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27 marzo 2018

Enrico Camanni - L'incanto del rifugio






È una parola con un’ampia diffusione nella lingua, che a partire dalla sua etimologia, il latino refugere, implica un moto di ritrazione, un andare all’indietro, e all’interno, verso una meta che sappiamo sicura per fuggire immediati pericoli e altre minacce che mettano a rischio la nostra integrità. Di rifugio si parla in molti contesti, tra loro anche lontani, e ciò basta a farne un vocabolo ponte che unisce aree differenti dell’operare umano e del pensiero che vi trae origine. Riparo per chi fugge da una tormenta o da una tempesta, per chi vinto dalla stanchezza ha smarrito la via, esiste il rifugio di montagna e il porto di rifugio. Nel medioevo erano gli ospizi dei monaci che rifocillavano i viandanti, strappandoli alle insidie delle bufere e delle notti sui valichi. Quindi sono divenute le strutture, prima assai spartane, tanto in qualche caso da farli preferire “la bella stella”, poi accessoriate e tecnologiche, per i temerari delle cime. In epoca di più o meno forzate economie e crisi ricorrenti si fa un gran parlare di “beni rifugio”, anche questi ormai desolatamente ai più fuori portata. In gergo militare si definisce così una struttura sotterranea attrezzata per resistere agli attacchi del nemico. E infine nelle litanie lauretane l’espressione “refugium peccatorum” risulta essere uno degli epiteti della madonna.
Col suo librino per escursionisti e curiosi Enrico Camanni offre un compendio utile sia ai cultori che ai profani della montagna, e lo fa con la sua scrittura agile e accattivante che io ho imparato ad apprezzare attraverso le pagine intensissime di Il fuoco e il gelo, poetico incrocio di storia e letteratura, per me una delle pietre miliari nella narrativa contemporanea. Giornalista torinese, alpinista, autore raffinato, profondo studioso e conoscitore della montagna, sua la consulenza per l’allestimento del Museo delle Alpi a Forte di Bard che ho avuto modo di visitare in tempi recenti, nonché curatore dei progetti per il Museo del Forte di Vinadio e il Museo della Montagna di Torino. Camanni sa avvicinare alla montagna senza clamore né sovrabbondanti mitizzazioni. Racconta storie col piglio del montanaro esperto che non ha bisogno di abbellire né di cucire fronzoli a quanto descritto, perché si nutre della cosa più preziosa, l’esperienza del luogo, la pazienza della sua coperta.
Quell’andare lento per cose lente, che occorrerebbe rimettere al centro delle nostre abitudini, nei rapporti quotidiani che intratteniamo con le persone ma pure con gli oggetti, come anche quando ci distacchiamo da questi per coltivare insolite lontananze in cerca d’altre conferme. Precisamente da qui scaturisce l’incanto di Enrico Camanni, che già in virtù di un simile atteggiamento ci introduce al più bello dei rifugi, quello in cui