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16 marzo 2022

Isaac Levitan - Lo sguardo sul mondo

 


Se un giorno si ritrova la compiutezza della parola, l’intensità di un sentimento, il giorno dopo le perdiamo. È come se in questi tempi una mano lavorasse con ostinazione a sottrarci quel poco di buono che vorremmo preservare. In tutto ciò almeno guardare alla silenziosa bellezza, alla tenerezza dell’arte, infinite volte più dirompente della violenza.
Qualcosa su Isaac Levitan avrei voluto scriverlo da tanto, e sono ben felice che capiti ora. Perché ancor più adesso c’è bisogno di uno sguardo sul mondo.
La contrapposizione degli imperi è qualcosa di connaturato alla storia. Augusto contro l’idea di Antonio che voleva aprire all’oriente. Federico II, il tedesco innamorato del sud, che sognava il dialogo col Mediterraneo e il mondo arabo. Personalmente ho sempre tifato per quei progetti politici meno occidentalcentrici, un’affermazione che nel momento attuale suonerà eterodossa e faziosa, mentre dal mio punto di vista sarebbe la corsia preferenziale verso un mondo più pacificato. Quanto meno, alla luce dei miei studi di storia e antropologia culturale, le visioni ovunque più interessanti mi sono parse quelle più ampie, inclusive, meno irrigidite in schemi limitati e limitanti. Noi invece all’opera di cultura e di politica abbiamo sostituito un dettato economico posticcio, che ci ha affascinati perché prometteva di unire tutto e tutti in tempi rapidi – la globalizzazione come grande inglobatore che avrebbe sopito i conflitti. Abbiamo cioè innescato un processo inverso, che peraltro non si è innescato neppure compiutamente per quel che si immaginava. Ne abbiamo un riscontro, ad esempio, nelle enormi diseguaglianze che ha creato; un divario crescente in questi ultimi anni. Ossia abbiamo lasciato che la livellante chimera economica preparasse il terreno a mutue relazioni di potere e culturali. Anziché porci come artefici e interpreti di queste vie, che auspicabilmente avrebbero potuto essere molteplici e pluridirezionate, ci siamo trovati su un
unica strada, la stessa aperta ad ogni latitudine, i cui flussi sono stati egemonizzati dai mandanti economici detentori dell’infrastruttura. Di qui, una ricerca strumentalizzata ad ogni livello – senza il placet di certe intellighenzie funzionali al progetto di cui sopra è impossibile per alcuni, a parità di progetti, svolgere certe attività o trarre remunerazioni adeguate dal lavoro culturale. E un’arte quasi tutta allineata, non identitaria, non autentica, in ultimo molto poco creativa – e se non è questa la più grande defezione nelle cosiddette attività dello spirito, cos’altro può esservi…

