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28 gennaio 2022

Sapienza e sentimenti incisi

 

Max Klinger, Raub des Lichtes, acquaforte, 1890-1893


Proseguono i dialoghi sull’antico insieme ad Alessia Rovina, che condivide qui con noi i frutti di alcune giornate di studio nell’ambito di un Workshop internazionale organizzato dall’Alma Mater Studiorum di Bologna, capofila del progetto “Encode”/Papirology for non-specialists, il cui archivio web la nostra collaboratrice suggerisce di raggiungere.
Questo discorso sul
γράφος, sul segno inciso, è qualcosa che riempie di commozione. Perché si sta di fronte a una parola che stringe un patto con lo spazio, che letteralmente si fa materia, memoria che s’incarna. La scrittura espone se stessa e chiama il viandante, è arte che si fonde con la mano che ha scritto, con la mano che ha scolpito, maestria di un lapicida che dà rappresentazione a un mondo intero. Orazio asseriva che l’opera poetica, dunque il libro, fosse qualcosa di più durevole di un monumento (exegi monumentum aere perennius), ma è pur vero che la scrittura affidata alla pietra ha mostrato una straordinaria longevità. E ce lo spiega molto bene la nostra studiosa nel suo articolato contributo, citando proprio alcune delle più sorprendenti campagne archeologiche grazie alle quali si sono riportati alla luce imprescindibili documenti.
Non mi sembra di ripeterlo abbastanza. L’entusiasmo dei più giovani per le lingue classiche, per le culture antiche, ossia per un tipo di studio che può sembrare completamente svincolato dai nostri tempi, dalle cadenze affrettate che ovunque ci vengono imposte, è un dono. Ascoltarlo da loro, sentirselo raccontare un enorme privilegio. Addentrarsi nel mondo antico richiede un’immersione totale – certo vale in generale per ogni scienza – ma in tal caso ci si veste sempre dei panni di altri esseri umani e in questo dialogo interiore, che si impara a praticare negli anni meticolosi di traduzione e ricerca sulle fonti, si scopre un tempo calmo, si comprende il paziente esercizio sulla parola, si impara a mettersi su strade non battute, luminosa metafora del viaggio che tenta la conoscenza (altro luogo immortale della poesia greca scandito fino all’ellenismo, come dimenticare l’esortazione di Callimaco nel prologo degli Aitia!).
I giovani classicisti sono tra i nostri primi portatori di fuoco. Perché custodiscono questi accenti diversi, perché recano in mezzo a noi il soffio vitale che fu di altri e si sforzano di farci sentire vicino, quasi vivo, quel respiro. L’epigrafia è forse tra gli ambiti disciplinari che più ci mettono in contatto con questi sentimenti, con l’intensità di movenze non scontate – è il passo lento di cui parla Alessia, quando bisogna colmare una lacuna o tentare un’interpretazione nella pietra sbrecciata. Ed è molto più che cercare un’ombra, un’orma, è diventare in tutto quella traccia.
Buona lettura!

(Di Claudia Ciardi)

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Epigrafia - Sapienza e sentimenti incisi

Di Alessia Rovina

per la rubrica «L’Argonauta»