sostare per il tempo necessario a ritrovarci. Il rifugio, è bene averlo presente e l’autore non manca occasione di ribadirlo, ha infatti per chi lo raggiunge una natura transitoria. Guai pensare di abitarlo, guai portarvi le abitudini e i difetti dell’abitare. Quell’illusione di stabilità finirebbe col rivoltarsi contro di noi. Solo nella sua dimensione di passaggio in grado di soccorrere, anche di salvare la vita in casi estremi, o più in generale di offrire quel che serve per procedere oltre con maggior forza e convinzione, solo così il rifugio assolve correttamente il proprio compito.
Questo “piccolo elogio della notte in montagna” – è il sottotitolo del libro – potrebbe dunque leggersi come una guida filosofica del camminare e del fermarsi in attesa quali svolte essenziali nella conoscenza del sé, un po’ in scia alle solitarie passeggiate di Rousseau.
C’è spazio nelle belle pagine di Camanni per le imprese memorabili dell’alpinismo, da Balmat a Gervasutti, ma anche per aneddoti e riflessioni più profonde sui cambiamenti climatici e la conservazione dell’ambiente. Emblematico e di grande impatto descrittivo il crollo del seracco pensile del Monviso, vissuto in presa diretta da due scalatori miracolati, rimasti incolumi. E poi ancora, miti e leggende alpine, le voci dei tanti che la montagna l’hanno salita e discesa coi loro sogni, le loro sfide e, cosa più che umana, le loro paure. Perché avvicinare la montagna equivale a una liturgia. Bisogna sentirlo profondamente questo rito e averne rispetto nel compierlo. Camanni parla infatti di “momento liturgico” del rifugio, associandolo al ritorno dall’ascensione. Quasi stato di grazia, perché la mente è sgombra, le tensioni andate e tutti i pensieri son disponibili a godersi quel senso assolutamente particolare di ospitalità e accoglienza che appartiene solo a spazi simili. Non è una cosa che si può spiegare. Quando si arriva, anche dopo una lunga camminata sulla neve fresca, immersi nei silenzi della montagna addormentata, e fa già quasi buio e alla fine del sentiero trovare una porta aperta, magari una stufa accesa e forse qualcuno che ti serve un tè caldo. Un momento così te lo porti dentro sempre, è una poesia incisa nella cadenza infinita di una cosa troppo grande e perfetta per essere trascritta: è la natura con cui ti sei appena riconciliato.
Questo librino, lo si è detto, tocca e condensa ogni genere legato al racconto di montagna, dai diari, alle cronache d’imprese memorabili, dalle biografie dei personaggi che hanno aperto le prime vie alle fantasie di fuochi fatui e angeli sterminatori venuti a punire l’avidità umana. Tutto vi è rappresentato col tocco lieve e allo stesso tempo sapiente del grande scrittore esperto di uomini e terre alte, che in punta di penna ci accompagna fin dove i nostri passi e magari, ancor più, la nostra immaginazione, avranno voglia di spingersi.   
       

