A Vienna, all’inizio del Novecento, si poteva posare per Schiele e Klimt e ricevere un ritratto da entrambi. È ciò che accadde alla bella e intelligente Friederike Maria Beer. Giovane, spirito libero, amante della mondanità e dell’arte è stata immortalata dai due pittori di maggior talento sulla scena austriaca già proiettata verso la grande guerra, finendo al centro di opere per certi aspetti enigmatiche, sconcertanti, che ci parlano oltre l’esecuzione della figura femminile prescelta. Peraltro, la stessa resa della femminilità che nei due maestri comporta soluzioni compositive alquanto diverse, si apre a una polimorfia quasi mitologica – questo sì un tratto comune – che intende comunicare con altri mondi, che vuole scendere a una dimensione dell’essere di là dalla sua storicità, dalla sua finitezza nel qui e ora di un solo luogo, di un tempo delimitato. Si dice che le donne di Klimt siano conturbanti, quelle di Schiele perturbanti. L’elemento erotico esaltato dal primo, diviene cerebrale nel secondo. «Se in Klimt troviamo pelle morbida, in Schiele ci sono nervi e tendini; se in Klimt tutto fluisce, in Schiele il corpo oppone resistenza, si chiude a riccio, si contorce». Così Florian Illies in L’anno prima della tempesta, diario del 1913, dalle cui pagine esce la fotografia degli ultimi mesi di tregua prima che un’epoca e i suoi protagonisti fossero spazzati via, una delle mie letture di quarantena nel 2020, in un altro tempo sospeso.
Friederike
venne dipinta da Schiele nel ’14, mentre Klimt la ritrasse nel ’16, anni che
corrispondono anche a nodi insolvibili nella storia dell’impero asburgico, anni
che tutto avrebbero cambiato. L’ingresso in guerra e la morte del vegliardo
padre della patria, l’imperatore Francesco Giuseppe, che chiuse gli occhi senza
sapere che la gloriosa storia imperiale sarebbe giunta al capolinea insieme
alla sconfitta. Per Klimt sarebbe stato uno degli ultimi quadri. Morì infatti
nel ’18.
È
curioso e, se vogliamo, pure un po’ spiazzante, che la stessa donna si sia trovata
a diventare icona del congedo dalla leggerezza e dallo sfarzo di un mondo –
percorso comunque anche da molte ombre – che sia stata eletta interprete di una
danza sull’orlo dell’abisso prima che i riflettori smettessero di illuminare il
palco. Intervistata da anziana nella casa di riposo dove era ospite, disse: «Ero
di bell’aspetto, giovane, e interessata alla musica e all’arte. Che dovevo
fare? Niente! Solo vivere, andare a teatro, alle mostre, all’Opera». Non fa una
piega. Tuttavia, lo si è detto, sia Schiele che Klimt non sono concentrati sul racconto della frivolezza ma si adoperano a gettare uno sguardo sulle rumorose
accecanti contraddizioni di un ambiente che tanti ingegni e
altrettante energie aveva raccolto intorno a sé.
Seguendo
la narrazione di Illies, in quegli affollati e caotici inizi del Novecento,
due erano i poli in grado più di altri di attrarre liberi pensatori, artisti,
personalità fuori dagli schemi. Uno era il Monte Verità, una sorta di progetto
comunitario, a mezza strada tra esilio new age e romitorio per eccentrici, ad
Ascona, sul Lago Maggiore. L’altro era per l’appunto costituito dai due atelier
di Klimt e Schiele a Vienna, non a caso secondo Lou Andreas Salomé «la città più
erotica del mondo».
Ma
restiamo ancora un attimo a quel 1913, al suo singolare destino di anno in
bilico, di ultimo capitolo prima che gli alfabeti di uomini e cose decidessero
di cambiare. Schiele si tolse dalla metropoli, passando l’estate a bighellonare
nelle valli del Salzkammergut in compagnia della sensuale Wally Neuzil,
ispiratrice del famoso acquerello Wally in camicia rossa. Ospite del
mecenate ed amico Arthur Roessler che aveva casa sulle rive del Traunsee, non lavorò neppure un giorno, sebbene avesse portato con sé materiali
da riempire uno studio. Roessler, che aveva sperato in un fervido periodo creativo
da cui trarre almeno un quadro per il soggiorno della propria abitazione, si
ritrovò una fregatura. A settembre si tenne il Primo Salone d’autunno tedesco,
inaugurato a Berlino nella leggendaria galleria Sturm di Herwarth Walden.
