercificare ambiente, beni comuni e diritti, rischia la galera per “terrorismo”. E come succede agli ambientalisti, anche gli esperti che sottolineano, dati alla mano, i rischi per l’ambiente vengono messi alla berlina con infondate accuse di arretratezza e di non capire le esigenze di uno “sviluppo” che, come ci suggerisce Serge Latouche, va sempre scritto tra virgolette!
Per venire alla tua domanda, “cosa vi sentite di dire al riguardo”, agli ambientalisti e a chi ha a cuore il nostro paese, risponderei con il testo della canzone No Surreder di Bruce Springsteen. Non arrendetevi. Se l’umanità avrà un futuro, sarà quello che noi sapremo costruire. E sarà un futuro che mette al primo posto la difesa dell’ambiente e la tutela dei beni comuni. Il futuro scritto sui conti panamensi della grande finanza sta dalla parte sbagliata della storia.
L’estensione della nostra penisola non le permette di sopportare attività così invasive quali trivellazioni a 4000-5000 metri di profondità per estrarre gas e idrocarburi. Conformazione, orogenesi, limitatezza di spazi disponibili non possono essere ignorate. Ci affacciamo inoltre su un mare con un ricambio delle acque imparagonabile rispetto a quello che interessa gli oceani. Volendo fare un raffronto, anche in virtù di un territorio assai più vasto del nostro, gli Stati Uniti possono gestire una politica energetica diversa in materia di energia, sebbene io credo che il graduale abbandono del petrolio sia una tappa a cui nessuno nel breve riuscirà a sottrarsi.
Le carte da giocare per il nostro sviluppo sono dunque nel monitoraggio e nella valorizzazione delle risorse agricole e paesaggistiche. Voglio dire, il clima ci benedice da secoli. Perché scambiare un inquinamento certo, per una vocazione aiutata dalla natura del nostro ambiente?
Non c’è un perché. Non ci sono risposte a questa tua domanda. Il capitale ha solo una regola: quella di massimizzare il profitto. Questa sola segue e altro non guarda. Il discorso «vale la pena consumare le nostre ricchezze paesaggistiche e naturali (di tutti) per estrarre qualche barile di petrolio (privato)» può avere un senso per me e per te, ma non per la finanza che punta a monetizzare subito e tutto quello che è – e anche quello che non sarebbe – monetizzabile. Non c’è un futuro cui il capitale debba tener da conto. Non ci sono generazioni future alle quali pensare. Questo compito spetterebbe alla politica. Ma tocca scrivere al condizionale perché oggi la politica ha demandato le sue competenze all’economia. Oggi la politica è attaccata su tutti i fronti. È considerata sporca, inutile, personale, fonte di guadagni illeciti. Adesso, non dubito che per certi “politici” sia proprio così, ma il punto non è questo. La politica è lo strumento con il quale esercitiamo la democrazia. Chi scende in piazza, chi occupa i cantieri, chi difende l’ambiente anche con azioni forti, fa politica e rivendica democrazia contro un potere oramai tutto relegato nelle mani di una economia che tira avanti a furia di shock, per ricordare Naomi Klein. In questo senso, il tuo discorso va rovesciato. Un ipotetico disastro petrolifero, specie in una area a forte valore ambientale e artistico, andrebbe tutto a vantaggio di una economia che si nutre di disastri.
Oggi il connubio tra tecnologie, saperi e ricerche nel settore dell’agronomia permette una resa della terra più elevata che in passato. In questi anni impietosi di crisi economica, la terra è stata inoltre un rifugio per chi è rimasto senza occupazione o per chi un’occupazione la stava cercando per la prima volta. Molti i giovani che hanno preferito investire in attività agricole. Le risorse idriche rivelano pertanto la loro natura strategica, mentre l’attività estrattiva ne minaccia la sussistenza per le future generazioni. Si tratta secondo me di scegliere cosa vogliamo essere, anche e soprattutto per i nostri figli. Non sarebbe ora di ribadire con forza che tutelare l’ambiente non è affatto un moto umano regressivo, ma semmai l’opzione più attuale di cui disponiamo?
Sono d’accordo naturalmente. I molti “giovani che hanno preferito investire in attività agricole”, come scrivi, hanno capito quello che i nostri governanti non hanno capito, oppure preferiscono non capire: il domani, il futuro dei nostri figli, non sarà legato alle attività estrattive e, in generale, ai combustibili fossili. Non è solo una questione di opportunità. Mi spiego: preferire l’acqua al petrolio (perdona la semplificazione) non è solo una scelta atta a favorire quello che al momento conviene. È l’unica scelta possibile per salvare il pianeta da una svolta epocale: quella dettata dai cambiamenti climatici. A Parigi, così come nelle precedenti Cop, è stato ribadito ancora una volta che il mondo sta cambiando e che, se vogliamo che la Terra sopravviva, non abbiamo altra scelta che imprimere alla nostra economia una sterzata decisa verso le rinnovabili, così come verso il riciclo, il riuso, una limitazione decisa dei consumi, e un drastico cambiamento dei nostri stili di vita. Tutto ciò passa anche attraverso il referendum del 17 aprile. Quella domenica ricordiamoci di andare tutti a votare e poi mettiamoci tranquilli che avremo tante, tante altre battaglie da fare!
(Intervista a cura di Claudia Ciardi)
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