Ragione
e sentimento del commiato
Il
rapporto con il lascito delle generazioni che ci hanno preceduto e, dunque, con
le donne e gli uomini le cui vite hanno contribuito ad alimentare la nostra,
molto ci racconta dell’idea di società alla quale ispiriamo le nostre azioni.
In un tempo affrettato che spesso guarda alla morte come un disagio da
rimuovere, che confina il morire in una dimensione di solitudine senza
possibilità di consolazione – e i due anni di epidemia hanno ulteriormente
contribuito a questo processo di rimozione nell’imporre il divieto di saluto ai
propri cari – inevitabilmente anche la sfera del vivere risulterà contaminata da
questo innaturale occultamento. Laddove non si danno cura e sollievo nella
morte, non ve ne possono essere neppure in vita.
La
questione si pose già tre secoli fa nel fiorire di una poesia cimiteriale che
in un momento di profonde mutazioni dettate dal cosiddetto progresso, quando si
ridiscutevano luoghi e tipologia delle sepolture, indicò la necessità della
cura, della vicinanza al ricordo come unico sollievo, come strada maestra per meditare e mediare i cambiamenti prospettati.
Il carme Dei sepolcri, composto nell’estate del 1806, che Foscolo dedicò
all’amico Ippolito Pindemonte, anche lui intervenuto su questi temi, è la
più alta espressione nella poesia italiana di un sentimento che trascende lo
spazio e il tempo e che perciò si fa interamente memoria. Se le tombe dei
grandi in Santa Croce a Firenze, di uomini che hanno consacrato il loro ingegno ai
pilastri fondanti dell’architettura sociale – Michelangelo, l’arte, Galilei, la
scienza, Machiavelli la politica – sono esempi altissimi e fonti d’ispirazione di valori morali altrettanto elevati per chi le visita, anche i più dimessi tumuli
popolari ci parlano con la bontà delle loro presenze lì raccolte di una
quotidianità prossima alla nostra, di gesti e rituali che ci vengono incontro
per proseguire un dialogo intimo e rassicurante con noi: «non vive ei forse anche sotterra, quando gli
sarà muta l’armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de’
suoi? Celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli
umani».
I piccoli cimiteri di provincia sembrano
offrire, più di altri, questo silenzioso travaso di anime forse per le
caratteristiche della loro stessa collocazione, quasi accoccolata vicino ai
paesi, e per dimensioni più limitate rispetto a taluni sterminati complessi
urbani. Penso agli ingressi cimiteriali in certe frazioni lungo l’Arno,
custoditi dalla maestà di cipressi centenari, dalla dolce grazia dei campi su
cui si alternano tutti i colori delle stagioni, e vegliati dalla corrente del
fiume. E ripenso alla bellezza selvatica delle tombe sparse intorno agli
abitati di Langa, a Dogliani col suo tacito pellegrinaggio nella luce radente e
calda dei tramonti invernali, ai fievoli lumi dei sepolcri che di notte
punteggiano ogni collina come piccoli vascelli che trasportano un prezioso carico di
sogni.
Tante volte ho riposato gli occhi su queste cittadine
dei morti, segnacoli al mio tragitto, fosse la Toscana
interna, l’Appennino umbro e abruzzese col suo volto corrugato, o l’aerea
ascesa agli amatissimi paesaggi alpini del Piemonte. E ogni volta ne ho tratto
la foscoliana poesia di un tempo che esce da se stesso e nella sua lingua
spirituale comunica presenze vive al nostro sentire.
