28 giugno 2021

In cammino con la storia


Il significato primario di storia è narrazione. Dunque, nella parola è il rimando all’atto di raccontare, di esporre degli avvenimenti, conservandoli in uno spazio di maggiore o minore vicinanza alla realtà.
Ecateo di Mileto, Erodoto di Alicarnasso, Tucidide di Atene sono i fondatori della storiografia, non a caso in quella irripetibile culla delle arti che è stata la cultura greca antica. A partire dai primi narratori, singolari personalità di viandanti e collezionisti di testimonianze, scrittori, geografi e antropologi per i quali la conoscenza dei fenomeni e il loro depositarsi nell’edificio della memoria passava da una ricognizione attraverso luoghi e caratteri, il dibattito sul punto di vista da adottare, sulla maggiore o minore obiettività di colui che si dà il compito di raccogliere e catalogare non ha mai conosciuto posa. Un filo tenace unisce i tre grandi nomi alle origini del racconto storiografico, perché in ognuno si ritrovano questi aspetti, in ognuno ridefiniti secondo rapporti di forza diversi eppure compresenti. E da ciascuno di questi sguardi gettati
sull’affollarsi degli eventi si ricava un’immagine della vita che lo storico cerca di ordinare, di condurre nell’alveo di una comprensione razionale cosicché la metafisica del tempo ricada sul nostro presente nei tratti di un’idea appena più organica.
C’è dunque qualcosa di vero nell’affermazione “historia magistra vitae”, che in taluni suscita insofferenza, se come non manca di ricordarci Leonardo Sciascia «anche il luogo comune è, per quanto ripugnante all’intelligenza, una forma della verità  cui all’altro estremo, specularmente, corrisponde il paradosso: forma della verità cui l’intelligenza arride». L’appassionante rilettura della guerra del Peloponneso firmata dallo storico Jules Isaac nel suo celebre saggio-romanzo Gli oligarchi dove sulla narrazione antica si allungano le ombre della seconda guerra mondiale, si muove magnificamente fra le increspature di una simile dicotomia.
E c’è da chiedersi cosa cercasse Shelley nell’idillio del Valdarno, ai piedi di una cascata dove amava bagnarsi nudo, prediligendo proprio la lettura di Erodoto, quasi che quelle pagine meglio gli facessero compenetrare la beatitudine del luogo. Così ce lo descrive Hofmannsthal nei suoi appunti, un fermo immagine in cui la sacralità dell’antico saluta l’apparizione della poesia, il prodigio di un romanticismo pagano iscritto nella saggezza del passato e nell’eterna presenza della natura. Che per il grande poeta la scelta del libro in cui specchiarsi nei giorni del suo avventuroso pellegrinaggio interiore cada proprio sulle Storie di Erodoto, non è un dettaglio da sorvolare. Questo indizio è semmai la via per scendere in un’anima, per fluire nei battiti di una vita che in quei giorni celebrava in sé armonia e bellezza.
Come ci spiega Alessia Rovina nel suo intervento, rileggere i maestri antichi e Tucidide in particolare significa porsi in ascolto di una tradizione altissima, fondatrice del nostro stesso modo di vedere il mondo e di coglierne gli sviluppi, ma è anche aprirsi alla possibilità d’immaginarlo, di vincere insidie e sfide, tanto più in questa fase così complessa, per molti aspetti contraddittoria, che pure schiude già i cammini ai quali altre narrazioni saranno destinate.

(Di Claudia Ciardi)      


  

Erma MANN - Erodoto/Tucidide
Museo Archeologico di Napoli

*copertina proposta da Alessia Rovina


Tucidide, compagno eloquente

Di
Alessia Rovina

Per la rubrica «L’Argonauta»

 

