14 settembre 2016

Annemarie Schwarzenbach - Fuga verso l'alto





Quarto romanzo di Annemarie Schwarzenbach finito di scrivere nel maggio 1933 e mai pubblicato, Fuga verso l’alto (Flucht nach oben) è un’opera che rivela compiutamente le doti letterarie della giovane autrice, qui impegnata a stagliare i ritratti dei suoi personaggi sugli sfondi dissolventi della storia europea nel primo dopoguerra.
Tensione di un’epoca e atmosfere rarefatte si alternano in un fraseggio che intende assumere anche a livello della scrittura la spirale ossessiva di eventi con cui si aprono gli anni Trenta. Uomini e donne sradicati in un continente fiaccato dalla crisi economica – in Germania è il colpo di grazia per i proprietari terrieri, l’aristocrazia degli Junker già spodestata dalla sconfitta bellica si sveglia accerchiata e febbricitante. Il nazismo venderà loro il sogno di un pangermanesimo nobile, colto e puro ma sarà il calice della completa rovina. Intorno a questa danza sull’orlo dell’abisso muove per l’appunto la narrazione della Schwarzenbach, in bilico fra il dramma della prima guerra mondiale e in attesa dell’imminente colpo di mano nazista. Un piano inclinato che trova la sua resa iconica nell’ambientazione, una sperduta località di villeggiatura sulle Alpi svizzere o austriache frutto di fantasia ma evidentemente ispirata alle stazioni sciistiche che allora iniziavano ad attrarre il turismo commerciale d’impronta moderna. Archiviate le atrocità della guerra d’alta quota, le cime furono oggetto di un effimero ripopolamento legato agli sport invernali o alla pratica dello sci estivo, molto pubblicizzata quest’ultima dal regime fascista. La memoria dei lutti si mischiava così ai toni di una tragica assurdità che aveva il volto della leggerezza mondana ma sentiva dentro di sé tutto il disagio per quel passato troppo vicino, ancora così carico di ombre. Contrasti descritti molto bene in uno dei libri più belli di Enrico Camanni, Il fuoco e il gelo, storia di alpinismo e di guerra cui mi è già capitato di accennare. Il conflitto mondiale come l’industria dello sci hanno caratterizzato due fasi diverse dell’appropriazione della montagna da parte dell’uomo, sconvolgendone spazi e consuetudini di vita. Se durante la follia dell’impresa militare che costrinse migliaia di soldati ad asserragliarsi oltre i tremila metri si moriva di stenti o sotto il tiro nemico, dopo, dice Camanni, si è andati in quota a morire di noia, «nella disperata ricerca di emozioni forti e rimedi esistenziali». Assai più rara in chi sale la consapevolezza dei disastri e degli attriti che hanno costellato il difficile incontro tra pianura e montagna; l’ascesa non è dunque il completamento di un percorso, non rientra in un racconto di formazione del sé ma in un riflesso condizionato che spinge a cercare l’altrove ad ogni costo senza approfondirlo.   
Il romanzo della Schwarzenbach punta proprio su questa aporia destinata a rimanere per buona parte irrisolta. Ne sono intrisi i suoi protagonisti, si diceva all’inizio. Che l’abbiano combattuta o meno la prima guerra mondiale è ancora un fatto incombente nelle loro vite, forse il più incombente di tutti sia per le conseguenze economiche, tradotte in una perdita cospicua di patrimoni e posizioni, sia per quelle psicologiche, in termini di vuoto e straniamento che inchiodano le loro esistenze a una fosca passività. Tali forze contrarie sembrano anestetizzate dal luogo neutrale che le raduna, gli hotel di alta montagna. Ma si tratta di una cura illusoria, perché il rumore di fondo della cosiddetta civiltà riesce a insinuarsi fin lassù. Ritroviamo così i medesimi difetti, vizi e paranoie della pianura, esasperati da un isolamento che per la maggior parte degli ospiti è una scelta forzata, una fuga da qualcos’altro appunto, e non il centro di una condizione raggiunta attraverso un autentico processo di crescita emotiva.
