Quarto
romanzo di Annemarie Schwarzenbach finito di scrivere nel maggio 1933 e mai
pubblicato, Fuga verso l’alto (Flucht nach oben) è un’opera che rivela compiutamente
le doti letterarie della giovane autrice, qui impegnata a stagliare i ritratti
dei suoi personaggi sugli sfondi dissolventi della storia europea nel primo
dopoguerra.
Tensione
di un’epoca e atmosfere rarefatte si alternano in un fraseggio che intende
assumere anche a livello della scrittura la spirale ossessiva di eventi con cui
si aprono gli anni Trenta. Uomini e donne sradicati in un continente fiaccato
dalla crisi economica – in Germania è il colpo di grazia per i proprietari
terrieri, l’aristocrazia degli Junker già spodestata dalla sconfitta
bellica si sveglia accerchiata e febbricitante. Il nazismo venderà loro il
sogno di un pangermanesimo nobile, colto e puro ma sarà il calice della
completa rovina. Intorno a questa danza sull’orlo dell’abisso muove per
l’appunto la narrazione della Schwarzenbach, in bilico fra il dramma della
prima guerra mondiale e in attesa dell’imminente colpo di mano nazista. Un
piano inclinato che trova la sua resa iconica nell’ambientazione, una sperduta
località di villeggiatura sulle Alpi svizzere o austriache frutto di fantasia
ma evidentemente ispirata alle stazioni sciistiche che allora iniziavano ad
attrarre il turismo commerciale d’impronta moderna. Archiviate le atrocità
della guerra d’alta quota, le cime furono oggetto di un effimero ripopolamento
legato agli sport invernali o alla pratica dello sci estivo, molto
pubblicizzata quest’ultima dal regime fascista. La memoria dei lutti si
mischiava così ai toni di una tragica assurdità che aveva il volto della
leggerezza mondana ma sentiva dentro di sé tutto il disagio per quel passato
troppo vicino, ancora così carico di ombre. Contrasti descritti molto bene in
uno dei libri più belli di Enrico Camanni, Il fuoco e il gelo, storia di
alpinismo e di guerra cui mi è già capitato di accennare. Il conflitto mondiale
come l’industria dello sci hanno caratterizzato due fasi diverse
dell’appropriazione della montagna da parte dell’uomo, sconvolgendone spazi e
consuetudini di vita. Se durante la follia dell’impresa militare che costrinse
migliaia di soldati ad asserragliarsi oltre i tremila metri si moriva di stenti
o sotto il tiro nemico, dopo, dice Camanni, si è andati in quota a morire di
noia, «nella disperata ricerca di emozioni forti e rimedi esistenziali». Assai
più rara in chi sale la consapevolezza dei disastri e degli attriti che hanno
costellato il difficile incontro tra pianura e montagna; l’ascesa non è dunque
il completamento di un percorso, non rientra in un racconto di formazione del
sé ma in un riflesso condizionato che spinge a cercare l’altrove ad ogni costo
senza approfondirlo.
Il
romanzo della Schwarzenbach punta proprio su questa aporia destinata a rimanere
per buona parte irrisolta. Ne sono intrisi i suoi protagonisti, si diceva
all’inizio. Che l’abbiano combattuta o meno la prima guerra mondiale è ancora
un fatto incombente nelle loro vite, forse il più incombente di tutti sia per
le conseguenze economiche, tradotte in una perdita cospicua di patrimoni e
posizioni, sia per quelle psicologiche, in termini di vuoto e straniamento che
inchiodano le loro esistenze a una fosca passività. Tali forze contrarie
sembrano anestetizzate dal luogo neutrale che le raduna, gli hotel di alta
montagna. Ma si tratta di una cura illusoria, perché il rumore di fondo della cosiddetta
civiltà riesce a insinuarsi fin lassù. Ritroviamo così i medesimi difetti, vizi
e paranoie della pianura, esasperati da un isolamento che per la maggior parte
degli ospiti è una scelta forzata, una fuga da qualcos’altro appunto, e non il
centro di una condizione raggiunta attraverso un autentico processo di crescita
emotiva.