(Di Claudia Ciardi)


Edizione consultata:

Enrico Camanni,
L’incanto del rifugio. Piccolo elogio della notte in montagna,
Ediciclo Editore, 2017


13 gennaio 2017

Hokusai, Hiroshige, Utamaro - Incidere i sogni



Hokusai - Asakusa tempio Hongan-ji nella capitale orientale
(Trentasei vedute del Monte Fuji) 


Sono tuttora in corso in Lombardia, rispettivamente a Brescia e a Milano, due mostre fondamentali, l’una celebrativa del centenario del dadaismo, che potremmo definire una sorta di anno zero delle avanguardie, l’altra dei centocinquant’anni dalla firma del primo trattato di amicizia e commercio tra Giappone e Italia. Sebbene si tratti di esposizioni assai diverse fra loro, hanno in comune la rilevanza tematica e l’ampiezza dei rispettivi allestimenti. Le ho visitate entrambe lo scorso dicembre, e il mio consiglio a chi decida di fare altrettanto è ritagliarsi almeno un paio di mezze giornate, in quanto per apprezzare al meglio la densità dei materiali proposti è d’obbligo non andare troppo in fretta.
Vorrei di seguito raccogliere qualche breve impressione a partire dall’evento che chiuderà i battenti per primo, alla fine di questo mese, ossia la mostra di Palazzo Reale dedicata ai maestri giapponesi dell’incisione. Quando un paio d’anni fa, forse meno, mi capitò per le mani il catalogo a cura di Gian Carlo Calza sulla grande rassegna dedicata nel 2004, sempre a Milano, al ‘mondo fluttuante’, sperai che si tenesse al più presto in Italia qualcosa di simile, non avendo potuto partecipare in quella precedente occasione. L’interesse per Cina e Giappone del resto l’ho a lungo coltivato in me, già in parallelo con l’inizio degli studi sul mondo antico. Una curiosità che definirei a tutto campo e che riserva alla produzione artistica un posto di prim’ordine.
Questa mostra cade, lo si è detto, in un anno molto significativo sia per il nostro paese che per il Giappone. Vi si ricorda infatti l’approdo, il 27 maggio 1866, della nave italiana “Magenta” nel porto di Yokohama, avvenimento da cui scaturì nelle settimane successive – per l’esattezza in agosto – la firma di un trattato che ufficializzò quell’avventura straordinaria e complessa di contatti e scambi culturali avviata tra le due nazioni fin dal XIII secolo.
La presente rassegna, curata da Rossella Menegazzo già collaboratrice del professor Calza, tocca un vertice nell’ambito delle retrospettive dedicate all’ukiyoe (lett: immagini del mondo fluttuante) su scala mondiale. Tra quelle che recentemente hanno riscosso il maggior successo di pubblico si pensi alle mostre monografiche su Hokusai, tenutesi a Berlino nel 2011 e a Parigi nel 2014. Milano mette in campo uno spazio imponente dove alternano i loro capolavori i tre massimi interpreti della stampa policroma, operanti nella seconda metà della cosiddetta epoca Edo (1615-1868), un periodo che vide susseguirsi in Giappone duecentocinquant’anni di pace e la graduale espansione di Edo (odierna Tokyo), nuova capitale politica e amministrativa.
Non è casuale che in condizioni storiche tanto favorevoli anche le arti conoscessero una stagione di raffinatezza e profondità senza eguali. La sensazione è che l’intera vita giapponese negli anni in cui s’instaurò il potere dello shogunato, fosse in ogni suo più effimero aspetto e perfino nei più dimessi riti quotidiani improntata all’arte. Aristocratici in visita a Edo, provenienti dalle più remote province del paese, mercanti, artigiani, poeti, pittori, solevano incontrarsi nelle sale da tè della nuova capitale e da tali frequentazioni scaturivano scambi di idee e committenze importanti. Un mondo vivace che nella rinnovata temperie politica e culturale produsse mode, spettacoli e, per l’appunto, gusti diversi in materia artistica. Col periodo Edo coincide infatti l’epoca d’oro dello joruri (il teatro dei burattini), del kabuki (il teatro popolare), della poesia in forma di haiku e anche dell’incisione.
