Se
un giorno si ritrova la compiutezza della parola, l’intensità di un sentimento, il
giorno dopo le perdiamo. È come se in questi tempi una mano lavorasse con
ostinazione a sottrarci quel poco di buono che vorremmo preservare. In tutto ciò almeno guardare alla silenziosa bellezza, alla tenerezza dell’arte,
infinite volte più dirompente della violenza.
Qualcosa
su Isaac Levitan avrei voluto scriverlo da tanto, e sono ben felice che capiti
ora. Perché ancor più adesso c’è bisogno di uno sguardo sul mondo.
La
contrapposizione degli imperi è qualcosa di connaturato alla storia. Augusto
contro l’idea di Antonio che voleva aprire all’oriente. Federico II, il tedesco
innamorato del sud, che sognava il dialogo col Mediterraneo e il mondo arabo.
Personalmente ho sempre tifato per quei progetti politici meno
occidentalcentrici, un’affermazione che nel momento attuale suonerà eterodossa
e faziosa, mentre dal mio punto di vista sarebbe la corsia preferenziale verso
un mondo più pacificato. Quanto meno, alla luce dei miei studi di storia e
antropologia culturale, le visioni ovunque più interessanti mi sono parse
quelle più ampie, inclusive, meno irrigidite in schemi limitati e limitanti.
Noi invece all’opera di cultura e di politica abbiamo sostituito un dettato
economico posticcio, che ci ha affascinati perché prometteva di unire tutto e
tutti in tempi rapidi – la globalizzazione come grande inglobatore che avrebbe
sopito i conflitti. Abbiamo cioè innescato un processo inverso, che peraltro
non si è innescato neppure compiutamente per quel che si immaginava. Ne abbiamo
un riscontro, ad esempio, nelle enormi diseguaglianze che ha creato; un divario
crescente in questi ultimi anni. Ossia abbiamo lasciato che la livellante
chimera economica preparasse il terreno a mutue relazioni di potere e
culturali. Anziché porci come artefici e interpreti di queste vie, che
auspicabilmente avrebbero potuto essere molteplici e pluridirezionate, ci siamo
trovati su un’unica strada, la stessa aperta ad ogni latitudine, i cui flussi
sono stati egemonizzati dai mandanti economici detentori dell’infrastruttura.
Di qui, una ricerca strumentalizzata ad ogni livello – senza il placet di certe intellighenzie funzionali
al progetto di cui sopra è impossibile per alcuni, a parità di progetti,
svolgere certe attività o trarre remunerazioni adeguate dal lavoro culturale. E
un’arte quasi tutta allineata, non identitaria, non autentica, in ultimo molto poco
creativa – e se non è questa la più grande defezione nelle cosiddette attività
dello spirito, cos’altro può esservi…
Cosa
resta oggi, dunque, dello sguardo sul mondo?
Da
studiosa della grecità, affascinata dalle porte orientali, che ho imparato a
schiudere sulle soglie elleniche e a cui ho continuato a bussare anche nelle
mie frequentazioni del mondo tedesco – Federico II è una figura che dopo aver
messo dieci volte sotto i propri piedi tutta la nostra insulsa globalità ancora
avrebbe da dire la sua – ritengo che ben altre siano le proposte da considerare,
se vogliamo veramente tirarci fuori dall’immanenza dei conflitti, dalla povertà
di massa, dal continuo esodo dei profughi – perché nei grandi numeri, inutile
nascondercelo, le tutele saltano inevitabilmente per tutti e ci si avvia solo a
uno sconvolgente sradicamento collettivo senza protezioni.
Ho sentito in queste ore un intervento di Federico Rampini. In un’analisi tutto
sommato condivisibile su certi aspetti della Russia putiniana portati
all’attenzione – diversamente sembra infatti di aver scoperto solo negli ultimi
giorni la mentalità di questa figura – mi ha creato qualche problema invece l’aver ascoltato, di nuovo, certo occidentalismo quale riflesso condizionato dei nostri
discorsi. La considerazione era più o meno questa: la Russia è sempre stata
rabbiosa e arretrata, perché mentre noi avevamo il Rinascimento, laggiù
avveniva l’invasione dei Mongoli; non si è mai modernizzata.