Solo
il protagonista intraprende un viaggio a ritroso per recuperare i frammenti
della sua identità e accetta di soffrire pur di trovare un esito positivo alla
propria situazione. Francis, figlio di un proprietario terriero prussiano morto
da tempo, è emigrato in Sudamerica e dopo essere rimasto sette anni lontano dal
vecchio continente, con l’inizio della crisi decide in modo poco opportuno di
fare ritorno in patria scegliendo un ritiro alpino. Tra mille dubbi e disagi
cerca di reinventarsi, lasciandosi alle spalle i ritmi e le differenti libertà
del nuovo mondo. La notizia del tentato suicidio del fratello che, avendo
intrapreso la carriera militare è andato incontro al naufragio degli ideali cui
si era consegnato, obbliga infine Francis a una brusca riscoperta della realtà in
pianura, che si traduce in lunghe giornate spese in ospedale al capezzale del
giovane ufficiale agonizzante. Il reparto, con il suo rigore anonimo e freddo,
riflette per certi versi la neutralità dell’albergo eppure, in una simile
cornice di dolore dove l’essere giunge a quelle soglie in cui più chiaro
diviene il suo significato, Francis comincia a risalire; la logorante fine del
fratello illumina il suo stesso sguardo sulle cose e nelle ore trascorse
fissando la morte stabilisce un rinnovato legame con la vita.
Possiamo
cogliere più di un riferimento alla Montagna incantata di Thomas Mann,
forse anzi il lavoro della Schwarzenbach si configura come un omaggio al grande
romanzo uscito circa dieci anni prima, col quale manifesta una singolare
contiguità spazio-temporale, rimettendo però in discussione anche una parte
cospicua di quell’impianto. A cominciare dal fatto che Mann riferisce
“l’incantamento” del suo Hans Castorp all’anteguerra mentre la scrittrice
svizzera, adoperando un taglio di prospettiva che sposta le noie dei suoi
personaggi nel limbo politico-economico successivo, contamina la narrazione di
una liminalità doppia, immanente al prima e al dopo. Tutti sembrano presi tra
due fuochi e scivolano senza opporre resistenza nel vortice della storia che,
sovrapponendosi al presente, mira a svuotare entrambi sabotando il fattore
tempo. Gli uomini di Alptal, come già gli ammalati di Davos, aggirano i vincoli
della quotidianità e con ciò differiscono il proprio stesso agire. Ma la
Schwarzenbach apre uno spiraglio ben diverso. Francis accoglie in sé, come
Castorp, la sofferenza – qualcosa di simile al pathei mathos greco è il leitmotiv
di entrambe le scritture – però l’insegnamento
che ne trae gli serve per convincerlo a restare sulle montagne, non più sponda
di una fuga ma luogo in cui azzerare le passate esperienze, rifondando lì un
capitolo del proprio vivere.
Le
figure femminili risultano a loro volta contaminate dall’incertezza degli
eventi. Da una parte c’è Adrienne Vidal, la donna che, per quanto sia ancora
giovane, ha ormai innalzato un muro insuperabile davanti alla disinvoltura
della giovinezza. Sebbene ancora facoltosa non può più contare sulle risorse e
le amicizie di un tempo; la maternità l’ha completamente cambiata, non ama più
il padre del suo bambino ma ama quest’ultimo fino ad annullare se stessa, ed è
malata. È qui che spunta il ricordo del sanatorio a Davos, primo e più
importante simulacro manniano, dove la donna sarebbe stata ricoverata, non si
capisce se per un male fisico o a causa di un esaurimento. L’autrice gioca
volutamente su questa ambiguità che è un altro tassello essenziale
dell’architettura narrativa. Sull’altro versante c’è la bella ma altrettanto
tormentata, sebbene per motivi diversi, Esther von M. giovane moglie di un
vecchio ebreo facoltoso. La donna ha contratto un matrimonio di convenienza per
cavarsi dagli impicci economici, comprando una vita di agi ma anche noie e
solitudini. Cerca amicizie e rapporti per puro senso di evasione, tuttavia non
riesce a spingersi fino alle estreme conseguenze del suo essere in apparenza
dissoluta, perché nell’intimo non vuole rinunciare al privilegio acquisito; non
dispone di sufficiente coraggio a uscire dalla gabbia che si è scelta,
soprattutto non ammette a se stessa che in fin dei conti ci sta anche comoda.