Il progetto dell’architetto Roberto Olivero per
il cimitero di Vignolo in Valle Stura, che è anche memoriale di guerra,
s’inserisce in una lunga e importante tradizione di riletture e interpretazioni
del neogotico di montagna. Olivero, specializzato in recupero di strutture
alpine, ha lavorato con scrupolo da filologo non tralasciando di cucire su
ciascuna delle sue scelte quel peculiare patrimonio emotivo umano che nei luoghi del commiato è
più stratificato e denso che altrove. Materiali e modelli sono radicati
nell’artigianato locale ma tendono anche alle lezioni della Wiener
Werkstätte, così come sono compresenti le tante suggestioni di uomini e di
cose, le folli immaginazioni confluite in quella straordinaria e sempre
sfuggente impresa dell’eclettismo irradiato dalle capitali culturali fino agli
ambiti di provincia. A raccontarcelo è Daniele Regis in un articolo che non
solo ci spiega tecnicamente il lavoro fatto ma lo definisce nel contesto specifico
di memorie di paesaggio e d’architettura che ci riportano all’orizzonte poetico richiamato all’inizio. Le fotografie d’accompagnamento scattate
da Regis replicano questa doppia polarità immaginativa, inserendosi peraltro nel gioco
di rimandi e omaggi a Gabetti e Mulas, portatori di sguardi differenti ma pure
fortemente compenetrati sul neogotico piemontese.
Neogotico contemporaneo in acciaio
di
Daniele Regis
Volendo indicare la modificazione decisiva per un percorso neogotico contemporaneo si può proporre quella lunga stagione oltremodo fertile di studi come di opere di alcuni tecnici intellettuali di vasta cultura che mostrano un interesse per la storia, per le radici romantiche dell’architettura ottocentesca, per il paesaggio e il giardino, ben addentro un Ottocento illuminato anche dalle letture di Shafetsbury o dello Hume, come elementi decisivi anche per la nuova architettura. La passione della notte evocata da Gabetti e Isola nella storica, celebre, lettera per la presentazione della Bottega d’Erasmo (neoliberty o neogotica?), mutuata da Karl Jasper, era la manifestazione, il desiderio, l’esigenza, forse anche la ribellione - comportasse anche il naufragio – di non sottrarsi alle voci della Storia; con spunti di approfondimento per il Medioevo privo di canoni o di regole e adatto a interpretare le tendenze deformanti delle composizioni dell’Ottocento o per gli influssi dell’Oriente che ogni tanto rinfrescano l’Europa. Una passione che riapriva le tracce preziose e le raffinate tecniche lasciate da una cultura critica che riannoda le esperienze di una grande tradizione politecnica, francese e poi piemontese e lombarda, cresciuta su di un sensismo illuminista che rivalutava le tecniche e mestieri, con sim-patia per l’eclettismo in tutte le sue declinazioni neoclassiche e neogotiche come «facce di un medesimo atteggiamento, all’apparenza ambivalente, in realtà molto univoco in senso romantico» (A. Griseri).
Il lettore vorrà perdonarmi per questa
introduzione ondivaga e alta (alta per i protagonisti evocati), forse
eccendente il tema, ma solo così riesco a collocare criticamente i riferimenti,
le radici, di un’opera strana, quasi inspiegabile, strana anche rispetto agli
esiti precedenti per il giovane autore
architetto Roberto Olivero, che si è cimentato per lo più in recuperi di
architetture alpine con intelligente filologia (il grande Mulino della Riviera
di Dronero ritornato alla produzione, l’antica casa nobiliare “Mosè” con
facciata a vela a Marmora, entrambe in
pietra e legno).
Siamo nella provincia (di Cuneo) che annovera
alcune delle opere più significative del neogotico ottocentesco nazionale e
internazionale (le serre del castello di Racconigi, Il castello di Pollenzo,
quello del Roccolo e di Envie) ma anche cento opere minori, folies,
bizzarrie, arrischiate, curiose, tutte di derivazione neogotica.
