Sette,
potere affatturante del numero. Nel Poema della montagna risuona la
solennità biblica del settimo comandamento, sigillo a cose terrene perché non
siano usurpate da altri né siano alienati i frutti dell’anima, e poi ancora il
sette «fulcro del mondo» nell’immateriale sospensione del Poema dell’aria,
fuga liberatoria che accarezza l’idea del congedo. Numero ricorrente del
folclore russo, equilibrismo cabalista nella lotta fra gli opposti, scala
musicale, mediazione del divino e dell’umano, misura esatta, compiuta
armonia.
La
vita di Marina Cvetaeva inizia con una precoce consacrazione nel tempio delle
lettere. Bella, colta, appartenente a una classe agiata – il padre è professore
universitario a Mosca, la madre una pianista – appena diciottenne pubblica a
sue spese Album serale, che raccoglie le poesie composte nell’adolescenza.
Il volumetto non passa inosservato tra i letterati del tempo e per lei si
aprono subito le porte di casa Volosin, a Koktebel’, una sorta di residenza
d’artista dove dal 1910 al 1913 furono ospiti i maggiori scrittori russi. In
Crimea trova anche l’amore, incontrando Sergej Efron, studente all’Accademia
militare con cui si sposa all’inizio del 1912.
L’intensità
dell’esordio e la velocità dell’ascesa del suo talento poetico, quando tutto
sembra concederle un’esistenza appagante in un crescendo di successi letterari
e fama, suscitano un’amara inquietudine se accostati ai difficili anni della
rivoluzione bolscevica e alle peregrinazioni che fu costretta ad affrontare. Il
concetto di rovesciamento delle sorti nella vita di Marina Cvetaeva acquista
l’aspetto sconvolgente della storia, segnata dalla guerra, dalla caduta
zarista, dalle epurazioni di partito. In questa carambola impazzita i suoi
versi, soprattutto quelli consolidati nell’architettura dei poemi, sono schegge
guaritrici cui affidare le lacerazioni, i distacchi, la strage sentimentale che
si abbatte nei giorni malati dell’esilio, dell’isolamento, del voltafaccia di
amici e colleghi. Un’elaborazione autobiografica densissima, sempre oscillante
fra ctonia agonia e sublimate erranze in paesaggi paralleli, onirici sconfinamenti,
visioni destinate a un altrove che distoglie dal quotidiano incalzare. Sulla
cascata delle strofe si sporgono d’improvviso conturbanti figure mitologiche,
non solo personae ma vere e proprie coordinate oracolari, messaggere di
sotterranee evocazioni e arabeschi tonali, voci e metri compositi che si
contendono brani di memoria. Dal richiamo ad Alceo nel gioco delle conchiglie di
Dal mare alla frammentarietà avanguardista, da satira jazz, nel Poema
della scala, stralci di vita in bilico su assoli fiabeschi. Ogni traccia
terrena, ogni luogo o evento rimasticato nella scrittura del poema diviene
simbolo, parola-chiave, formula scagliata in un’altra dimensione dov’è più
facile capirsi, congiungersi a chi è lontano, smorzare quel che nel tormento di
ore incerte e senza sponda assale con gelida efferatezza. È in questo epos larvale
e umbratile che prendono vita gli scorci di Praga, la collina montagna e il
lungofiume che fanno da sfondo alla storia con Konstantin Rodzevič, gli spazi
degli incontri immaginari con Pasternak e Rilke, dioscuri della sua ostinazione
creativa, la trasfigurazione dell’appartamento parigino stretto nella morsa di
abitudini feriali e grettezze borghesi che disperdono la scintilla dell’arte,
la trenodia per la morte di Rilke con cui prende corpo la consapevolezza di
essere di un altro mondo, l’idea di un appartenersi cosmico che trascende le
vie ordinarie e nella morte non vede un limite ma un valico che connette con
quell’oltre vitale.
(Di
Claudia Ciardi)
Edizione di riferimento:
Marina Cvetaeva, Sette poemi, a cura di Paola Ferretti, Einaudi, 2019
Edizione di riferimento:
Marina Cvetaeva, Sette poemi, a cura di Paola Ferretti, Einaudi, 2019
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Da Poema della montagna
Si
struggeva, Montagna (che ogni monte
con
fiele d’argilla ai commiati
si
strugge). Per il tubare di tortora
soave
dei nostri mattini senza nome.
Sul
nostro sodalizio, si struggeva:
connubio
irrefutabile – di labbra!
Asseriva
Montagna che s’avvera
tutto
– a misura del pianto profuso.
E
ancora asseriva che bivacco
è
la vita – di cuori eterno bazar!
E
si struggeva: almeno Agar
insieme
al figlio fu bandita!
E
ancora, che un demone ci frulla
e
che gratuito è sempre il gioco.
Sentenziava,
Montagna, noi – muti.
A
lei rimettendo il giudizio.
Praga,
1 gennaio – 1 febbraio 1924
Da Poema della fine
Ultimo
ponte.
(Non
rendo e non sfilo la mano!)
Ultimo
ponte,
ultimo
balzello.
Acqua
e firmamento.
Le
monete appronto.
Un
soldo per Lete,
obolo
a Caronte.
Ombra
della moneta,
nella
mano adombra. Mute
monete,
quelle.