Sulla tecnica a stampa sbocciata in terra giapponese a partire dagli anni Settanta del Settecento è necessario spendere qualche parola. I suoi praticanti erano pittori di professione, dediti pure all’esercizio pittorico tout court, ma assai più inclini, col l’affermarsi di un’editoria di consumo legata alla diffusione di album stampati, all’opera grafica. Contrariamente a quanto avviene in occidente i giapponesi lavoravano in equipe, dividendo tra varie maestranze le diverse fasi in cui la stampa doveva essere realizzata. Compito dell’artista era la concezione dell’opera, il suo disegno e la scelta dei colori  – di solito mostrava all’editore, che avrebbe poi investito nel progetto, un campione dei suoi soggetti, dando con ciò un saggio del proprio talento. Così fece ad esempio Hiroshige al ritorno dal suo viaggio lungo il Tokaido (lett: la strada del mare orientale); dopo aver sottoposto all’attenzione di un editore gli appunti grafici presi per via, ottenne la committenza che lo consacrò come l’artista della serie Tra le cinquantatré stazioni di posta del Tokaido (opera presente in mostra). L’intaglio delle matrici lignee e l’opera di stampa spettavano invece a maestranze altamente specializzate, dipendenti dall’editore. Quanto alla figura dell’intagliatore di solito si trattava di uomini di fiducia dell’artista. Quando un incisore si era ormai affermato, godendo di una certa fama, poteva indicare coloro i quali avrebbe voluto al suo fianco nello sviluppo del lavoro. Un chiarimento affatto accessorio, perché solo in tal modo si spiega la mole di fogli a stampa prodotti da Hokusai – oltre quattromila, senza contare i dipinti e i suoi più di trecento libri illustrati – e da Hiroshige – circa settemila opere.
Infine una notazione, anche questa tutt’altro che secondaria, sul colore. Nel primo periodo della loro realizzazione le xilografie venivano realizzate col solo inchiostro nero, in seguito vennero aggiunti a mano il rosso vermiglio e il verde, mentre dal 1740 iniziarono a essere utilizzate più matrici per il colore. Il blu di Prussia si diffuse in Giappone dagli anni ’30 dell’Ottocento e anche in questo caso è ben ravvisabile come nelle opere grafiche vi si ricorra in maniera capillare sostituendolo ai pigmenti, dai toni assai meno accesi, di cui ci si serviva prima della sua introduzione.
La rassegna milanese mette in risalto il momento aureo dell’ukiyoe policromo attraverso i suoi disegnatori più virtuosi. Le Trentasei vedute del Monte Fuji di Hokusai, più anziano di trentasette anni rispetto al collega Hiroshige, duellano con le sue altrettanto raffinate vedute del Tokaido, ciclo cui attese dal 1833 al ’34. Entrambi, nello stesso torno di anni, si cimentano col paesaggismo delle zone più remote del Giappone, dialogando in modi assai differenti con gli esseri umani immersi nella natura che intendono fotografare. L’uomo è un medium che si interpone al paesaggio, sottolineando la ciclica eternità di quest’ultimo in contrasto con l’estrema caducità dell’altro, caratteristica che viene così enfatizzata traendone un effetto di rarefazione e malinconia ben avvertibile dall’osservatore. Tuttavia per Hokusai il fulcro della rappresentazione è proprio costituito dall’umana limitatezza, dal suo drammatico avvicendarsi nel mondo in un equilibrio precario con una natura sovrastante – il Fuji infatti appare ovunque come un silenzioso indecifrabile guardiano che distaccato osserva il perenne agitarsi delle generazioni, un nulla a confronto del suo essere immanente.
Hiroshige, invece, predilige celebrare l’imponenza delle natura di per se stessa, esaltandone il mistero, secondo l’arcaica visione dello shinto, la religione autoctona giapponese; in questo quadro l’essere umano non è il centro narrativo, ma solo unaggiunta. Ciò non toglie che nelle sue rappresentazioni del Tokaido vi siano scene di vita quotidiana estremamente toccanti e di raffinatezza tale da tener testa a Hokusai.
Infine Utamaro, il maestro della bellezza, della grazia e del conturbante. Frequentatore dei quartieri di piacere, per cui avrebbe nutrito fin da giovanissimo una precoce fascinazione – pare infatti che da bambino abitasse davanti ai cancelli del famoso Yoshiwara, zona a luci rosse di Edo – il malizioso erotismo dei suoi ritratti femminili si staglia come punta massima raggiunta dal genere.
La sensazione per chi si pone di fronte alle opere dei tre artisti è di essere immerso in un mondo fiabesco, sognato più che reale. Con questa ricca e curatissima retrospettiva sul Giappone, resa possibile da una pluriennale e proficua collaborazione con l’Ambasciata giapponese a Roma e con l’Honolulu Museum of Art, una delle più importanti collezioni di arte nipponica al mondo, Milano si conferma, dunque, un polo attrattivo di grande livello capace di scrivere pagine importanti nel panorama culturale nazionale.  