Quando ci si inizia ad addentrare nello studio del mondo antico, sia esso il mondo greco, il mondo romano, del Vicino Oriente, o – perché no! – del Sud America prima della colonizzazione spagnola, da subito occorre confrontarsi con la miriade di tipologie che costituiscono la macrocategoria che noi conosciamo sotto il nome di “fonti”. L’accostamento ai testi letterari, foriero di indubbie delizie qualora non sia ostacolato dalla mancata decifrazione della lingua, è difatti una modalità davvero parziale di guardare al passato, pur essendo questi testi talvolta presenti in una copia tale da far sospettare che nulla possa mancare. A dire il vero, l’accostamento stesso ai soli testi letterari è anch’esso parziale, senza il sostegno, il supporto e l’ausilio che spesso e volentieri viene offerto da ciò che su rotolo non è.
L’epigrafia è senza dubbio uno degli ambiti di studio di maggiore necessità per una comprensione dell’antico che sia a tutto tondo. Spesso vista come minuzia polverosa (non diversamente da come talvolta viene giudicata un’altra materia peculiare, la papirologia), nel contesto italiano linfa vitale a questa disciplina storico-filologica è stata infusa da una delle maggiori epigrafiste del secolo scorso, Margherita Guarducci (1902-1999), la quale condensò conoscenza ed esemplarità dell’epigrafia – andando ad indagare peraltro sia il mondo classico sia il mondo della cristianità – negli ormai storici quattro volumi dell’Epigrafia Greca, vera e propria summa a cui è sempre bene ritornare, per non avere la tentazione di chiudersi nel recinto di una sola esperienza dell’antico. L’epigrafia in particolare offre, soprattutto per il versante ellenico, fondamentale supporto per l’indagine linguistica e dialettologica dell’antichità. Ben consapevoli di quanto la realtà linguistica della Grecia antica fosse varia e variegata, e di come i testi a noi pervenuti spesso restituiscano una coloritura imprecisa dettata dalla redazione successiva rispetto al momento della performance, che era attimo inevitabilmente orale, e dall’intervento spesso “normalizzatore” della mano dei filologi di età ellenistica, componenti le quali ci consegnano una conoscenza spesso sbiadita delle caratteristiche dialettali, recuperabili però in modo assolutamente interessante dal repertorio epigrafico. E ciò attraverso iscrizioni disseminate tra Occidente, Mediterraneo ed Oriente che ci parlano, ad esempio, dell’andamento della grafia a Creta rispetto ad Atene, dell’aspirazione pervasiva prettamente spartana, oppure ancora delle peculiarità linguistiche dell’arcadico, lingua non presente nella letteratura a noi giunta.
E ancora, spostandoci nelle terre oggi martoriate da conflitti e disperazione, proprio grazie a quanto è stato inciso su pietra dai lapicidi di epoche anche di molto precedenti la classicità ellenica, veniamo a conoscenza di lingue di grande fascino ed importanza, attestate solo epigraficamente: ad esempio il fenicio, l’aramaico antico, il moabitico, per citarne solo alcune.
Iscrizioni su pietra e su altri materiali avevano un significato gnomico e sapienziale dai caratteri paideutici ed esortativi. In tale direzione vanno le epigrafi templari che ornavano santuari dell’antichità, da Delfi, Gerusalemme e Sidone.
Inoltre, le incisioni erano sinonimo di diplomazia e civiltà: ci sono note iscrizioni plurilingui volte ad estendere il più possibile la comprensione dei contenuti esposti, oltre ad epigrafi che riproducono trattati stipulati tra popolazioni o πόλεις differenti – peraltro utili anche per ricostruire quei rapporti che noi contemporanei definiremmo di “politica estera”. Che dire poi delle informazioni di carattere giuridico che siamo in grado di ricavare da queste parole su pietra! A ragion veduta grande fascino suscita ancora l’oggetto di una straordinaria scoperta avvenuta nel 1884 grazie al lavoro di una importante missione archeologica italiana a Creta, guidata da Federico Halbherr, che portò al rinvenimento e allo studio del monumentale Grande Codice di Gortina, ancora oggi modello di studio.
Ma l’ambito umano più affascinante è senza dubbio quello che coinvolge i sentimenti, i pensieri, le emozioni ed i timori, filo rosso che non conosce cesure temporali, ed è anche in questo luogo intimo ed universale che l’epigrafia ci permette di entrare, con un passo volutamente lento, dovuto alle lacune che le iscrizioni spesso presentano ed ai compendi più e meno noti da sciogliere, con delicatezza, lucidità e rispetto in primis della coerenza scientifica – e proprio questo ultimo punto restituisce la complessità e la delicatezza che connota il procedere degli studiosi di questa disciplina. Gli epigrafisti hanno la fortuna di entrare in stretto contatto con una delle produzioni caratteristiche dell’antichità greca ed italica: gli epitaffi. Letteralmente, le parole scritte sulle tombe, quindi in contesti funebri. Gli epitaffi greci, in particolar modo, sono andati incontro ad una evoluzione sempre più raffinata, assumendo una loro peculiare connotazione formale: rigorosamente in versi, venivano costruiti come caratteristici epigrammi, di foggia raffinatissima e metro inequivocabile – basti pensare che autore di epitaffi fu anche il celebre poeta Posidippo, le cui commemorazioni funebri sono racchiuse anche nell’ultimo ritrovato papiraceo, P. Mil. Vogl. VIII 309.
In fondo, però, ci rendiamo conto di non essere davvero mutati rispetto a questi tempi che sembrano tanto estranei. La storia abbonda di epigrafi, abbonda di iscrizioni, di graffiti sentimentali e politici su pietra, di notizie dell’enfatico poeta Byron, che scalfì con la sua firma una colonna del sacro tempio di Poseidone a Capo Sounion, in un impeto di furore romantico e classicheggiante che noi ora definiremmo a dir poco vandalico ed incosciente.
Il bisogno di raccontare, dalla pietra, al viandante a cui si richiede di manifestare una συμπάθεια affratellante, oppure la necessità di narrare ciò che una vita è stata, o ancora la dolorosa constatazione della sua inequivocabile brevità e l’accettazione delle verità più intime e contraddittorie, spinte interiori che allora come ora ogni essere umano cova nei recessi del proprio animo.