Questo più di ogni altra cosa crea in lei un dissidio che non le consente di
dare il giusto peso a quanto le ruota intorno. Anche Esther, come Adrienne, è
senza centro. Ma diversamente da lei Adrienne decide di risolvere il suo
conflitto interiore, seguendo il destino di Francis di cui è innamorata.
L’amore assume qui un senso salvifico, di redenzione, non è il capriccio
attuato da Esther né il morboso strumento nelle mani di Wirz, l’antiborghese
che non sa adattarsi né alle convenzioni della pianura né a quelle della
montagna e che coinvolge in una relazione soffocante e spasmodica il giovane
Matthisel, con l’esito nefasto che inevitabilmente ne deriva.
I
silenzi del monte, il misterioso bagliore delle cime, della neve pulsante
d’azzurro nel buio di sere invernali si alternano agli echi che vengono dalle
città, vedute fotografate da treni-notte, stazioni umide e spoglie alle
periferie delle metropoli e il ritmo ossessivo delle prime ronde che annunciano
una sinistra scalata al potere: «Che cosa si era aspettato? Piccole e scure
esistenze borghesi? Non ne era rimasto più nulla, tutti erano sballottati sul
mare agitato dell’incertezza generale. E ovunque la parola “crisi”, usurata nel
corso di tanti anni. Sembravano tutti, senza eccezione, aver puntato sul
cavallo perdente, quello della vita borghese. Alcuni rimanevano fedeli all’idea
che ogni cosa si sarebbe sistemata, e professavano un ottimismo liberale costantemente
smentito dai fatti. Altri si erano rassegnati, erano preparati al peggio, altri
ancora credevano, con disperata energia, in un radicale cambiamento. [Francis]
divenne semplicemente silenzioso in mezzo alla frenesia generale. E come lui,
molti altri divennero silenziosi; attendevano, accontentandosi di poco,
scettici nei confronti della morale vacillante della storia. […] Furono
settimane all’insegna di una resa dei conti impietosa e totale. Francis non si
lasciò confondere nemmeno dal vuoto e fragoroso turbinio degli eventi che
trascinava con sé la gente che viveva lì. A Berlino si ammassavano valanghe di
eventi, che potevano staccarsi in qualsiasi momento per precipitare nel
baratro. Nulla metteva radici».
Questo
manoscritto che si dava per perduto ed è stato ritrovato in tempi recenti alla
Biblioteca centrale di Zurigo da Roger Perret, curatore di molte delle opere
della Schwarzenbach, parla di un tempo d’esilio, di un’avventura da emarginati
che scuote in maniera trasversale gli appartenenti a diverse classi sociali.
All’epoca della stesura la scrittrice era tornata in patria, dopo l’uscita
dalla Germania dove soggiornava stabilmente dal ’31, dibattendosi come numerosi
transfughi dell’Europa centrale in una condizione non facile a causa delle
severe regole di permanenza – nonostante la sua origine svizzera incappò al
pari degli altri negli attacchi mossi dalla stampa di estrema destra. La
giovane letterata mostra non solo le pose di una narrativa matura ma anche la
personalità per crearsi quegli spazi che le permetteranno di lì a poco di
collaborare a importanti riviste come corrispondente dall’estero. Sopravvivenza
e riscatto di una donna che seppe unire un talento precoce alla lucida
interpretazione dei mondi che fatalmente si trovò ad attraversare.
(Di
Claudia Ciardi)
Edizione
recensita:
Annemarie
Schwarzenbach, Fuga verso l’alto,
traduzione e postfazione di Tina D’Agostini,
Il Saggiatore, 2016
traduzione e postfazione di Tina D’Agostini,
Il Saggiatore, 2016
Tramonto
su Cima Vezzena e Cimon della Pala
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