(Di Claudia Ciardi)
  


Hokusai - Un gruppo di alpinisti 
(Trentasei vedute del monte Fuji)



Related links:


Hokusai, Hiroshige, Utamaro - Il mondo fluttuante, a cura di Rossella Menegazzo, Skira, 2016-2017 







Le Trentasei vedute del Monte Fuji su «The Asian Observatory»


Max Klinger, maestro dellincisione tedesca, nelle edizioni Via del Vento.

A cura e traduzione di Claudia Ciardi

pag. 40, ISBN 978-88-6226-091-6

Euro 4,00




14 settembre 2016

Annemarie Schwarzenbach - Fuga verso l'alto





Quarto romanzo di Annemarie Schwarzenbach finito di scrivere nel maggio 1933 e mai pubblicato, Fuga verso l’alto (Flucht nach oben) è un’opera che rivela compiutamente le doti letterarie della giovane autrice, qui impegnata a stagliare i ritratti dei suoi personaggi sugli sfondi dissolventi della storia europea nel primo dopoguerra.
Tensione di un’epoca e atmosfere rarefatte si alternano in un fraseggio che intende assumere anche a livello della scrittura la spirale ossessiva di eventi con cui si aprono gli anni Trenta. Uomini e donne sradicati in un continente fiaccato dalla crisi economica – in Germania è il colpo di grazia per i proprietari terrieri, l’aristocrazia degli Junker già spodestata dalla sconfitta bellica si sveglia accerchiata e febbricitante. Il nazismo venderà loro il sogno di un pangermanesimo nobile, colto e puro ma sarà il calice della completa rovina. Intorno a questa danza sull’orlo dell’abisso muove per l’appunto la narrazione della Schwarzenbach, in bilico fra il dramma della prima guerra mondiale e in attesa dell’imminente colpo di mano nazista. Un piano inclinato che trova la sua resa iconica nell’ambientazione, una sperduta località di villeggiatura sulle Alpi svizzere o austriache frutto di fantasia ma evidentemente ispirata alle stazioni sciistiche che allora iniziavano ad attrarre il turismo commerciale d’impronta moderna. Archiviate le atrocità della guerra d’alta quota, le cime furono oggetto di un effimero ripopolamento legato agli sport invernali o alla pratica dello sci estivo, molto pubblicizzata quest’ultima dal regime fascista. La memoria dei lutti si mischiava così ai toni di una tragica assurdità che aveva il volto della leggerezza mondana ma sentiva dentro di sé tutto il disagio per quel passato troppo vicino, ancora così carico di ombre. Contrasti descritti molto bene in uno dei libri più belli di Enrico Camanni, Il fuoco e il gelo, storia di alpinismo e di guerra cui mi è già capitato di accennare. Il conflitto mondiale come l’industria dello sci hanno caratterizzato due fasi diverse dell’appropriazione della montagna da parte dell’uomo, sconvolgendone spazi e consuetudini di vita. Se durante la follia dell’impresa militare che costrinse migliaia di soldati ad asserragliarsi oltre i tremila metri si moriva di stenti o sotto il tiro nemico, dopo, dice Camanni, si è andati in quota a morire di noia, «nella disperata ricerca di emozioni forti e rimedi esistenziali». Assai più rara in chi sale la consapevolezza dei disastri e degli attriti che hanno costellato il difficile incontro tra pianura e montagna; l’ascesa non è dunque il completamento di un percorso, non rientra in un racconto di formazione del sé ma in un riflesso condizionato che spinge a cercare l’altrove ad ogni costo senza approfondirlo.   
Il romanzo della Schwarzenbach punta proprio su questa aporia destinata a rimanere per buona parte irrisolta. Ne sono intrisi i suoi protagonisti, si diceva all’inizio. Che l’abbiano combattuta o meno la prima guerra mondiale è ancora un fatto incombente nelle loro vite, forse il più incombente di tutti sia per le conseguenze economiche, tradotte in una perdita cospicua di patrimoni e posizioni, sia per quelle psicologiche, in termini di vuoto e straniamento che inchiodano le loro esistenze a una fosca passività. Tali forze contrarie sembrano anestetizzate dal luogo neutrale che le raduna, gli hotel di alta montagna. Ma si tratta di una cura illusoria, perché il rumore di fondo della cosiddetta civiltà riesce a insinuarsi fin lassù. Ritroviamo così i medesimi difetti, vizi e paranoie della pianura, esasperati da un isolamento che per la maggior parte degli ospiti è una scelta forzata, una fuga da qualcos’altro appunto, e non il centro di una condizione raggiunta attraverso un autentico processo di crescita emotiva.
