Tramonto sulle Orobie
Ognuno ha dentro di sé le sue
montagne. L’immagine è meno scontata di quanto sembri. Anche senza arrampicare,
ciascuno di noi nel corso della vita raccoglie delle sfide, coltiva sogni cercando
di realizzarli. E questo è un po’ affrontare una scalata, anche se fisicamente non si
va in vetta. Il che si presta anche a un’altra metafora, quella del mancato
raggiungimento della meta. Bello è il viaggio, lo abbiamo imparato navigando
con Ulisse. A volte si fa naufragio, altre ci si distanzia così tanto
dall’obiettivo che crediamo di esserci smarriti. Eppure in nessun modo perdiamo
qualcosa. Dai pericoli, che l’etimo latino ci dice sono prove, dal confronto
con luoghi e persone lontani dai nostri spazi abituali s’impara sempre, scoprendo aspetti di noi che non conoscevamo o che magari avevamo messo in soffitta.
In queste settimane ho letto i due più bei libri sull’alpinismo che credo siano stati scritti in Italia nell’ultimo biennio: Il fuoco e il gelo di Enrico Camanni, edito da Laterza, che avevo iniziato a sfogliare sui tavoli del San Marco a Trieste, subito dopo averlo scovato nella libreria del caffè, e In cordata, scritto a quattro mani da Mario Curnis e Simone Moro, inaspettato regalo di qualche tempo fa.
Camanni ripercorre quella parte di storia alpina attraversata dalla mattanza della prima guerra mondiale, che se da un lato inaugura la fase moderna dell’esplorazione di montagna, celebrando il gesto atletico di coloro che osarono spingersi alla conquista dell’impossibile, dall’altro resta segnata in maniera indelebile dalla tragicità epica dell’evento. Quei giovanissimi, costretti a tenere la posizione su un fronte che aveva del surreale, dove ci si poteva perfino dimenticare del nemico, esattamente come gli uomini della Fortezza Bastiani nel Deserto dei Tartari, furono protagonisti di imprese gigantesche per forza fisica, adattamento, resistenza. Allorché il terreno di scontro s’infiammava, volendo sopravvivere, servivano il doppio dei nervi saldi e una fortuna sfacciata. L’autore ricostruisce numerosi di questi episodi, affiancandoli alle biografie dei loro silenziosi protagonisti, al centro di alcune tra le pagine più sconvolgenti con cui si inaugura il Novecento e forse, senza la preziosa ricognizione di Camanni, anche misconosciute. Sopra i tremila si tirava a campare, ogni tanto si sparava, più spesso si moriva.
In queste settimane ho letto i due più bei libri sull’alpinismo che credo siano stati scritti in Italia nell’ultimo biennio: Il fuoco e il gelo di Enrico Camanni, edito da Laterza, che avevo iniziato a sfogliare sui tavoli del San Marco a Trieste, subito dopo averlo scovato nella libreria del caffè, e In cordata, scritto a quattro mani da Mario Curnis e Simone Moro, inaspettato regalo di qualche tempo fa.
Camanni ripercorre quella parte di storia alpina attraversata dalla mattanza della prima guerra mondiale, che se da un lato inaugura la fase moderna dell’esplorazione di montagna, celebrando il gesto atletico di coloro che osarono spingersi alla conquista dell’impossibile, dall’altro resta segnata in maniera indelebile dalla tragicità epica dell’evento. Quei giovanissimi, costretti a tenere la posizione su un fronte che aveva del surreale, dove ci si poteva perfino dimenticare del nemico, esattamente come gli uomini della Fortezza Bastiani nel Deserto dei Tartari, furono protagonisti di imprese gigantesche per forza fisica, adattamento, resistenza. Allorché il terreno di scontro s’infiammava, volendo sopravvivere, servivano il doppio dei nervi saldi e una fortuna sfacciata. L’autore ricostruisce numerosi di questi episodi, affiancandoli alle biografie dei loro silenziosi protagonisti, al centro di alcune tra le pagine più sconvolgenti con cui si inaugura il Novecento e forse, senza la preziosa ricognizione di Camanni, anche misconosciute. Sopra i tremila si tirava a campare, ogni tanto si sparava, più spesso si moriva.