Solo il protagonista intraprende un viaggio a ritroso per recuperare i frammenti della sua identità e accetta di soffrire pur di trovare un esito positivo alla propria situazione. Francis, figlio di un proprietario terriero prussiano morto da tempo, è emigrato in Sudamerica e dopo essere rimasto sette anni lontano dal vecchio continente, con l’inizio della crisi decide in modo poco opportuno di fare ritorno in patria scegliendo un ritiro alpino. Tra mille dubbi e disagi cerca di reinventarsi, lasciandosi alle spalle i ritmi e le differenti libertà del nuovo mondo. La notizia del tentato suicidio del fratello che, avendo intrapreso la carriera militare è andato incontro al naufragio degli ideali cui si era consegnato, obbliga infine Francis a una brusca riscoperta della realtà in pianura, che si traduce in lunghe giornate spese in ospedale al capezzale del giovane ufficiale agonizzante. Il reparto, con il suo rigore anonimo e freddo, riflette per certi versi la neutralità dell’albergo eppure, in una simile cornice di dolore dove l’essere giunge a quelle soglie in cui più chiaro diviene il suo significato, Francis comincia a risalire; la logorante fine del fratello illumina il suo stesso sguardo sulle cose e nelle ore trascorse fissando la morte stabilisce un rinnovato legame con la vita.
Possiamo cogliere più di un riferimento alla Montagna incantata di Thomas Mann, forse anzi il lavoro della Schwarzenbach si configura come un omaggio al grande romanzo uscito circa dieci anni prima, col quale manifesta una singolare contiguità spazio-temporale, rimettendo però in discussione anche una parte cospicua di quell’impianto. A cominciare dal fatto che Mann riferisce “l’incantamento” del suo Hans Castorp all’anteguerra mentre la scrittrice svizzera, adoperando un taglio di prospettiva che sposta le noie dei suoi personaggi nel limbo politico-economico successivo, contamina la narrazione di una liminalità doppia, immanente al prima e al dopo. Tutti sembrano presi tra due fuochi e scivolano senza opporre resistenza nel vortice della storia che, sovrapponendosi al presente, mira a svuotare entrambi sabotando il fattore tempo. Gli uomini di Alptal, come già gli ammalati di Davos, aggirano i vincoli della quotidianità e con ciò differiscono il proprio stesso agire. Ma la Schwarzenbach apre uno spiraglio ben diverso. Francis accoglie in sé, come Castorp, la sofferenza – qualcosa di simile al pathei mathos greco è il leitmotiv di entrambe le scritture  – però l’insegnamento che ne trae gli serve per convincerlo a restare sulle montagne, non più sponda di una fuga ma luogo in cui azzerare le passate esperienze, rifondando lì un capitolo del proprio vivere.
Le figure femminili risultano a loro volta contaminate dall’incertezza degli eventi. Da una parte c’è Adrienne Vidal, la donna che, per quanto sia ancora giovane, ha ormai innalzato un muro insuperabile davanti alla disinvoltura della giovinezza. Sebbene ancora facoltosa non può più contare sulle risorse e le amicizie di un tempo; la maternità l’ha completamente cambiata, non ama più il padre del suo bambino ma ama quest’ultimo fino ad annullare se stessa, ed è malata. È qui che spunta il ricordo del sanatorio a Davos, primo e più importante simulacro manniano, dove la donna sarebbe stata ricoverata, non si capisce se per un male fisico o a causa di un esaurimento. L’autrice gioca volutamente su questa ambiguità che è un altro tassello essenziale dell’architettura narrativa. Sull’altro versante c’è la bella ma altrettanto tormentata, sebbene per motivi diversi, Esther von M. giovane moglie di un vecchio ebreo facoltoso. La donna ha contratto un matrimonio di convenienza per cavarsi dagli impicci economici, comprando una vita di agi ma anche noie e solitudini. Cerca amicizie e rapporti