Cosa resta oggi, dunque, dello sguardo sul mondo?
Da studiosa della grecità, affascinata dalle porte orientali, che ho imparato a schiudere sulle soglie elleniche e a cui ho continuato a bussare anche nelle mie frequentazioni del mondo tedesco – Federico II è una figura che dopo aver messo dieci volte sotto i propri piedi tutta la nostra insulsa globalità ancora avrebbe da dire la sua – ritengo che ben altre siano le proposte da considerare, se vogliamo veramente tirarci fuori dall’immanenza dei conflitti, dalla povertà di massa, dal continuo esodo dei profughi – perché nei grandi numeri, inutile nascondercelo, le tutele saltano inevitabilmente per tutti e ci si avvia solo a uno sconvolgente sradicamento collettivo senza protezioni.
Ho sentito in queste ore un intervento di Federico Rampini. In un’analisi tutto sommato condivisibile su certi aspetti della Russia putiniana portati all’attenzione – diversamente sembra infatti di aver scoperto solo negli ultimi giorni la mentalità di questa figura – mi ha creato qualche problema invece l’aver ascoltato, di nuovo, certo occidentalismo quale riflesso condizionato dei nostri discorsi. La considerazione era più o meno questa: la Russia è sempre stata rabbiosa e arretrata, perché mentre noi avevamo il Rinascimento, laggiù avveniva l’invasione dei Mongoli; non si è mai modernizzata.
Ecco, parlare così vuol dire non aver letto nemmeno due righe in croce di antropologia culturale. I fenomeni storici non sono l’uno il metro dell’altro. Vanno proporzionati alle singole aree, nelle quali determinano certi esiti. Ma ciò non significa che un cosa garantisca la superiorità di un’area geografica rispetto a un’altra. Piuttosto si può ragionare sensatamente di differenze marcate, e che i Russi siano qualcosa di differente è fuori di dubbio e nessuno si offende se lo si dice. Infine la lettura monolitica del fenomeno storico è insidiosa. Il periodo augusteo non fu per nulla fondato sulla pace assoluta, il Rinascimento non è stato solo un’epoca di splendori. Ogni fase ha le sue polarità, i suoi dissidi, perché alle sue radici vi sono appunto gli esseri umani.
Allora, proprio per riconciliarci con l’umano, nell’auspicio di tornare a osservare le cose dentro e fuori di noi in assenza di filtri indotti che stanno perfino rasentando l’autocensura, desidero tratteggiate brevemente la vita di un pittore che incarna la voglia di riscattarsi coltivando il proprio talento, la curiosità per l’altro, nel doppio senso di luogo e persona, la volontà di entrare in contatto e assimilare il più possibile, senza tuttavia smarrire le proprie origini, ma nell’incontro affinarle e accrescerle.
Isaac Levitan (1860-1900), ebreo lituano, nato in una famiglia povera di Kibartai, ha avuto in sorte un cognome che sembra un epiteto, “levitante”, il che in effetti rispecchia alcune caratteristiche della sua pittura, la levità dei cieli, la struggente labilità delle nuvole. A proposito di uno dei suoi lavori più conosciuti, Il lago Rus (1900), ebbe a dire che il cielo era più di uno sfondo. Qui le nuvole non solo fluttuano, si stanno avvicinando, ma sembrano andare oltre il quadro.
Uno sguardo che s’innalza, di cui alcune sue incredibili vedute aeree sono la più eclatante rappresentazione. Si pensi allo straordinario Sopra l’eterna pace (1894), dove ci si sente sospesi a mezz’aria e in quella dimensione onnipotenti, capaci di abbracciare tutte le direzioni ed esserne compenetrati. Considerato tra i maggiori paesaggisti del XIX secolo in Russia, compì la sua educazione alla scuola di pittura e scultura moscovita con Savrasov e Polenov. Iniziò la sua esperienza artistica come uno dei cosiddetti “artisti ambulanti” (peredvižniki), più tardi esponendo alla mostra del “Mir Iskusstva” (Mondo dell’arte), movimento di rinnovamento artistico il cui capofila era Sergej Diaghilev.
Sulla sua formazione incisero i viaggi, dapprima nella Russia profonda, poi in Crimea, quindi lungo il corso del Volga (1886). Fu poi la volta dell’esplorazione del vecchio continente, quando tra il 1890 e il 1897 percorse la Finlandia e la Mitteleuropa, per poi raggiungere l’Italia. Folgorato dalle Alpi Marittime soggiornò sia nelle valli italiane che in quelle francesi, spingendosi infine in Provenza. Non si può non rilevare come per lui l’incontro con la nostra penisola anziché privilegiare le capitali culturali, abbia preso la svolta dell’immersione in natura. Nonostante si fosse concesso Venezia e Firenze, come già anche Berlino e Parigi, la maggior parte dei suoi ripetuti soggiorni fu consacrato alla natura. Sotto l’influsso dei maestri di Barbizon, per lui tra i modelli più importanti, diede le spalle alla civiltà scegliendo una prospettiva del tutto fuori centro, i borghi alpini, l’impenetrabile assoluto della montagna, e ancora il ponente ligure, con le vibrazioni cromatiche sulla costa di Bordighera e la vicina Nizza, crocevia di tanti artisti alla fine dell’Ottocento e buen retiro per molti talenti dell’impero russo.
Autore di più di quattrocento opere, Isaac Levitan è stato in pittura un poeta dell’intimo, che nei suoi sconfinamenti spazio-temporali ha sempre saputo raccogliersi e ovunque raccogliere indizi per questa sua delicatissima cadenza.


(Di Claudia Ciardi)

 

Link:

Isaac Levitan / Tretyakovgallerymagazine / Russian-English

Arkhip Kuindzhi

Federico II. Lo stupor mundi - La Sicilia capitale morale del Mediterraneo

(Il sottotitolo potrebbe essere: antidoti di storia contro la presunzione che il nostro angolino sia superiore a ogni altro punto della sfera terrestre)

 

* In copertina: Isaac Levitan, Alpi, 1897  


Primavera in Italia, 1890



Sopra l'eterna pace, 1894



Nuvole, 1895



Izba, 1899

 
 

 Crepuscolo, 1899
 

28 ottobre 2021

In ogni filo d'erba

 