 
Molte volte ho studiato
il marmo che mi hanno scolpito –
una nave con la vela piegata in riposo nel porto.
In verità non ritrae la mia destinazione
ma la mia vita.
Poiché l’amore mi venne offerto ed io fuggii dalla sua delusione;
il dolore bussò alla mia porta, ma io avevo paura;
l’ambizione mi chiamò, ma io ero atterrito dai suoi rischi.
Pure tutto il tempo avevo fame di un significato nella vita.
E ora so che dobbiamo innalzare la vela
e cogliere i venti del destino
ovunque essi guidino la nave.
Dare significato alla vita può sortire follia,
ma la vita senza significato è la tortura
dell’irrequietezza e del desiderio vago – 
è una nave che anela il mare eppur lo teme.

E. Lee Masters, Antologia di Spoon River,  traduzione italiana di L. Ciotti Miller

 

Bibliografia consigliata:

M. Guarducci, Epigrafia greca, 4 voll., Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1967-1978
Epitaffi greci, a cura di E. Lelli, Bompiani, 2019
G. Garbini, Introduzione all’epigrafia semitica, Paideia, 2005


(Di Alessia Rovina, classicista, studiosa di teatro, ricercatrice)

 


Stele funeraria di Demokleides, figlio di Demetrios, inizi IV sec a. C.

marmo, cm 67

Atene, Museo Nazionale

28 ottobre 2021

In ogni filo d'erba

 

A Hugo von Hofmannsthal e al Cimitero marino di Paul Valéry

* Per la rubrica «Calligrammi»



Giorgio de Chirico - Piazza d'Italia, 1924 -
Pinacoteca di Savona – Fotografia di Claudia Ciardi © 2018