E poi ci sono le descrizioni
dell’ambiente d’alta quota, autentici frammenti di poesia che la mano del
giornalista cuce attorno ai fatti alternando plasticità a leggerezza minimale. Se
Camanni stempera i registri dello storico ambientalista con altri più
evidentemente letterari, a rifilare le narrazioni di Curnis e Moro pensa Angelo
Ponta, già curatore dei volumi di Walter Bonatti, per un effetto del tutto
simile. I ritmi serrati della cronaca incrociano cadenze a tratti più
distese, addirittura assorte in un
purismo descrittivo che la montagna coi suoi silenzi e il colpo d’occhio
abbacinante dilata all’inverosimile. A essere sincera, mi sono decisa a leggere
questi libri, non tanto per acquisire informazioni tecniche su come si porta a
termine una scalata, ma con il proposito di trarvi quello spirito di avventura che
ognuno di noi dovrebbe portare con sé, sempre, al di là che faccia cose estreme
o meno. E qui si torna alla riflessione iniziale. Affrontare la quotidianità somiglia per certi versi ad aprire una via in parete. Se non riesci, il
problema è tuo, non ci hai creduto abbastanza, non te lo sentivi quel tanto da
spingerti su. Ma c’è anche un’altra considerazione, non meno rilevante, che
accomuna questi due volumi. Chi si racconta prende le mosse da un’analisi della
nostra epoca, affrettata, spesso avventata ma nel senso più deleterio del
termine, senza slancio, semmai smaniosa di dimostrare a se stessa qualcosa per
occultare le proprie sconvenienti, aride solitudini. Quando si vedono salire in baita giovani coppie arrivate lì non a
piedi ma in Suv, il cui unico argomento di conversazione è l’efficienza o meno del navigatore, e che guardano di continuo l’orologio perché di andare per sentieri non se ne parla nemmeno, al massimo si
sta lì un paio d’ore a bere il birrozzo, lamentarsi della crisi economica, e
poi si torna giù col quattro per quattro, perché la sera c’è la partita da
guardare incastrati tra divano e televisione, si capisce che qualcosa nella cultura dei singoli ha fatto cortocircuito. Si dà meno importanza all’idea
conviviale dello stare insieme, il tempo dedicato allo svago è percepito come
perso, quasi un furto ai danni della martellante tabella di marcia che ci vuole
sempre al pezzo; la condivisione delle proprie esperienze suscita imbarazzo, in
molti casi perché queste semplicemente non sussistono – parlo dei più giovani
che hanno carenze simili non solo per ragioni anagrafiche ma più ancora per
pigrizia mentale. Gli autori non ne parlano con intento moralista, e tuttavia facendo
entrare nel loro discorso temi di questo tipo, creano nel lettore l’esigenza di
porsi delle domande.
Prima che storie di montagna sono,
dunque, storie di vita. Perché legarsi e salire insegnano a essere uomini, cosa
che Mario Curnis, quasi con disarmante ovvietà, non fa che ripetere nelle sue
memorie, avendo assunto questa convinzione a pietra angolare della propria
esistenza. E, dico la verità, il libro sulla
cordata di due grandi che hanno saputo cementare un’amicizia umana e sportiva
su cui in pochi avrebbero scommesso, data la differenza generazionale, l’avevo
desiderato più che altro per stringere tra le mani una testimonianza di Curnis, la
leggenda. Senza nulla togliere a Simone Moro, ero curiosa di sentire
cosa avesse da dire un signore vecchio stampo, che non ha voluto fare
dell’alpinismo un affare. Devo ammettere, però, che nel corso della lettura
Simone mi ha piacevolmente spiazzata. La sua voce si amalgama alla perfezione
con quella di Curnis. Entrambi si completano in un modo che permette a chi
legge di percepire tutto il loro affiatamento. Di Simone ho apprezzato
moltissimo l’umiltà con cui racconta di essersi avvicinato alla montagna,
restando umile anche dopo, quando ha raggiunto il successo, avviandosi con
sicurezza verso il professionismo. Un riconoscimento che tuttavia stentava,
anche a causa di malignità gratuite sulle
quali Simone nel narrare il suo percorso non indugia, e basterebbe già questo a renderlo grande. Eppure, di nuovo, ci sprona alla
riflessione. Ci si chiede come mai il parere – bisognerebbe dire pregiudizio –
di certi soggetti che si sono fatti un nome più che per meriti personali
per politica, e in tempi lontani, quando le cose anche politicamente si
organizzavano in modo assai diverso, sia in grado di gettare un influsso così
negativo sugli inizi di una persona, ritardandola, mettendola in cattiva luce,
emarginandola, quando il giochino della provocazione con cui la si sarebbe voluta fiaccare ha ormai esaurito le
batterie. Una cosa che purtroppo non vale soltanto nell’alpinismo, anzi; quello
delle diffide, dei quartierini, delle contrade l’une contro l’altre armate è un
malcostume molto esteso in Italia.
