Per la rubrica «Arboreto salvatico»
L’agrifoglio,
nome scientifico ilex aquifolium, appartiene alla famiglia delle
aquifoliaceae. È comunemente conosciuto anche con i nomi di pungitopo maggiore
o alloro spinoso e si tratta di un arbusto spontaneo, con foglie di color verde
scuro che possono presentare delle striature dal bianco al giallo. I suoi
frutti sono delle bacche color rosso vivo, invece i fiori sono molto piccoli
riuniti in mazzetti di color bianco o rosa chiaro.
Sempreverde, originario dell’Europa centro-occidentale, attecchisce fino a 2000
metri e in condizioni ambientali favorevoli assume portamento arboreo. La
pianta giovane presenta foglie spinose, pungenti, aspetti destinati negli anni
a modificarsi tanto che nella parte superiore dell’arbusto le foglie diventano di
forma ovoidale, meno rigide. Un vero e proprio “sviluppo caratteriale”.
Ha proprietà antispasmodiche, febbrifughe e leggermente astringenti. Per lenire la tosse basta far bollire dieci grammi di foglie essiccate in mezzo litro d’acqua, per cinque minuti; si filtri e si bevano due tazze al giorno del decotto così ottenuto.
Nel linguaggio dei fiori e delle piante l’agrifoglio simboleggia l’eternità, l’aggressività, la forza e la resistenza. Considerata da sempre una pianta magica, i rami in particolare venivano regalati dai romani ai novelli sposi come segno di buon augurio e gesto di benedizione per la nascente unione. Già Plinio il Vecchio consigliava di piantare l’agrifoglio vicino all’ingresso di casa per proteggere l’abitazione dai demoni. Nel mondo antico si riteneva infatti che le foglie pungenti potessero allontanare gli spiriti maligni, credenza che durerà fino al medioevo quando ancora si additava l’agrifoglio come talismano contro i mali. Dal momento in cui nel passato la vita domestica si svolgeva principalmente nelle cucine, intorno al camino, si pensava che questo spazio fosse la porta di entrata e di uscita degli spiriti degli antenati. Anche per tale motivo gli architravi dei camini venivano ornati con ramoscelli di agrifoglio, mentre cappe e canne fumarie erano pulite con speciali scope “magiche” formate dalle fronde della pianta. I romani associavano l’agrifoglio a Saturno dio della rigenerazione, le cui feste, i Saturnalia, coincidevano con le celebrazioni solstiziali invernali. Dal 17 al 23 dicembre infatti si rigenerava il tempo sacro. Inoltre, in epoca imperiale a Roma si era diffuso un culto di origine orientale che celebrava il Sol Invictus, il sole mai vinto: il solstizio solare cade in una stagione di morte apparente, in cui la natura riposa e attende, ma reca in sé l’auspicio della rinascita. Dopo i cosiddetti giorni di stasi (si parla infatti di solstizio, o sosta) ecco che il sole riprende la sua risalita, raggiungendo il picco massimo intorno al 21 giugno, data che segna il solstizio d’estate. Nelle società arcaiche, la cui sopravvivenza era tanto legata ai ritmi stagionali, i cicli solari erano osservati con la massima attenzione. In inverno la produzione agricola era ferma, per la sussistenza era necessario fare affidamento alle scorte accantonate durante la bella stagione, sperando in una pronta rinascita. Nasce da qui anche la tradizione del ceppo di Natale. Nel tempo di vigilia ci si recava nei boschi in cerca di un tronco robusto, possibilmente appartenente a un sempreverde, e lo si portava nelle proprie case con molte cerimonie. L’accensione del ceppo (quindi ancora un rito del fuoco e della luce) avveniva la sera prima di Natale, mentre il ceppo continuava ad ardere e a consumarsi lentamente nei successivi dodici giorni, dal 25 dicembre al 6 gennaio. Un periodo che rappresentava un piccolo anno, dove ogni giorno corrispondeva a un mese, e il cui simbolo è una ruota, emblema appunto del disco solare. Il ceppo come archetipo, elemento magico e fiabesco nel quale confluiscono le forze cicliche dell’anno, le energie vitali della natura, affiora in tanti racconti e lo ritroviamo anche nel Pinocchio di Collodi, materia inanimata-animata da cui scaturisce un prodigioso burattino vivente.
