14 aprile 2020

Antonia Pozzi - «Tu sei l’erba e la terra»


Nonostante le diverse pubblicazioni che negli ultimi tempi le hanno reso omaggio, compresi gli album fotografici che costituiscono un versante altrettanto significativo della sua espressione letteraria, quella di Antonia Pozzi rimane ad oggi una voce poco nota, complice lo sguardo superficiale di una parte della critica, ma anche a suo tempo l’incomprensione di amici e colleghi, eccezion fatta per Dino Formaggio, confidente leale, ed Eugenio Montale, tra i primi divulgatori postumi del suo talento. Così scrisse il poeta ligure nella prefazione alla raccolta di versi edita da Mondadori nel 1948: «Anima di eccezionale purezza e sensibilità, che non poté reggere al peso della vita, Antonia Pozzi richiede una lettura che faccia vivere in noi gli sviluppi ch’essa conteneva e non espresse che in parte; […] voce leggera, pochissimo bisognosa di appoggi, essa tende a bruciare le sillabe nello spazio bianco della pagina». Anche Eliot riconobbe alle sue composizioni un’ammirevole musicalità e onestà di spirito.
Quando iniziò a frequentare l’università Statale di Milano, da iscritta alla facoltà di lettere, la storia d’amore con il suo insegnante liceale di latino e greco si era già avviata alla fine. Nell’epilogo ebbero un ruolo determinante le pressioni del padre di lei, Roberto Pozzi, avvocato di fama, il quale cercò con ogni mezzo di allontanarli, impegnando Antonia in diversi viaggi all’estero e in attività che la distogliessero da quell’uomo, visto come un intralcio al realizzarsi del consolidamento della figlia nell’alta borghesia milanese. Mentre la scrittura stava lentamente sbocciando con disperato fulgore, tutto intorno a lei inaridiva. Quando il professor Antonio Maria Cervi si trasferì a Roma, la separazione si era ormai consumata e assumeva forma concreta nella lontananza. Si tennero in contatto epistolare durante l’intero 1934, ma quell’anno trascorse su di loro con l’unico fine di consegnarli al congedo. Il vuoto lasciato da questa fine scavò vene di malinconia dove il sangue si fece scuro, e solo la ricerca della natura, una prossimità imparata fin da bambina durante le vacanze a Pasturo sulla Grigna, le dava pace a momenti e consolazione. Il peso delle aspettative familiari, l’affetto mai protettivo della madre, donna colta e benevola, succube tuttavia del marito, e il gelo che avvertiva crescere dentro e fuori di sé, osservando il disagio nelle periferie milanesi, presentendo l’avvicinarsi della guerra, la sprofondarono in un disagio definitivo. Antonia aveva l’impressione di fluire via, di sradicarsi nutrendo però il segreto convincimento di ricongiungersi così più pienamente all’essenza di ogni cosa. Quel sentirsi acqua, elemento trascorrente amalgamato al respiro del mondo come nella chiusa profetica di una poesia del ’31:

 «… ed io sosto
pensandomi ferma stasera
in riva alla vita
come un cespo di giunchi
che tremi
presso un’acqua in cammino».

Affascinata dalla letteratura tedesca, che aveva imparato ad amare seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, fra il 1935 e il 1937 fu in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua in cui aveva cominciato a cimentarsi attraverso la traduzione in italiano di alcuni capitoli di Lampioon, di M. Hausmann. Parlando della propria condizione disse di sentirsi come il Tonio Kröger di Thomas Mann, alludendo al contrasto irrisolvibile tra Geist e Leben, tra lo spirituale in forma darte e la vita. Così in una lettera del ’35: «io sono adesso come Tonio Kröger nella tempesta, sono appena uscita alla riva, vivo ancora di atti che non so tradurre in parole. Forse – chissà, l’età delle parole è finita per sempre».
Gli ultimi mesi della sua breve esistenza sono un groviglio sgorgante di immagini allucinatorie. A incarnare quest’idea  di levità e distacco è l’angelo che la prende per mano nell’altezza siderale delle amate montagne, mentre si sente «un velo d’acqua sospeso su di un masso in mezzo alla cascata, che aspetta di precipitare ancora». Si uccise sul prato antistante l’abbazia di Chiaravalle, il 3 dicembre 1938. Il padre fu tiranno anche dopo la sua fine, cancellando dal manoscritto i riferimenti all’amore proibito, e falsificando il certificato di morte per nascondere il suicidio. Ufficialmente Antonia morì di polmonite.