Di Mario Curnis si resta
affascinati dalla coerenza, l’onestà, la schiettezza. Un grande uomo, prima che
uno dei più forti alpinisti di tutti i tempi. Volontà da vendere,
severa, intransigente anche verso se stesso. Ma la tempra di Mario, quella che
gli ha permesso di arrivare dove è arrivato, sta proprio tutta qui. Se chi
sfoglia i suoi ricordi non può trattenersi da dire “però peccato, uno con un
talento così, rovinarsi per via del carattere”, ecco se uno deve fare un commento
di questo tipo, lasci perdere la storia di Mario, che col calcolo e le furberie
non c’entra nulla. Non vada neppure avanti, lo rispetti e basta. Davanti a un
uomo che a sessantatré anni sfida e raggiunge tre vette da settemila metri
nell’ex Unione Sovietica (spedizione Snow
Leopard del 1999), l’anno dopo si cimenta nella traversata delle Orobie, e
a sessantasei anni conquista finalmente l’Everest, salendo senza ossigeno e in
un tempo record sulla montagna che gli era stata ingiustamente negata per ruggini
personali con Guido Monzino, l’organizzatore della missione del ’73, insomma davanti a un gigante è preferibile restare in silenzio. Merito di
Simone Moro è averci creduto, aver superato una volta di più i pregiudizi di
chi, scuotendo la testa, scommetteva sul fallimento di quelle avventure a causa
dell’età avanzata di Mario. Ma quando uno ha un fisico fuori dal comune, e una
mente in grado di dirgli con lucidità quando è il caso di spingere e quando di
rinunciare, hai voglia a prendere in giro. In base alla mia opinione da profana, visto che in montagna mi limito all’escursionismo, dove però me la
sono cavata finora molto bene essendo una camminatrice infaticabile a dispetto
del mio fisico minuto, l’avventura che mi ha colpito in maggior misura è stata
proprio quella sulle Orobie, le cento montagne, un filamento roccioso che
corre lungo tutta la bergamasca. Nel settembre del 2000, Simone e
Mario, due funamboli a un passo dal cielo, hanno completato il percorso in
tredici giorni, prima volta nella storia dell’alpinismo. Mi auguro che abbiano
voglia di tornare a scriverne qualcosa, perché trovo che questa traversata
abbia una specificità poetica tutta sua, una danza di eremiti di rara bellezza, che poter ripercorrere nei suoi movimenti insieme a chi l’ha eseguita
sarebbe un dono incredibile.
L’altra immagine, di cui sono
grata a Simone per avercela consegnata, è quella di Mario compagno di tenda di Andrei
Molotov durante lo Snow Leopard del ’99. Per quanto non potessero intendersi, essendo l’italiano la sola lingua di
riferimento di Mario, ma un italiano che abusa volentieri del bergamasco,
ebbene i due la sera in tenda avevano una “conversazione”, tanto che si
sentivano esplodere in continue risate. E la loro piena sintonia proseguiva poi
nel lavoro giornaliero di scalata. Simili schegge di poesia meritano il
rischio, la fatica e i sacrifici che la scelta di andare in parete comportano.