Opere anche contemporanee. Acciaio Arte
Architettura nel numero 16 (novembre 2003) aveva pubblicato un’opera
simbolo del neogotico contemporaneo di uno dei maestri della “scuola torinese”,
Lorenzo Mamino. «La scala torre del centro studi Cesare Pavese», scrivevo, «è
un segno forte, condensato, catalizzante, misterioso che reinventa un paesaggio
di pinnacoli, guglie torrioni, cuspidi, in continuità con le più belle
invenzioni schelliniane per Dogliani e la Langa e che colloquia anche con
immagini più esotiche come le torri faro marittime con le lanterne e specchi e
lenti convesse, i disegni neogotici di Hugo o di Pugin: faro delle colline,
luce della letteratura, missile del sensibile e del soprasensibile in
un’immagine neogotica e di disegno urbano di livello europeo. È una torre o un
campanile o una cuspide tra altre guglie e pinnacoli. La strana opera
fronteggia infatti il volume della cappella dei Marchesi Incisa con tamburo
ottagonale e cuspide aguzza su cipolla e il campanile su base medievale che
culmina con un curioso ottocentesco svolazzo di falde, dati dall’incrocio di
due tettini a capanna sormontati da un aguzzo obelisco»; quest’ultima (la
copertura del campanile) quasi una citazione per il progetto di Vignolo
(giocato dall’ incontro di quattro
tettini a capanna sormontati da una cuspide), un neogotico “minore”,
campagnolo, di periferia.
Il tema: la definizione di un disegno
urbanistico cimiteriale (tema squisitamente ottocentesco) con la copertura
dell’area del commiato per il cimitero del piccolo paese di Vignolo vicino a
Cuneo.
Ne è scaturito il più neogotico dei cimiteri
contemporanei cuneesi con un progetto per una tettoia risolta come un grande
padiglione neo-gotico al centro dell’area tra cimitero antico e nuova
espansione: uno spazio aperto, destinato al commiato, che funge da collegamento
tra i vari ambiti del cimitero, un nuovo elemento gerarchico, centrale,
visibile, allo stesso tempo funzionale e sacro.
L’opera è costituita da una copertura
sorretta da struttura portante in acciaio, che si appoggia da un lato su
pilastri facenti parte dei loculi dall’altro su nuovi pilastri in tubolare di
acciaio. La forma della copertura in pianta e alzato richiama il simbolismo
della croce, specie nell’intreccio delle strutture costituenti le nervature
portanti delle falde, in verità senza mai citarla direttamente e riprodurla
analogicamente. La struttura a falde triangolari e colmi inclinati, che si
susseguono in un alternarsi di pendenze, tenta di tradurre attraverso forme geometriche le suggestioni
provenienti della natura circostante: i secolari castagni e l’intrico del
bosco, sul pendio ad ovest, ma rimanda anche ai padiglioni neogotici
inglesi per i monumenti funebri, alle folies neogotiche di un
gotico campagnolo di provincia, componendosi come un padiglione leggero, uno
svolazzante origami di acciaio.
L’elaborazione di coperture e orditure
bizzarre era stato tema molto trafficato dal neogotico, dai pavillon
rustiques, ai kiosques alle cabanes,
alle halles, con esiti arrischiati e curiosi come le coperture ad
ombrello cinese (per un chiosco nel castello di Envie), i tetti a croce
cuspidati, le volte stellate e a ventaglio; un repertorio di modelli, veicolati
in numerosi splendidi manuali, ancora evocativi per la leggerezza, le nervature
sottili, di strutture “sospese” tra gotico e neoliberty, e la varietà degli
esiti specialmente nel disegno delle coperture.
Così è a Vignolo: una struttura strana,
complessa, costituita nella struttura primaria in acciaio della copertura da
doppi tubolari rettangolari disposti lungo le diagonali (quattro converse)
affiancati e fissati sulla sommità dei quattro pilastri mediante flange
imbullonate; verso l’esterno i tubolari si aprono a morsa per fissare il
pluviale di discesa. Altri tubolari rettangolari della stessa dimensione
corrispondono alle linee di giunzione delle falde triangolari in corrispondenza
dei quattro colmi inclinati. Si vengono così a formare otto falde triangolari,
che compongono a due a due le quattro capanne con colmo inclinato rivolte sui
quattro lati.