Grazie all’organizzazione infaticabile di Franz Marc e August Macke, impegnati
fin dalla primavera in inviti e reperimento di fondi, vi confluì tutto ciò che
nel 1913 era considerato avanguardia, fatta eccezione per gli artisti del Ponte
che si erano appena sciolti e preferirono restare fedeli al silenzio dei propri
ritiri sul Baltico. Nonostante tutti gli sforzi, compresa la bizzarra idea di
distribuire volantini d’invito su cui si leggeva: «Le mostre devono essere
visitate contro la volontà dei critici d’arte!», l’insuccesso fu clamoroso. Al
quale si aggiunse un vero e proprio tracollo finanziario. La mancanza di
pubblico non permise al mecenate Bernard Koehler di recuperare quasi nulla dei
ventimila franchi sborsati per coprire affitto, trasporto e altre spese di
allestimento. La «Frankfurter Zeitung» ci andò pesante: «Con la mostra si vuole
dare a intendere che in questi percorsi evolutivi ci sia qualcosa da vedere.
Mai una pretesa è stata più arrogante, mai meno fondata».
Erano
tempi così, rissosi, astiosi, in cui si finiva per accapigliarsi su tutto. I
venti di guerra soffiavano ovunque, anche in contesti che in teoria avrebbero
dovuto suscitare sentimenti positivi, contribuire alla nobiltà d’animo. Inoltre,
le città lottavano per il primato culturale. Se Parigi continuava ad essere
l’inarrivabile centro radiale, Vienna e Berlino crescevano, rischiando di
eclissare Monaco, altro luogo di scissioni e incongruenze. Emblematico il caso
del rifiuto del disegno di Schiele, Amicizia, da parte del direttore di
una delle gallerie che l’artista corteggiava per un’esposizione. Un diniego
tutto formale che tirava in ballo il decoro e la pubblica decenza – argomenti in voga per tutta l’età guglielmina – ma lo stesso direttore
confessò poi di essere personalmente molto interessato all’acquisto. Ecco servito
un altro dissidio e dei più rovinosi, tra morale pubblica e privata. Ed ecco
che improvvisamente nasce la tela di una donna che sembra un insetto, un colorato
pipistrello che si dibatte nel vuoto, spensierato come un Arlecchino, lugubre
come un Pierrot, con gli arti e i gesti impegolati in un fondo limaccioso,
color senape. Le mani sono stranamente contratte, sembrerebbero mimare dei
movimenti di flamenco, ma è un guizzo impossibile, smorzato. Quando la domestica di casa Beer
vide l’opera finita stroncò l’autore senza mezze parole, sostenendo che la
padrona sembrava calata dentro un sepolcro. Ma a tutto c’è una soluzione.
Schiele suggerì di rovesciare la prospettiva appendendo il quadro al soffitto, cosa la Beer, entusiasta,
non si fece ripetere.
Nel
quadro di Klimt, fedele ai dettami Jugendstil, l’atmosfera orientale ispirata da un vaso coreano in suo possesso quasi si sovrappone al
motivo della veste della donna che indossa per l’occasione una seta dipinta a
mano. Tutto è arte e viene a depositarsi intorno alla bella chioma corvina di
Friederike, ai suoi occhi scuri, alle sopracciglia da dea greca, con la figura umana
assurta a centro generativo, la donna come elemento unificante, benefico che
aleggia su ogni forma quasi propiziandola alla vita. In apparenza il lavoro di
Klimt si direbbe meno inquietante, più regolare, eppure la ieratica frontalità
da cui la protagonista ci osserva, il suo simmetrico immobilismo cela qualcosa
che sembra richiamare la contorsione di Schiele. Una Monna Lisa che si alza da
uno sfondo sovrabbondante senza pause, e posa lo sguardo su di noi con la
profondità di una sfinge che a un tratto potrebbe farci prigionieri dei suoi
enigmi.
(Di
Claudia Ciardi)
* In copertina: fotografia che ritrae Friederike Maria Beer (Getty Images)
Per approfondire alcuni dei riferimenti storici contenuti nell'articolo si rimanda a:
Florian lllies, 1913. L'anno prima della tempesta, Marsilio, 2013.
Su Klimt e Schiele segnatamente le pagine 33, 39-41, 50, 75-77, 161, 164-165, 243
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