Ma a proposito di sacrifici,
questa è anche una storia di donne. Le compagne altrettanto straordinarie di
questi avventurieri chiosano il racconto con due memorie molto intense. Chi
rimane a casa ha quasi più coraggio di chi parte. Le donne qui sanno essere
pazienti, non far pesare troppo le loro preoccupazioni, insomma sanno
aspettare, un’altra cosa che la femmina tecnologica, ultra emancipata, ma alla
fin fine invece solo soccombente agli stereotipi che ha continuato a farsi
appiccicare addosso, non è proprio in grado di concedersi. Il tempo
dell’attesa. E con questo non intendo lo stare ferme a casa, finché l’uomo si
decide a tornare – la donna dovrebbe però capire che non può lanciarsi sempre
all’inseguimento, ognuno bisogna che abbia i suoi spazi; mi riferisco
appunto alla capacità femminile di crearsi degli interessi propri, non
dipendenti dal partner né tantomeno cuciti
sulla sua persona. Non è facile, però l’affiatamento di una coppia passa anche
e soprattutto da queste cose. Oltre che da un po’ meno tentennamenti maschili,
certo. Questioni che sembrano elementari, e tuttavia al giorno d’oggi ci
sfuggono in maniera clamorosa. Di nuovo, l’alpinismo è scuola di vita.
Il temperamento deciso, la grande
forza di carattere che traspare dalla scrittura di Barbara Zwerger, moglie di
Moro, dice moltissimo sulla capacità di essere moglie di un personaggio che sta
sotto i riflettori senza però concedere nulla di quelli che sono gli spazi
privati, senza svendersi insomma agli opportunismi del marketing. Lo stesso vale anche per Rosanna Giudici, la moglie di
Curnis, la quale anzi è stata costretta ad affrontare certe situazioni
aggrappandosi veramente alla sua sola tenacia che, è chiaro, ha trovato appigli
sempre nuovi nell’amore per Mario. La foto della coppia immortalata in gioventù
sulla cima della Presolana è secondo me emblematica. Lì Mario, molti anni dopo,
supererà una fase difficile, il fallimento della propria ditta di costruzioni,
una delle tante brutte storie di questa crisi fabbricata a tavolino, e la
malattia, che in maniera non casuale si è manifestata in concomitanza di quello
che per lui, abituato a ispirarsi a valori precisi, è stato un raggiro da
vigliacchi. Insomma è un po’ come se sulla Presolana fosse cominciato tutto, e quindi non poteva accadere altrove che Mario riprendesse lentamente a vivere.
Per quanto mi riguarda non provo simpatia per le persone che non sono disposte a rischiare nulla di se stesse.
E questo non significa buttarsi a capofitto in cose estreme, tutt’altro. Mi
riferisco a scelte, a volte un po’ radicali, che bisognerebbe avere
il coraggio di fare, anche a costo di perdere per strada qualche certezza; che
poi è solo illusione nostra quella di portarci le certezze nel taschino.
Nel caso delle donne tale contraddizione
purtroppo si esaspera terribilmente. Indietro sul cammino dell’indipendenza, ma
io preferisco chiamarla consapevolezza di sé, perché indipendenza non vuol dire
nulla o quasi, sono, siamo ancora prigioniere di troppi schemi e paure. Così si
finisce per interpretare molto male sia il ruolo di ragazze in carriera, sia
quello di angeli del focolare. Dai discorsi di Rosanna e Barbara, che con semplicità hanno tirato a diritto senza impantanarsi in tanti ridicoli dilemmi femminili, traspare con evidenza imbarazzante proprio questo insegnamento.
Lo definirei un libro pulito, nel
senso della chiarezza dei messaggi e per il fatto che i due narratori appunto
giocano pulito. Non si raccontano per le loro imprese ma si tengono sempre
qualche passo indietro. Eppure, se Simone Moro si mettesse a elencare tutti i
suoi primati, ne avrebbe di pagine da riempire. Qui, invece, sono gli uomini a
venirti incontro, con le loro debolezze, i loro fallimenti e le rinunce, tante,
che però in alcuni casi hanno contribuito a risparmiare vite umane, compresa la
propria. Senza strafare sono andati avanti nel rispetto della montagna, che
sente con che spirito vai e decide se lasciarti salire. Perché, come dice Mario
Curnis, l’uomo che sale è lo stesso che scende, non ha fatto nulla di più e
nulla di meno, è sempre lui. A cambiare è il bagaglio delle sue esperienze,
l’arricchimento interiore che può trarne, ma se pensa di essere diventato
qualcuno solo perché è arrivato in vetta, non ha capito nulla.
(Di Claudia Ciardi)
Mario Curnis, Simone Moro
In cordata. Storia di un'amicizia tra due generazioni da zero a ottomila metri
a cura di Angelo
Ponta,
Rizzoli, 2016
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