Solo il protagonista intraprende un viaggio a ritroso per recuperare i frammenti della sua identità e accetta di soffrire pur di trovare un esito positivo alla propria situazione. Francis, figlio di un proprietario terriero prussiano morto da tempo, è emigrato in Sudamerica e dopo essere rimasto sette anni lontano dal vecchio continente, con l’inizio della crisi decide in modo poco opportuno di fare ritorno in patria scegliendo un ritiro alpino. Tra mille dubbi e disagi cerca di reinventarsi, lasciandosi alle spalle i ritmi e le differenti libertà del nuovo mondo. La notizia del tentato suicidio del fratello che, avendo intrapreso la carriera militare è andato incontro al naufragio degli ideali cui si era consegnato, obbliga infine Francis a una brusca riscoperta della realtà in pianura, che si traduce in lunghe giornate spese in ospedale al capezzale del giovane ufficiale agonizzante. Il reparto, con il suo rigore anonimo e freddo, riflette per certi versi la neutralità dell’albergo eppure, in una simile cornice di dolore dove l’essere giunge a quelle soglie in cui più chiaro diviene il suo significato, Francis comincia a risalire; la logorante fine del fratello illumina il suo stesso sguardo sulle cose e nelle ore trascorse fissando la morte stabilisce un rinnovato legame con la vita.
Possiamo cogliere più di un riferimento alla Montagna incantata di Thomas Mann, forse anzi il lavoro della Schwarzenbach si configura come un omaggio al grande romanzo uscito circa dieci anni prima, col quale manifesta una singolare contiguità spazio-temporale, rimettendo però in discussione anche una parte cospicua di quell’impianto. A cominciare dal fatto che Mann riferisce “l’incantamento” del suo Hans Castorp all’anteguerra mentre la scrittrice svizzera, adoperando un taglio di prospettiva che sposta le noie dei suoi personaggi nel limbo politico-economico successivo, contamina la narrazione di una liminalità doppia, immanente al prima e al dopo. Tutti sembrano presi tra due fuochi e scivolano senza opporre resistenza nel vortice della storia che, sovrapponendosi al presente, mira a svuotare entrambi sabotando il fattore tempo. Gli uomini di Alptal, come già gli ammalati di Davos, aggirano i vincoli della quotidianità e con ciò differiscono il proprio stesso agire. Ma la Schwarzenbach apre uno spiraglio ben diverso. Francis accoglie in sé, come Castorp, la sofferenza – qualcosa di simile al pathei mathos greco è il leitmotiv di entrambe le scritture  – però l’insegnamento che ne trae gli serve per convincerlo a restare sulle montagne, non più sponda di una fuga ma luogo in cui azzerare le passate esperienze, rifondando lì un capitolo del proprio vivere.
Le figure femminili risultano a loro volta contaminate dall’incertezza degli eventi. Da una parte c’è Adrienne Vidal, la donna che, per quanto sia ancora giovane, ha ormai innalzato un muro insuperabile davanti alla disinvoltura della giovinezza. Sebbene ancora facoltosa non può più contare sulle risorse e le amicizie di un tempo; la maternità l’ha completamente cambiata, non ama più il padre del suo bambino ma ama quest’ultimo fino ad annullare se stessa, ed è malata. È qui che spunta il ricordo del sanatorio a Davos, primo e più importante simulacro manniano, dove la donna sarebbe stata ricoverata, non si capisce se per un male fisico o a causa di un esaurimento. L’autrice gioca volutamente su questa ambiguità che è un altro tassello essenziale dell’architettura narrativa. Sull’altro versante c’è la bella ma altrettanto tormentata, sebbene per motivi diversi, Esther von M. giovane moglie di un vecchio ebreo facoltoso. La donna ha contratto