Tutte le strutture primarie convergono al centro
(culmine della copertura) dove sono congiunte a una serie di flange radiali,
mediante bullonatura. Le flange sono saldate a un tubolare centrale che funge
da monaco alla cui estremità inferiore, attraverso un’altra serie di flange
radiali, sono ancorate le contro-strutture, che fungono da contenimento della
spinta orizzontale lavorando nell’insieme come travi reticolari. Tali
contro-strutture raddoppiano quindi le strutture primarie e sono anch’esse
costituite da tubolare (100x50x4mm). In corrispondenza dei quattro timpani di
facciata, completano il sistema di contro-strutture altre quattro travi
reticolari.
Alla ragnatela d’acciaio è saldata la
struttura secondaria sempre in acciaio, con un’orditura a maglia quadrata per
realizzare il piano di appoggio del manto di copertura, suddiviso nelle otto
falde triangolari, costituito da panelli isolati in poliuretano protetti da
lamiera nervata e nell’intradosso da pannelli in legno per ridurre al minimo
(nel sito del commiato) il rumore
dell’acqua piovana.
In altre parole, in una lettura spaziale: ci
sono due capriate principali, inverse, impostate sulle diagonali del quadrato
in pianta, e quattro capriate inverse in corrispondenza dei timpani; le
capriate dei timpani sono tirantate con convergenza verso il centro attraverso
collegamento monaco-vertice, per tenerle in posizione sul piano del
timpano; gli elementi principali di
capriate e tiranti sono sdoppiati, ovvero formati da accoppiamento di tubolari
per poter realizzare innesti a scomparsa e giunture bullonate.
I vantaggi di questo curioso sistema
strutturale sono: la riduzione delle sezioni principali, l’alleggerimento
complessivo della struttura in ferro, la reticolarità e distribuzione dei
carichi (sistema gotico di scarico attraverso la materializzazione delle linee
di forza), la possibilità di realizzare giunzioni a scomparsa e di rendere le
giunzioni non iperstatiche.
Nel centro geometrico della struttura un
lucernario piramidale trasparente permette alla luce solare di scendere a
terra, con richiamo alla simbologia sacra. Una cuspide con scheletro portante
in scatolari saldati e falde in lastre di policarbonato. La struttura del
cupolino è vincolata a quella principale mediante un sistema “ad albero” con
pignone verticale centrale imbullonato alla base nel punto di convergenza delle
travature e con i quattro telai triangolari dei lati della piramide fissati al
fusto centrale.
Di notte, la piramide illuminata diventa
nuovo riferimento della città dei morti, una “lampada della memoria” sempre
accesa, un piccolo faro per i pellegrini di terra. Lo strano “cappello” a falde pieghettate
poggia su quattro pilastri tubolari – con capitelli rastremati collegati con
piastre – che nascondono all’interno i pluviali. Curiosi i doccioni di raccolta
sostenuti dal prolungamento delle diagonali di copertura, a formare una sorta
di gargoyles tecnologici. Si viene così a formare un “nuovo centro”
all’interno dell’area cimiteriale, che se dall’interno permette di accogliere
persone nell’area del commiato (dedicata ai caduti in guerra e ai defunti
vignolini), dall’esterno spicca con la sua guglia ferrosa, creando un dialogo
ricco di rimandi con i campanili delle antiche chiese del centro storico sullo
sfondo.
La struttura portante in ferro verniciato è
stata scelta per la sua possibilità di assemblaggio, per la versatilità e
leggerezza visiva e al contempo per la diversità rispetto ai materiali che
costituiscono il palinsesto costruito circostante (cemento intonacato, pietre,
marmi), in un assemblaggio delle componenti di carpenteria (tubolari,
profilati, piastre, innesti) risolta tutta in laboratorio con elementi
pre-assemblati con modelli che paiono richiamare i sistemi di alto artigianato
della Wiener Werkstätte.
Un segno delle possibilità dell’architettura
e dell’acciaio di innovare con attenzione alla storia e ai contesti ordinari,
anche su temi minimi, qui nella periferia storica del Piemonte sud occidentale.
(Di Daniele Regis)
* Fotografie del Cimitero di Vignolo – Area commiato – Daniele Regis ©
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