Alla
mano ombrata –
L’ombra
della moneta.
Né
luccicanti, né tinnanti.
Monete
– a quelli.
Solo
papaveri, dai defunti.
Ponte.
[…]
Anime
non rassettate –
male
rimarginate!
Periferie,
sobborghi…
furibondo
è il burrone
della
periferia. Senti lo stivale
del
fato – sulla molle argilla?
…
Dai pure a me la colpa: nella fretta
un
che di vivido, stringente ho imbastito
–
per quanto ingarbugliato!
Ultimo
lampione!
Qui?
Come di carbonaro hai
lo
sguardo. Di razza inferiore –
sguardo.
– Saliamo alla montagna?
Per
l’ultima volta!
Praga,
1 febbraio – Jiloviste, 8 luglio 1924
Da
Dal mare
Io
– senza refusi,
Io
– senza ritocchi.
Un
pugno di rose alpestri
ti
darei, e una bicocca
a
picco sul mare,
con
onde di bonaccia.
Dall’Oceano,
ecco per te
una
manciata di gioco.
Grado
a grado prendi, come fu raccolto.
Il
mare gioca. Chi gioca – è buono.
Il
mare gioca, e io prendo,
il
mare lascia, e io ripongo
in
scollo e guancia – salmastra, marina!
Palmi
occupati: la bocca è tiretto.
Lode,
risuona al flutto!
La
Musa lascia, l’onda prende.
Coralli
di granchi, leggi: gusci.
Gioca
il mare, chi gioca – è grullo.
Chi
pensa – ciocca ingrigita! –
è
saggio. Giochiamo, allora,
a
conchiglie.
Vandea,
maggio 1926
Da
Tentativo di stanza
Senza
affannosi «Dove sei?».
Sto
in attesa. Nel maniero di Psiche
servono
all’uopo – i gesti
che
siano a quiete apparentati.
Vento
soltanto è caro al poeta!
Ho
una certezza – i corridoi.
Attraversare
è tutto, per le armate.
A
lungo occorre andare, perché infine
a
metà stanza, con fare
da
nume-citaredo…
– la
Via del Verso!
Vento
contro la fronte – stendardo
dal
nostro passo inalberato!
St.
Gilles-sur-Vie, 6 giugno 1926
Da Poema della scala
Silenzio.
La tosse perfino
si
è estinta, essiccata.
Anche
la nostra scala
ha
il suo momento
di
quiete…
Ultima
risalita
su
scala tremebonda.
Ultima
micetta.
Il
buio tutto accorpa –
e
noialtri e lo sporco.
Anche
la scala di servizio
ha
il suo momento
di
lindore…
Una
– chi, vattelapesca! –
rovescia
l’ultimo catino –
Reno
che da Alpi scroscia –
acque
contro l’asfalto
del
cortile…
Sul
cortile – arabeschi:
là
grappoli, là croci…
Anche
la scala di servizio
ha
la sua carta degli astri.
Vandea,
luglio 1926
Da
Per l’anno nuovo
Nel
bailamme del Capodanno, assorta
Nella
mia rima interiore: Ràiner-Mòira.
Se
un occhio pari al tuo s’è ottenebrato,
non
vita è la vita, non morte la morte,
–
tutto s’offusca, lo capirò alla meta! –
Non
vita o morte (inesistenti) si danno,
ma
nuova, terza cosa.
[…]
Scorgo
la croce tua, di là dal tavolo:
quanti
posti – fuori città, e spazio
fuor
di città! A chi se non a noi
ammicca
– l’arbusto? Posti – di nessun altro,
solo
nostri! Fitto fogliame! Aghi, rami!
Posti
tuoi con me (tuoi con te). (Devo, dirlo,
che
insieme a te perfino a un comizio
verrei?)
Altro che – posti! Lustri!
Settimane!
Sobborghi desolati, pluviosi!
Quanti
mattini! Insieme fare cose
non
ancora varate da usignoli!
Magari
io vedo male (dalla fossa),
magari
vedi meglio tu, da lassù:
niente
tra noi è andato in porto.
A
tal punto quel niente chiaro e netto
si
confaceva a noi per complessione –
che
a malapena serve nominarlo.
Bellevue,
7 febbraio 1927
Da
Poema dell’aria
Più
assordante che Don a pugna
squillante,
più che mietiture
di
patiboli… per tornanti
più
minacciosi che monti,
volute
sonore, come tra mura
tebane
non da mano erette.
Sette
– le falde e le sfere!
Sette
– gli heilige Sieben!
Sette,
fulcro della lira,
sette,
fulcro del mondo.
Se
fulcro della lira
è
il sette, fulcro del mondo
è
il verso. Così le mura
tebane
al suono della lira…
Del
corpo ancora nel braciere
–
«più che piuma lieve!»,
la
vecchia storia del grave
che
all’udito va perso.
Con
l’udito – in puro spirito
mutarsi.
Lasciate le scritture
ai
secoli.
Come
udito
puro
o puro suono
avanziamo?
Pre-annuncio
di
sogno. D’estasi pre-sussulto.
Più
che grotto assordante
quando
infuria equinozio.
Più
che tempia – epilettica,
più
che fame – di visceri…
Pure,
non più assordante
che
di Resurrezione
sepolcro…
Meudon,
1927 (Nei giorni di Lindbergh)
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