Sopra un tavolino davanti a un finestra aperta c’erano dei fogli sparsi, forse i suoi ultimi appunti. Un gabbiano, quasi sfiorandole il capo, la desta da quella strana condizione di dormiveglia. Ma era accaduto in sogno o nella realtà a cui era stata appena restituita? Le tornò in mente qualcosa, un frammento di ricordo, troppo labile per lasciarsi decifrare, uguale al volo che l’aveva sorpresa. Fu come aprire un cassetto e sentirsi intorno l’aroma del legno mischiato a chissà quale fragranza del tempo che voleva trascinare via. Poi quell’impressione scomparve o solo perse d’importanza nel suo ragionare, mentre erano altri brandelli d’incerte fantasie a pulsare e risalire dentro quell’insano stato in cui si sentiva come venir meno. Ne aveva perfino paura ma provava anche un’equivoca tenerezza man mano che era sommersa. Il suo sguardo si era richiuso su alcune frasi di Hofmannsthal, la sua fiaba della donna senz’ombra, e da lì facilmente si era lasciato andare. “Questo scrittore mi legge dentro”, lo pensò per tutto il tempo che lo tenne fra le mani, “è come se agitasse uno specchio davanti a me”. Una sensualità destinata a disarmare, a ricadere nelle forme di una frastornante dolcezza in cui ci si smarrisce volentieri. Ebbe più volte la netta sensazione che fosse una presenza in carne e ossa né sarebbe rimasta confinata lì tra quelle pagine.
Quando poco dopo seppe che era uscito del fumo da un tetto là vicino, restò incredula. “È stato come toccarsi”, pensò ancora tra sé in uno stato di parziale incoscienza. Gli venne spontaneo, quasi parlasse a qualcuno. Lo stesso episodio si ripresentò poi nell’aspetto di una fiamma, imprevista si alzò fra le spire di un altro sogno. Era un fuoco basso, controllabile, che non cresceva né camminava. Restava lì in un angolo della stanza, ma proprio il suo scaturire improvviso l’aveva spaventata. Lo percepiva come una personificazione. Avvertiva in ciò l’inquietudine di un cercarsi che prorompeva per l’appunto in strane fantasie, che due esistenze sconosciute sfioravano, nelle vaghe somiglianze di cose comuni che sembravano a quel modo disporsi fra loro. Pensava a un’occasione in cui avrebbe recitato volentieri un paio di strofe dell’Achmatova, perché in quell’anno le forze del mondo erano esauste come in una poesia che ora insistentemente le risuonava dentro. Ma sarebbe potuto succedere anche in modo diverso, anche senza poesia. Già in quel muto richiamo dalla lontananza era un canto in cui germogliava la comune radice di giorni prescelti.

Che quello che s’immagina sicuro possa divenire sommamente incerto fino a rinnegarsi, che in cose che sembrano tranquille e sempre identiche a se stesse nasca un imprevisto tanto da sovvertirle. Lo aveva sperimentato abbastanza spesso nella sua vita. Il fatto che ora simili rovesciamenti la investissero con frequenza sempre maggiore non la lasciava indifferente. Erano tempi così e nel dissidio dei tempi si sollevavano onde d
indeterminatezza ma anche momenti di assoluta concentrazione. In simili condizioni è difficile anche solo riconoscersi una volta. Eppure accadeva e quando accadeva era tutta in se stessa. Sentiva spalancarsi la vita, esattamente dove l’aveva attesa.