A Hugo von Hofmannsthal e al Cimitero marino di Paul Valéry

* Per la rubrica «Calligrammi»



Giorgio de Chirico - Piazza d'Italia, 1924 -
Pinacoteca di Savona – Fotografia di Claudia Ciardi © 2018


Sopra un tavolino davanti a un finestra aperta c’erano dei fogli sparsi, forse i suoi ultimi appunti. Un gabbiano, quasi sfiorandole il capo, la desta da quella strana condizione di dormiveglia. Ma era accaduto in sogno o nella realtà a cui era stata appena restituita? Le tornò in mente qualcosa, un frammento di ricordo, troppo labile per lasciarsi decifrare, uguale al volo che l’aveva sorpresa. Fu come aprire un cassetto e sentirsi intorno l’aroma del legno mischiato a chissà quale fragranza del tempo che voleva trascinare via. Poi quell’impressione scomparve o solo perse d’importanza nel suo ragionare, mentre erano altri brandelli d’incerte fantasie a pulsare e risalire dentro quell’insano stato in cui si sentiva come venir meno. Ne aveva perfino paura ma provava anche un’equivoca tenerezza man mano che era sommersa. Il suo sguardo si era richiuso su alcune frasi di Hofmannsthal, la sua fiaba della donna senz’ombra, e da lì facilmente si era lasciato andare. “Questo scrittore mi legge dentro”, lo pensò per tutto il tempo che lo tenne fra le mani, “è come se agitasse uno specchio davanti a me”. Una sensualità destinata a disarmare, a ricadere nelle forme di una frastornante dolcezza in cui ci si smarrisce volentieri. Ebbe più volte la netta sensazione che fosse una presenza in carne e ossa né sarebbe rimasta confinata lì tra quelle pagine.
Quando poco dopo seppe che era uscito del fumo da un tetto là vicino, restò incredula. “È stato come toccarsi”, pensò ancora tra sé in uno stato di parziale incoscienza. Gli venne spontaneo, quasi parlasse a qualcuno. Lo stesso episodio si ripresentò poi nell’aspetto di una fiamma, imprevista si alzò fra le spire di un altro sogno. Era un fuoco basso, controllabile, che non cresceva né camminava. Restava lì in un angolo della stanza, ma proprio il suo scaturire improvviso l’aveva spaventata. Lo percepiva come una personificazione. Avvertiva in ciò l’inquietudine di un cercarsi che prorompeva per l’appunto in strane fantasie, che due esistenze sconosciute sfioravano, nelle vaghe somiglianze di cose comuni che sembravano a quel modo disporsi fra loro. Pensava a un’occasione in cui avrebbe recitato volentieri un paio di strofe dell’Achmatova, perché in quell’anno le forze del mondo erano esauste come in una poesia che ora insistentemente le risuonava dentro. Ma sarebbe potuto succedere anche in modo diverso, anche senza poesia. Già in quel muto richiamo dalla lontananza era un canto in cui germogliava la comune radice di giorni prescelti.

Che quello che s’immagina sicuro possa divenire sommamente incerto fino a rinnegarsi, che in cose che sembrano tranquille e sempre identiche a se stesse nasca un imprevisto tanto da sovvertirle. Lo aveva sperimentato abbastanza spesso nella sua vita. Il fatto che ora simili rovesciamenti la investissero con frequenza sempre maggiore non la lasciava indifferente. Erano tempi così e nel dissidio dei tempi si sollevavano onde d
indeterminatezza ma anche momenti di assoluta concentrazione. In simili condizioni è difficile anche solo riconoscersi una volta. Eppure accadeva e quando accadeva era tutta in se stessa. Sentiva spalancarsi la vita, esattamente dove l’aveva attesa.