per puro senso di evasione, tuttavia non riesce a spingersi fino alle estreme conseguenze del suo essere in apparenza dissoluta, perché nell’intimo non vuole rinunciare al privilegio acquisito; non dispone di sufficiente coraggio a uscire dalla gabbia che si è scelta, soprattutto non ammette a se stessa che in fin dei conti ci sta anche comoda. Questo più di ogni altra cosa crea in lei un dissidio che non le consente di dare il giusto peso a quanto le ruota intorno. Anche Esther, come Adrienne, è senza centro. Ma diversamente da lei Adrienne decide di risolvere il suo conflitto interiore, seguendo il destino di Francis di cui è innamorata. L’amore assume qui un senso salvifico, di redenzione, non è il capriccio attuato da Esther né il morboso strumento nelle mani di Wirz, l’antiborghese che non sa adattarsi né alle convenzioni della pianura né a quelle della montagna e che coinvolge in una relazione soffocante e spasmodica il giovane Matthisel, con l’esito nefasto che inevitabilmente ne deriva.  
I silenzi del monte, il misterioso bagliore delle cime, della neve pulsante d’azzurro nel buio di sere invernali si alternano agli echi che vengono dalle città, vedute fotografate da treni-notte, stazioni umide e spoglie alle periferie delle metropoli e il ritmo ossessivo delle prime ronde che annunciano una sinistra scalata al potere: «Che cosa si era aspettato? Piccole e scure esistenze borghesi? Non ne era rimasto più nulla, tutti erano sballottati sul mare agitato dell’incertezza generale. E ovunque la parola “crisi”, usurata nel corso di tanti anni. Sembravano tutti, senza eccezione, aver puntato sul cavallo perdente, quello della vita borghese. Alcuni rimanevano fedeli all’idea che ogni cosa si sarebbe sistemata, e professavano un ottimismo liberale costantemente smentito dai fatti. Altri si erano rassegnati, erano preparati al peggio, altri ancora credevano, con disperata energia, in un radicale cambiamento. [Francis] divenne semplicemente silenzioso in mezzo alla frenesia generale. E come lui, molti altri divennero silenziosi; attendevano, accontentandosi di poco, scettici nei confronti della morale vacillante della storia. […] Furono settimane all’insegna di una resa dei conti impietosa e totale. Francis non si lasciò confondere nemmeno dal vuoto e fragoroso turbinio degli eventi che trascinava con sé la gente che viveva lì. A Berlino si ammassavano valanghe di eventi, che potevano staccarsi in qualsiasi momento per precipitare nel baratro. Nulla metteva radici».
Questo manoscritto che si dava per perduto ed è stato ritrovato in tempi recenti alla Biblioteca centrale di Zurigo da Roger Perret, curatore di molte delle opere della Schwarzenbach, parla di un tempo d’esilio, di un’avventura da emarginati che scuote in maniera trasversale gli appartenenti a diverse classi sociali. All’epoca della stesura la scrittrice era tornata in patria, dopo l’uscita dalla Germania dove soggiornava stabilmente dal ’31, dibattendosi come numerosi transfughi dell’Europa centrale in una condizione non facile a causa delle severe regole di permanenza – nonostante la sua origine svizzera incappò al pari degli altri negli attacchi mossi dalla stampa di estrema destra. La giovane letterata mostra non solo le pose di una narrativa matura ma anche la personalità per crearsi quegli spazi che le permetteranno di lì a poco di collaborare a importanti riviste come corrispondente dall’estero. Sopravvivenza e riscatto di una donna che seppe unire un talento precoce alla lucida interpretazione dei mondi che fatalmente si trovò ad attraversare.     


(Di Claudia Ciardi)


Edizione recensita

Annemarie Schwarzenbach, Fuga verso l’alto,
traduzione e postfazione di Tina D’Agostini,
Il Saggiatore, 2016



Tramonto su Cima Vezzena e Cimon della Pala



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