Ecco,
parlare così vuol dire non aver letto nemmeno due righe in croce di
antropologia culturale. I fenomeni storici non sono l’uno il metro dell’altro. Vanno proporzionati alle singole aree, nelle quali determinano certi esiti. Ma ciò non
significa che un cosa garantisca la superiorità di un’area geografica rispetto
a un’altra. Piuttosto si può ragionare sensatamente di differenze marcate, e
che i Russi siano qualcosa di differente è fuori di dubbio e nessuno si offende
se lo si dice. Infine la lettura monolitica del fenomeno storico è insidiosa.
Il periodo augusteo non fu per nulla fondato sulla pace assoluta, il
Rinascimento non è stato solo un’epoca di splendori. Ogni fase ha le sue
polarità, i suoi dissidi, perché alle sue radici vi sono appunto gli esseri
umani.
Allora,
proprio per riconciliarci con l’umano, nell’auspicio di tornare a osservare le
cose dentro e fuori di noi in assenza di filtri indotti che stanno perfino rasentando
l’autocensura, desidero tratteggiate brevemente la vita di un pittore che
incarna la voglia di riscattarsi coltivando il proprio
talento, la curiosità per l’altro, nel doppio senso di luogo e persona, la volontà di entrare in contatto e assimilare il più possibile, senza tuttavia
smarrire le proprie origini, ma nell’incontro affinarle e accrescerle.
Isaac
Levitan (1860-1900), ebreo lituano, nato in una famiglia povera di Kibartai, ha
avuto in sorte un cognome che sembra un epiteto, “levitante”, il che in effetti
rispecchia alcune caratteristiche della sua pittura, la levità dei cieli, la struggente
labilità delle nuvole. A proposito di uno dei suoi lavori più conosciuti, Il
lago Rus (1900), ebbe a dire che il cielo era più di uno sfondo. Qui le
nuvole non solo fluttuano, si stanno avvicinando, ma sembrano andare oltre il
quadro.
Uno
sguardo che s’innalza, di cui alcune sue incredibili vedute aeree sono la più
eclatante rappresentazione. Si pensi allo straordinario Sopra l’eterna pace (1894),
dove ci si sente sospesi a mezz’aria e in quella dimensione onnipotenti, capaci
di abbracciare tutte le direzioni ed esserne compenetrati. Considerato tra i
maggiori paesaggisti del XIX secolo in Russia, compì la sua educazione alla scuola di pittura e scultura moscovita con Savrasov e Polenov. Iniziò
la sua esperienza artistica come uno dei cosiddetti “artisti ambulanti”
(peredvižniki), più tardi esponendo alla mostra del “Mir Iskusstva” (Mondo dell’arte),
movimento di rinnovamento artistico il cui capofila era Sergej Diaghilev.
Sulla
sua formazione incisero i viaggi, dapprima nella Russia profonda, poi in Crimea,
quindi lungo il corso del Volga (1886). Fu poi la volta dell’esplorazione del
vecchio continente, quando tra il 1890 e il 1897 percorse la Finlandia e la
Mitteleuropa, per poi raggiungere l’Italia. Folgorato dalle Alpi Marittime
soggiornò sia nelle valli italiane che in quelle francesi, spingendosi infine
in Provenza. Non si può non rilevare come per lui l’incontro con la nostra
penisola anziché privilegiare le capitali culturali, abbia preso la svolta dell’immersione
in natura. Nonostante si fosse concesso Venezia e Firenze, come già anche Berlino e
Parigi, la maggior parte dei suoi ripetuti soggiorni fu consacrato alla
natura. Sotto l’influsso dei maestri di Barbizon, per lui tra i modelli più
importanti, diede le spalle alla civiltà scegliendo una prospettiva del tutto
fuori centro, i borghi alpini, l’impenetrabile assoluto della montagna, e ancora
il ponente ligure, con le vibrazioni cromatiche sulla costa di Bordighera e la vicina Nizza,
crocevia di tanti artisti alla fine dell’Ottocento e buen retiro per molti
talenti dell’impero russo.
Autore
di più di quattrocento opere, Isaac Levitan è stato in pittura un poeta dell’intimo,
che nei suoi sconfinamenti spazio-temporali ha sempre saputo raccogliersi e ovunque
raccogliere indizi per questa sua delicatissima cadenza.
(Di Claudia Ciardi)
Link:
Isaac Levitan / Tretyakovgallerymagazine / Russian-English
Federico II. Lo stupor mundi - La Sicilia capitale morale del Mediterraneo
(Il
sottotitolo potrebbe essere: antidoti di storia contro la presunzione che il
nostro angolino sia superiore a ogni altro punto della sfera terrestre)
* In copertina: Isaac Levitan, Alpi, 1897
Primavera in Italia, 1890
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