I gabbiani la sera risalgono il fiume, gridano sopra i cortili dei paesi dove il sole è ormai tramontato, son distanti dal mare. Tante volte camminando insieme per strada, per piazze e quartieri solitari si erano detti che era strano, che quel sonno ininterrotto e forzato dei luoghi somigliava a certi quadri, e de Chirico soprattutto aveva intuito ogni cosa. Molto di quello che era cominciato anni addietro, ciò che credevano lontano, irreale era giunto infine alle soglie della loro vita. Si erano illusi che non sarebbe capitato nulla, eppure di recente sempre meno illusi, e ovunque i loro passi calpestavano perdite e vuoto. Mentre s’interrogavano su cosa si stesse preparando, senza avvedersene erano sempre più prigionieri. Per due anni le stagioni si erano schiuse su di loro, prede in un’invisibile rete. Aspettavano senza confidare in nulla, scossi, divelti, confusi, pure lentamente accoglievano in sé una consapevolezza che prima non avevano.
Uno di quei giorni una donna venne alla sua porta. Le annunciò la perdita del padre, un uomo di quasi cent’anni che fino all’ultimo si era conservato lucido, elegante, sereno, per nulla toccato dalle paure dell’epidemia. Diverse volte dallo studio aveva posato gli occhi su quell’uomo. Si era costruito la sua casa, era ben piantato in tutto, negli affetti, nelle sue convinzioni, una bonaria fierezza gli scorreva nelle vene; vederlo o immaginarlo in quella serenità guadagnata a testa alta, le dava calma. Pensò, guarda com’è estrema questa donna nel suo dolore, vibra in ogni parte del corpo. Il padre le ha lasciato questo, essere la creatura più vivida e sincera anche nel momento più cupo del distacco. Ed è bella così, proprio perché è tutta di quel dolore e non lo nasconde. L’estrema verità che affiora in lei l’hai qui davanti, eppure non la fa soccombere, la cinge anzi di un’incrollabile compostezza. Guardala, osserva bene il dono che ti fa mostrando intera a te soltanto la sua sofferenza. È nel mezzo di una tempesta e ha scelto te per rivelarla.
Una tale intima condivisione della scomparsa l’aveva avuta di rado. E ultimamente più che altrove visitando il vecchio cimitero di Sanremo. Dietro una spiaggia da cui arrivavano le calde voci della vita, decine di sepolture stavano quasi dimenticate. I rampicanti avevano abbracciato le lapidi, pietre mutile adagiate sul terreno dov’era a malapena leggibile un nome o da cui un ritratto sembrava invocare la sosta nel passante. “Quanta promiscuità di tombe cattoliche, ebraiche, ortodosse. Questi nomi d’inglesi, tedeschi, russi rimandano a una vita piena, anche in un simile abbandono si fa avanti o forse è proprio perché giace in tanta trascuratezza che si avverte più vicina”, lo disse piano fra sé, come una preghiera, mentre si aggirava fra i viali. Nella selva di croci, incisioni, fiori c’era un sepolcro piuttosto grande. Al centro della bianca pietra una fotografia guardava il visitatore alla sua stessa altezza. Era il ritratto di una giovane donna, i neri capelli ondulati, gli occhi neri luminosi, se ne stava lì di tre quarti un po’ trasognata, bellissima. Uno scatto di una modernità imbarazzante, “immagine di un attimo fa”, pensò, ma era quasi passato un secolo da quella morte e ancor più da quell’istantanea di giovinezza. Eppure a chi osservava il disco rotondo che porgeva quel volto sembrava di cogliere un tempo fermo, e voleva solo restare nell’incantesimo. Le parve di intuire la quotidianità di quell’esistenza, il suo essere fisico e spirituale, il suo esser lì un istante in quella fotografia e fuori da lì, il suo essere sempre stata, e attraverso lei anche tutto il luogo entrò infine in risonanza.

Stanotte, nell
ora del piacere, una libellula è scesa dentro la lucerna. Si è lasciata trovare al mattino nel piatto dove a lungo la fiamma è arsa, un fossile imprigionato nella cera. Avrà lottato per salvarsi? L’idea di questo fragile essere sopraffatto senza un lamento, senza uno spasmo, metteva malinconia. Giù in strada le passa davanti un’anziana. Ha lo stesso odore di basilico attaccato ai vestiti che aveva sua nonna quando usciva dall’orto, è la prima cosa che le fa venire in mente. L’orizzonte è limpido e c’è un’aria tesa che scivola giù dalla collina. Sembra di stare davanti ai cancelli del cielo. E le chiome delle palme si scuotono come un saluto di naufraghi. Immaginare di far naufragio in questa luce, andare incontro a qualcuno così in una chiara giornata di sole e di vento, da qualche parte su un lastricato deserto, recitare dei versi o cantare in uno dei nostri dialetti. Quando un nome resta tra le dita, capita di sentire a momenti il suo esserci come acqua come spettro nelle vie del mondo, nel suo inesorabile sussulto, in ogni filo d’erba. Potrebbe quel nome farsi largo per poco, bagliore o riflesso, dal nulla apparire una sera quando tutte le piante tremano nei giardini. E vagare così, senza cenno, senza volto, respirare l’ombra, il silenzio, ricordare anche l’erba che calpesta, e a questo pensiero tremare, poi farsi radice e foglia.


(Di Claudia Ciardi)


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