(Di Claudia Ciardi)

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Tu sei l’erba e la terra di Antonia Pozzi (Garzanti Editore, 2020) è una dichiarazione indistinta di solitudine sfumata nel disincanto dell’anima, appassionata e struggente, in un’unica e sconfinata poesia d’amore che la poetessa ha rivelato per tutta la sua breve vita. La nostalgia, l’arrendevole passione, la ritualità evocativa delle sue confessioni, sono il terreno propizio custodito nei versi, avvolti da un’apparente quiete di grazia e rassegnazione, assorbiti  nell’essenza crepuscolare e nella dissolvenza espressionista della malinconia. Le parole, commosse ed orgogliose, sostengono la perdizione dell’assenza. La poesia di Antonia Pozzi accoglie il sortilegio dell’impulsività  avvicendando il ricordo di una condanna sentimentale, nella sua passione per il suo amato professore, con il suo corteggiamento infelice e tormentato, consumato dal dolore e da un’aspettativa non corrisposta. I testi sono salvifico intervallo nella dilatazione emotiva e richiamano l’autentica e trascinante forza magnetica della natura, conforto originario di serenità e grembo di affinità romantica, oltrepassano le stagioni ostinate delle promesse e della dignità riconosciuta “sulla via dei luoghi amati”, dove l’avvenenza sussurra, sincera e fedele, l’estetismo poetico nello specchio dei movimenti sinuosi delle adorate montagne. La poetessa è testimone della riservata e rigorosa decadenza che addensa l'ostilità delle ombre e scava nelle atmosfere desolate dello spirito. Il mondo, elegantemente violento e superbo, è fatto di desideri e illusioni, si nutre di lacrime e di attese e la poesia visiva di Antonia Pozzi è un’immutabile e rarefatta inquietudine scandita dallo squilibrio degli indugi. Il destino della poetessa non ha via d’uscita se non nell’unico finale possibile e stringe intorno a sé l’esasperata povertà della sostanza di un sogno infranto, di una lacerante lusinga di chi desidera il ritorno alla vita, al vivere in poesia. I versi ascoltano il respiro di una  sacrificata sensibilità, affondano nella memoria il rovescio di una pena abbracciata all’esistenza ferita. Le poesie di Antonia Pozzi giunte solo postume tornano a far luce e rumore da “un’esile scia di silenzio”. Presagio rappresentativo è la fatalità improvvisa di chi muore giovane e suicida condividendo nell’intreccio al male di vivere che accomuna altre importanti poetesse, l’impossibilità di colmare il vuoto interiore, premeditato nell’incompatibilità della disperazione di una morte intenzionale.


*Testi scelti da Rita Bompadre 

  
Lampi

Stanotte un sussultante cielo
malato di nuvole nere
acuisce a sprazzi vividi
il mio desiderio insonne
e lo fa duro e lucente
come una lama d’acciaio.

S. Margherita, 23 giugno 1929

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Sfiducia

Tristezza di queste mie mani
troppo pesanti
per non aprire piaghe,
troppo leggére
per lasciare un’impronta –  

tristezza di questa mia bocca
che dice le stesse
parole tue
– altre cose intendendo –  
e questo è il modo
della più disperata
lontananza.

16 ottobre 1933

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Pensiero

Avere due lunghe ali
d’ombra
e piegarle su questo tuo male;
essere ombra, pace
serale
intorno al tuo spento
sorriso.

maggio 1934

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Convegno

Nell’aria della stanza
non te
guardo
ma già il ricordo del tuo viso
come mi nascerà
nel vuoto
ed i tuoi occhi
come si fermarono
ora – in lontani istanti –    
sul mio volto.

29 maggio 1935

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Brezza

Mi ritrovo
nell’aria che si leva
puntuale al meriggio
e volge foglie e rami
alla montagna.

Potessero così
sollevarsi
i miei pensieri un poco ogni giorno:
non credessi mai
spenti gli aneliti
nel mio cuore.
   
8 giugno 1935


Edizione recensita:

Antonia Pozzi, Tu sei lerba e la terra, Garzanti 2020 




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