I gabbiani la sera risalgono il fiume, gridano sopra i cortili dei paesi dove il sole è ormai tramontato, son distanti dal mare. Tante volte camminando insieme per strada, per piazze e quartieri solitari si erano detti che era strano, che quel sonno ininterrotto e forzato dei luoghi somigliava a certi quadri, e de Chirico soprattutto aveva intuito ogni cosa. Molto di quello che era cominciato anni addietro, ciò che credevano lontano, irreale era giunto infine alle soglie della loro vita. Si erano illusi che non sarebbe capitato nulla, eppure di recente sempre meno illusi, e ovunque i loro passi calpestavano perdite e vuoto. Mentre s’interrogavano su cosa si stesse preparando, senza avvedersene erano sempre più prigionieri. Per due anni le stagioni si erano schiuse su di loro, prede in un’invisibile rete. Aspettavano senza confidare in nulla, scossi, divelti, confusi, pure lentamente accoglievano in sé una consapevolezza che prima non avevano.
Uno di quei giorni una donna venne alla sua porta. Le annunciò la perdita del padre, un uomo di quasi cent’anni che fino all’ultimo si era conservato lucido, elegante, sereno, per nulla toccato dalle paure dell’epidemia. Diverse volte dallo studio aveva posato gli occhi su quell’uomo. Si era costruito la sua casa, era ben piantato in tutto, negli affetti, nelle sue convinzioni, una bonaria fierezza gli scorreva nelle vene; vederlo o immaginarlo in quella serenità guadagnata a testa alta, le dava calma. Pensò, guarda com’è estrema questa donna nel suo dolore, vibra in ogni parte del corpo. Il padre le ha lasciato questo, essere la creatura più vivida e sincera anche nel momento più cupo del distacco. Ed è bella così, proprio perché è tutta di quel dolore e non lo nasconde. L’estrema verità che affiora in lei l’hai qui davanti, eppure non la fa soccombere, la cinge anzi di un’incrollabile compostezza. Guardala, osserva bene il dono che ti fa mostrando intera a te soltanto la sua sofferenza. È nel mezzo di una tempesta e ha scelto te per rivelarla.
Una tale intima condivisione della scomparsa l’aveva avuta di rado. E ultimamente più che altrove visitando il vecchio cimitero di Sanremo. Dietro una spiaggia da cui arrivavano le calde voci della vita, decine di sepolture stavano quasi dimenticate. I rampicanti avevano abbracciato le lapidi, pietre mutile adagiate sul terreno dov’era a malapena leggibile un nome o da cui un ritratto sembrava invocare la sosta nel passante. “Quanta promiscuità di tombe cattoliche, ebraiche, ortodosse. Questi nomi d’inglesi, tedeschi, russi rimandano a una vita piena, anche in un simile abbandono si fa avanti o forse è proprio perché giace in tanta trascuratezza che si avverte più vicina”, lo disse piano fra sé, come una preghiera, mentre si aggirava fra i viali. Nella selva di croci, incisioni, fiori c’era un sepolcro piuttosto grande. Al centro della bianca pietra una fotografia guardava il visitatore alla sua stessa altezza. Era il ritratto di una giovane donna, i neri capelli ondulati, gli occhi neri luminosi, se ne stava lì di tre quarti un po’ trasognata, bellissima. Uno scatto di una modernità imbarazzante, “immagine di un attimo fa”, pensò, ma era quasi passato un secolo da quella morte e ancor più da quell’istantanea di giovinezza. Eppure a chi osservava il disco rotondo che porgeva quel volto sembrava di cogliere un tempo fermo, e voleva solo restare nell’incantesimo. Le parve di intuire la quotidianità di quell’esistenza, il suo essere fisico e spirituale, il suo esser lì un istante in quella fotografia e fuori da lì, il suo essere sempre stata, e attraverso lei anche tutto il luogo entrò infine in risonanza.

Stanotte, nell
ora del piacere, una libellula è scesa dentro la lucerna. Si è lasciata trovare al mattino nel piatto dove a lungo la fiamma è arsa, un fossile imprigionato nella cera. Avrà lottato per salvarsi? L’idea di questo fragile essere sopraffatto senza un lamento, senza uno spasmo, metteva malinconia. Giù in strada le passa davanti un’anziana. Ha lo stesso odore di basilico attaccato ai vestiti che aveva sua nonna quando usciva dall’orto, è la prima cosa che le fa venire in mente. L’orizzonte è limpido e c’è un’aria tesa che scivola giù dalla collina. Sembra di stare davanti ai cancelli del cielo. E le chiome delle palme si scuotono come un saluto di naufraghi. Immaginare di far naufragio in questa luce, andare incontro a qualcuno così in una chiara giornata di sole e di vento, da qualche parte su un lastricato deserto, recitare dei versi o cantare in uno dei nostri dialetti. Quando un nome resta tra le dita, capita di sentire a momenti il suo esserci come acqua come spettro nelle vie del mondo, nel suo inesorabile sussulto, in ogni filo d’erba. Potrebbe quel nome farsi largo per poco, bagliore o riflesso, dal nulla apparire una sera quando tutte le piante tremano nei giardini. E vagare così, senza cenno, senza volto, respirare l’ombra, il silenzio, ricordare anche l’erba che calpesta, e a questo pensiero tremare, poi farsi radice e foglia.


(Di Claudia Ciardi)


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