Tänzerinnen - Emil Nolde
A
partire dalla fine del Settecento crebbe in Europa l’interesse per le culture
orientali, soprattutto relativamente all’India e al sanscrito.
Stando a quanto era
solito dichiarare sir William Jones, forse con qualche semplificazione di
troppo, il vecchio continente aveva imparato arabo e cinese grazie alla
mediazione di olandesi e francesi, mentre doveva la scoperta del sanscrito agli
inglesi. Jones fu tra i primi conoscitori e divulgatori della materia, occupandosi
di raccogliere in modo sistematico alcune teorie che erano state formulate
tra la fine del Cinquecento e il Seicento da missionari e mercanti che in
quelle terre avevano prestato la loro opera. Pensiamo al fiorentino Filippo
Sassetti, vissuto in India tra il 1583-’88, che nelle sue lettere annotò
somiglianze fra alcune parole sanscrite e le corrispondenti in italiano, così
come già dalla fine del Seicento si evidenziarono affinità tra l’antica lingua
indiana, il greco e il latino.
Da
Jones in avanti la linguistica comparata fissò le sue basi, trovando in
Germania uno dei suoi terreni più fertili. Nacquero qui, infatti, numerosi
istituti per l’insegnamento del sanscrito, e in generale quella propensione
allo studio delle cose orientali che avrebbe conosciuto un significativo
incremento nella seconda metà dell’Ottocento, quando si iniziò a fare di tali
tematiche un uso politico. Dalla prima cattedra di sanscrito assegnata ad A. W.
Schlegel presso l’università di Bonn nel 1818, i finanziamenti statali per le
missioni all’estero e i centri studi in patria aumentarono sempre più,
raggiungendo il loro massimo a inizio Novecento. Di una simile evoluzione della
ricerca in senso funzionale al potere è emblematica la vicenda di Carl Andreas
(1846-1930), dal 1903 professore di lingue asiatiche all’università di
Gottinga, marito della nota scrittrice Lou Salomé. Costui, eclettica figura di
intellettuale e viaggiatore, si dedicò agli studi orientali in una fase ormai
“politicizzata” tanto che ne ebbe non pochi guai a livello personale, essendo
poco incline a lavorare per finalità esclusivamente istituzionali. Pur in possesso
di un ingegno brillante la sua carriera si sviluppò piuttosto tardi e non senza
ostilità accademiche.
Mentre
fin dagli inizi per gli inglesi l’interesse culturale si saldava su quello
coloniale, i tedeschi si avvicinarono dunque all’orientalismo da un’ottica del
tutto diversa. Dapprima fu uno sguardo filosofico, rivolto per certi versi alla
politica interna e da questa, per così dire, destato. La passione per l’oriente
crebbe in seno al romanticismo, coltivato nel famoso gruppo di Jena, animato dai
fratelli Schlegel. Secondo questi intellettuali il massimo grado di
romanticismo andava cercato in oriente, sorta di culla di una
spiritualità originaria, la più profonda e autentica sperimentata dagli uomini.
La Restaurazione arrestò il percorso delle riforme liberali, infrangendo i
sogni di progresso nutriti fino a quel momento dai maggiori studiosi e
letterati dell’epoca. Ciò spinse il tardo romanticismo a una sorta di fuga dalla
realtà, cercando riparo nell’ideale dell’Heimat,
la piccola patria incarnata dalla gente comune che appariva come risparmiata
dal contagio dei fallimentari tentativi di rinnovamento storico. Ha quindi
origine quel pathos nei confronti del
Volk, il popolo, che oltre a ispirare
un cospicuo filone di studi costituisce anche il primo seme di un nazionalismo
di matrice etnica destinato, circa un secolo più tardi, a imprimere una drammatica svolta nelle vicende tedesche e nel resto d’Europa. Un dibattito che
continua a segnare il passo pure in questo inizio di millennio, dove l’idea di
popolo sembra farsi carico delle turbolenze sperimentate dalle democrazie
occidentali. L’attuale dicotomia tra populismo e istanze popolari è largamente
influenzata e viziata dagli orrori recenti, che hanno visto fascismo e
nazionalsocialismo cavalcare le paure della massa. Il ricorso fin troppo
frequente al concetto di populismo nei media o in un qualsiasi confronto
politico denota questo complesso, ma anche soprattutto un abuso altrettanto
ideologico, e dunque incline alla disonestà intellettuale, di pensieri verso i quali bisognerebbe invece essere molto meno prevenuti, onde evitare, nella foga di denunciarli, che in certe tesi d’opposizione non si facciano
strada integralismi ben peggiori.