un matrimonio di convenienza per cavarsi dagli impicci economici, comprando una vita di agi ma anche noie e solitudini. Cerca amicizie e rapporti per puro senso di evasione, tuttavia non riesce a spingersi fino alle estreme conseguenze del suo essere in apparenza dissoluta, perché nell’intimo non vuole rinunciare al privilegio acquisito; non dispone di sufficiente coraggio a uscire dalla gabbia che si è scelta, soprattutto non ammette a se stessa che in fin dei conti ci sta anche comoda. Questo più di ogni altra cosa crea in lei un dissidio che non le consente di dare il giusto peso a quanto le ruota intorno. Anche Esther, come Adrienne, è senza centro. Ma diversamente da lei Adrienne decide di risolvere il suo conflitto interiore, seguendo il destino di Francis di cui è innamorata. L’amore assume qui un senso salvifico, di redenzione, non è il capriccio attuato da Esther né il morboso strumento nelle mani di Wirz, l’antiborghese che non sa adattarsi né alle convenzioni della pianura né a quelle della montagna e che coinvolge in una relazione soffocante e spasmodica il giovane Matthisel, con l’esito nefasto che inevitabilmente ne deriva.  
I silenzi del monte, il misterioso bagliore delle cime, della neve pulsante d’azzurro nel buio di sere invernali si alternano agli echi che vengono dalle città, vedute fotografate da treni-notte, stazioni umide e spoglie alle periferie delle metropoli e il ritmo ossessivo delle prime ronde che annunciano una sinistra scalata al potere: «Che cosa si era aspettato? Piccole e scure esistenze borghesi? Non ne era rimasto più nulla, tutti erano sballottati sul mare agitato dell’incertezza generale. E ovunque la parola “crisi”, usurata nel corso di tanti anni. Sembravano tutti, senza eccezione, aver puntato sul cavallo perdente, quello della vita borghese. Alcuni rimanevano fedeli all’idea che ogni cosa si sarebbe sistemata, e professavano un ottimismo liberale costantemente smentito dai fatti. Altri si erano rassegnati, erano preparati al peggio, altri ancora credevano, con disperata energia, in un radicale cambiamento. [Francis] divenne semplicemente silenzioso in mezzo alla frenesia generale. E come lui, molti altri divennero silenziosi; attendevano, accontentandosi di poco, scettici nei confronti della morale vacillante della storia. […] Furono settimane all’insegna di una resa dei conti impietosa e totale. Francis non si lasciò confondere nemmeno dal vuoto e fragoroso turbinio degli eventi che trascinava con sé la gente che viveva lì. A Berlino si ammassavano valanghe di eventi, che potevano staccarsi in qualsiasi momento per precipitare nel baratro. Nulla metteva radici».
Questo manoscritto che si dava per perduto ed è stato ritrovato in tempi recenti alla Biblioteca centrale di Zurigo da Roger Perret, curatore di molte delle opere della Schwarzenbach, parla di un tempo d’esilio, di un’avventura da emarginati che scuote in maniera trasversale gli appartenenti a diverse classi sociali. All’epoca della stesura la scrittrice era tornata in patria, dopo l’uscita dalla Germania dove soggiornava stabilmente dal ’31, dibattendosi come numerosi transfughi dell’Europa centrale in una condizione non facile a causa delle severe regole di permanenza – nonostante la sua origine svizzera incappò al pari degli altri negli attacchi mossi dalla stampa di estrema destra. La giovane letterata mostra non solo le pose di una narrativa matura ma anche la personalità per crearsi quegli spazi che le permetteranno di lì a poco di collaborare a importanti riviste come corrispondente dall’estero. Sopravvivenza e riscatto di una donna che seppe unire un talento precoce alla lucida interpretazione dei mondi che fatalmente si trovò ad attraversare.     


(Di Claudia Ciardi)


Edizione recensita

Annemarie Schwarzenbach, Fuga verso l’alto,
traduzione e postfazione di Tina D’Agostini,
Il Saggiatore, 2016



Tramonto su Cima Vezzena e Cimon della Pala



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