Quando frequentavo il liceo scoprii una pellicola per me divenuta poi classica, talvolta argomento unico di conversazione per rispondere alle insistenze di chi si ostinava ad etichettare come “non convenzionali” i miei studi. Era Il paziente inglese, trasposizione filmica del 1996 dell’omonimo romanzo di Michael Ondaatje, vincitore di 9 premi Oscar e numerosi altri riconoscimenti, dovuti non solo alle interpretazioni di grandissimi attori come Ralph Fiennes e Juliette Binoche, ma anche al procedere poetico di fotogrammi e sentimenti, in un presente doloroso che continua a declinarsi al passato. La mia commozione era rivolta al protagonista, il conte László Almásy. Attraversare un deserto, ascoltare e far proprie leggende e tradizioni di luoghi senza geografia, ammalarsi dell’incapacità di amare, accettare, sempre e comunque, di lasciarsi penetrare e purificare dall’unico vero e tenace compagno sempre fedelmente riposto nella bisaccia: Erodoto. Sono proprio le Ἱστορίαι narrate dal pater historiae  di Alicarnasso a curare l’animo dell’aviatore, sia quando è pervaso dall’ossessione per una passione struggente sia quando si avvicina al morire. Erodoto, compagno inseparabile.
Ecco, sin dall’antichità il nome di Erodoto era immancabilmente associato a quello di un altro illustre storico, Tucidide, come ben dimostra la doppia erma del II secolo d. C. conservata al MANN. Rivalità, compenetrazione, differenza di stili, favole che si scontrano con calcoli più razionali, di tutte queste elucubrazioni moderne una sola cosa resta: entrambe queste menti ci insegnano a guardare con occhi differenti l’agire umano nel corso storico. La mia personalissima scelta di trattare in questa sede di Tucidide scaturisce sia dalla passione che mi lega alla vicenda della Guerra del Peloponneso –   momento che, come ogni battaglia, crea immancabili cesure, ma che in questa situazione produsse una crepa estremamente significativa nel mondo antico – sia dalla necessità, in questo attimo tanto confuso e tanto… Turbolento, di avere una modalità di lettura del presente, una sorta di bussola, in un Viaggio che percorriamo e in cui troppo semplice è smarrirsi. È noto che uno dei grandi meriti intellettuali dell’autore della nostra più completa fonte della Guerra del Peloponneso sino al 411 a. C. risieda nella penetrazione dell’ἀληθεστάτη πρόφασις , la “ragione più vera” che portò al conflitto, presentato come sostanzialmente inevitabile non solo per il timore spartano, ma anche per la via di sproporzionalità – vocabolo desueto ma che rende bene l’idea – imboccata da Atene. La patria del nostro, pur talvolta ammantata di quella regale munificenza a cui le fonti ci hanno adusati, non è immune dalla lettura profonda che lo storico opera, sviscerando lungo la trattazione l’epopea e l’autodistruzione del vero e proprio Impero. Da potenza leader nella sconfitta del nemico Persiano, da fulgida culla della più alta cultura e del più fine pensiero che saranno capaci di scardinare, ammaliare e conquistare quasi tutte le genti d’Oriente e d’Occidente, a πόλις tiranna, pronta al massacro ed alla punizione dinnanzi a rifiuti pur minimi, dinnanzi ad ogni segno di indipendenza. Infine, scellerata ed affamata potenza in preda alla furente estasi della conquista, vittima in ultima istanza della stessa ostinata ricerca di gloria che l’aveva portata al vertice. Uno è sempre stato il grande interrogativo: per quale ragione Atene perse il conflitto? L’analisi à rebours di Tucidide identifica come errore massimo sostanzialmente un evento: la spedizione in Sicilia del 415 a. C., la cui capitale importanza viene resa anche in un utilizzo verbale tutto peculiare all’interno della narrazione storiografica. È difatti proprio in relazione a questa decisione che Tucidide spende una parola per lui rarissima, ἔρως, stante ad indicare una scelleratezza, una follia irrazionale che guida il consesso Ateniese nel compimento di questa impresa, tutto generato dalla fame insensata di conquiste e potere e dalla cieca convinzione che ogni impresa compiuta sarebbe stata destinata al successo.
Nel caotico vorticare di opinioni, nell’affanno della ripresa, nello sguardo che aggira gli ostacoli per proiettarsi già al di là verso obiettivi sempre più elevati ed inarrivabili, una sempre eterna scossa ci può venire dalla grande storiografia antica, anche in virtù dei cruciali avvenimenti in corso, certa crepa e cesura nel corso internazionale e personale, e sicuramente può venire da Tucidide, con quella veritiera concezione della natura umana sempre uguale a se stessa, il cui unico giovamento può essere la costante e lucida disamina del presente, e del passato.


(Di Alessia Rovina, classicista e studiosa di teatro)

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