Sul
piano degli studi la centralità riservata alla presunta genuinità del popolo,
promosse in Germania la raccolta delle tradizioni mitologiche e lo scavo nei
patrimoni folklorici. Valga a riguardo la celebre opera dei fratelli Grimm.
Jacob Grimm (1785-1863), scopritore della legge sulla rotazione
consonantica tedesca che porta il suo nome, è stato principalmente un linguista, oltre ad aver
coadiuvato il fratello Wilhelm nel recupero delle più importanti fiabe del loro
paese. Entrambi furono anche molto attivi nella diffusione del movimento
democratico tedesco sfociata nei moti del ’48, repressi nel sangue dal regno di
Prussia, di cui Theodore Fontane (1819-1898) darà conto in pagine autobiografiche
assai intense, parlando di quei giorni vissuti per le strade di Berlino. La
vicenda dei Grimm è la rappresentazione esatta del nodo di istanze politiche e
culturali che si affacciano nella società tedesca tra l’inizio e la metà
dell’Ottocento. Aspetto essenziale dell’immaginario romantico, si diceva, è la
presunta purezza del sistema linguistico e filosofico-religioso indiano, con
particolare riferimento al buddhismo. In una Germania in crisi d’identità
nazionale risulta più che comprensibile la ricerca di un antenato da cui trarre
piena legittimazione.
Alcuni
dei filosofi di punta che hanno legato il loro nome alla storia della
disciplina non solo in terra tedesca, ma più latamente in ambito occidentale, sentirono il bisogno di cimentarsi
nell’approfondimento dei testi sacri indiani e, in alcuni casi, nella loro
traduzione. Ciò favorì anche lo sviluppo di un interessante dibattito su virtù
e difetti del tradurre, tema molto acceso oltralpe, che nel Novecento mostrerà
ancora tutta la sua vitalità attraverso Walter Benjamin, autore del
noto saggio sul compito del traduttore. Gli studi comparativi di W. von
Humboldt (1769-1859), l’esaltazione della spiritualità indiana da parte di
Schelling e Schopenhauer, lo scetticismo di Hegel che pure nel contestare
l’entusiasmo romantico verso l’oriente, non si sottrasse alla discussione, la
superiorità accordata da Nietzsche al buddhismo nei confronti del
cristianesimo, destinata a tradursi in una nuova religiosità occidentale responsabile
di una palingenesi del pensiero; tali assunti ci mostrano quanto pervasivo e
influente sia stato l’orientalismo nella cultura tedesca. Desiderosa di essere
ponte tra est e ovest, la Germania colse gradualmente negli studi asiatici
l’opportunità politica di un riscatto del proprio prestigio culturale e lo
strumento di una rigenerazione linguistica. Il tedesco, nel dialogo con le
altre lingue, avrebbe accolto in sé «tutti i tesori della scienza e dell’arte
straniere insieme a quelli propri», secondo F. Schleichermacher (1768-1834).
Visione simile a quella espressa da Goethe circa una Weltliteratur, una letteratura mondiale in lingua tedesca, come si
può evincere da una nota sulle traduzioni pubblicata alla fine del suo Divano occidentale-orientale (1819).
Per
la Germania, più ancora che per gli altri paesi europei, l’oriente è stato il
fiume in cui placare la sete spirituale, ideologica e metafisica di un
occidente stanco e prosciugato, ma anche lo specchio magico col quale cogliere
un riflesso di sé. Il fervido dibattito attorno a simili materie svela,
infatti, per intero la necessità di forgiare una definizione di se stessi per
contrasto.
(Di Claudia Ciardi)
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