In inverno il mondo vegetale è spoglio, il paesaggio appare desolato, dai colori spenti. Ma è proprio su questo sfondo che risaltano le piante sempreverdi. Perciò sono proprio simili piante gli emblemi dell’inverno: l’edera, le conifere, il vischio e l’agrifoglio. Con le sue foglie lucide e coriacee, di colore verde brillante, e le bacche rosse l’agrifoglio è forse la pianta che più si distingue nel contesto di un paesaggio invernale. Fiorisce in tarda primavera, con piccole infiorescenze bianche, e fruttifica in inverno. Nella lingua inglese è noto come holly (francese houx, tedesco Hülse) che alcuni vedrebbero connesso al termine holy, che significa “sacro”. Tuttavia, sembrerebbe più accettabile l’origine dalla stessa radice linguistica (in inglese hight, alto, acuto) che ha dato in latino la parola culmen (punta).
Tra
i Druidi, sacerdoti dei Celti, era diffusa la convinzione che l’agrifoglio
avesse il potere di proteggere l’uomo dai disagi causati dalle fredde notti invernali e che si riuscisse ad addomesticare qualsiasi animale selvatico toccandolo
con un grosso ramo di agrifoglio.
Quando nel 1492 Cristoforo Colombo approdò in America anche nel nuovo continente trovò
delle piante di agrifoglio, scoprendo che pure per i nativi molto preziose. Ne
usavano le foglie per infondere coraggio durante le battaglie e come in Europa
le piantavano nei pressi dei villaggi e delle loro abitazioni per difendersi
dagli spiriti maligni. Ma la scoperta più sorprendente fu l’utilizzo che queste
popolazioni facevano di foglie e alcune bacche per preparare un infuso che
aveva il potere di dar loro forza, conosciuto ancora oggi come matè.
Penetrata anche nella tradizione letteraria, la lode dell’agrifoglio è alla
base di alcuni canti festivi, intonati durante la ricorrenza natalizia soprattutto
nei paesi di cultura anglosassone. Sono le versioni moderne tratte dall’antico
Contrasto
dell’agrifoglio e dell’edera (The Contest of the
Holly and the Ivy), in cui le due piante sono simboli di una contesa tra donne
e uomini. In alcune zone dell’Irlanda sopravvive l’usanza di questo contrasto:
a Natale si organizza una gara canora in cui le donne cantano i loro pregi e
sminuiscono gli uomini, cui gli uomini rispondono coi loro pregi, canzonando le
donne. La tenzone si risolve nel più pacifico dei modi, con l’augurale bacio
sotto il vischio, altra pianta solstiziale cui si è precedentemente accennato. Un’antica
versione del canto contiene questo ritornello:
Oh, the raising of the sun
and the running of the deer
the shining of the winter stars
as the longer days draw near
Il sorgere del sole
e la corsa del cervo,
il brillare delle stelle in inverno
mentre
le giornate più lunghe stanno per giungere.
Qui
si avverte il sostrato del rituale che segna il passaggio nell’inverno
propiziando anche l’avvio del nuovo ciclo solare, da cui la tradizione prende origine.
La simbologia cristiana collega l’agrifoglio alla natività di Cristo. La
leggenda narra di un pastorello che a Betlemme portò in dono al bambino appena
nato una corona di rami di alloro. Vergognandosi, però, del suo regalo così povero
si mise a piangere e Gesù, toccando il serto di alloro, la trasformò in un meravigliosa corona di agrifoglio, mutando le lacrime in splendide bacche
rosse. La
promessa del ritorno della luce nel mondo si associa al nuovo nato sotto la
stella di Natale. Inoltre, l’umiltà dell’agrifoglio saluta il figlio di Dio nato
tra i più umili, perché il divino portatore di riscatto nasce nella semplicità
e di quella semplicità si adorna, per vincere la tracotanza dei forti. Più il
potere diventa superbo, più il Dio, la scintilla generatrice del rovesciamento,
si fa piccola, un bambino in una mangiatoia, vegliato da animali e pastori,
festeggiato con doni frugali ma di grande valenza simbolica.
Pianta
liturgica per eccellenza, l’agrifoglio attraversa dunque secoli e religioni,
mettendo il sigillo su uno dei cicli di natura più potenti e misteriosi, al
centro dei principali rituali coltivati da civiltà fra loro differenti e
lontane.
(Di Claudia Ciardi)
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