Nonostante
le diverse pubblicazioni che negli ultimi tempi le hanno reso omaggio, compresi
gli album fotografici che costituiscono un versante altrettanto significativo
della sua espressione letteraria, quella di Antonia Pozzi rimane ad oggi una
voce poco nota, complice lo sguardo superficiale di una parte della critica, ma
anche a suo tempo l’incomprensione di amici e colleghi, eccezion fatta per Dino
Formaggio, confidente leale, ed Eugenio Montale, tra i primi divulgatori
postumi del suo talento. Così scrisse il poeta ligure nella prefazione alla raccolta di versi edita da Mondadori nel 1948: «Anima di eccezionale purezza e
sensibilità, che non poté reggere al peso della vita, Antonia Pozzi richiede
una lettura che faccia vivere in noi gli sviluppi ch’essa conteneva e non
espresse che in parte; […] voce leggera, pochissimo bisognosa di appoggi, essa
tende a bruciare le sillabe nello spazio bianco della pagina». Anche Eliot
riconobbe alle sue composizioni un’ammirevole musicalità e onestà di spirito.
Quando
iniziò a frequentare l’università Statale di Milano, da iscritta alla facoltà
di lettere, la storia d’amore con il suo insegnante liceale di latino e greco
si era già avviata alla fine. Nell’epilogo ebbero un ruolo determinante le
pressioni del padre di lei, Roberto Pozzi, avvocato di fama, il quale cercò con
ogni mezzo di allontanarli, impegnando Antonia in diversi viaggi all’estero e
in attività che la distogliessero da quell’uomo, visto come un intralcio al
realizzarsi del consolidamento della figlia nell’alta borghesia milanese. Mentre la
scrittura stava lentamente sbocciando con disperato fulgore, tutto intorno a
lei inaridiva. Quando il professor Antonio Maria Cervi si trasferì a Roma, la
separazione si era ormai consumata e assumeva forma concreta nella lontananza.
Si tennero in contatto epistolare durante l’intero 1934, ma quell’anno
trascorse su di loro con l’unico fine di consegnarli al congedo. Il vuoto
lasciato da questa fine scavò vene di malinconia dove il sangue si fece scuro,
e solo la ricerca della natura, una prossimità imparata fin da bambina durante
le vacanze a Pasturo sulla Grigna, le dava pace a momenti e consolazione. Il
peso delle aspettative familiari, l’affetto mai protettivo della madre, donna
colta e benevola, succube tuttavia del marito, e il gelo che avvertiva crescere
dentro e fuori di sé, osservando il disagio nelle periferie milanesi,
presentendo l’avvicinarsi della guerra, la sprofondarono in un disagio
definitivo. Antonia aveva l’impressione di fluire via, di sradicarsi nutrendo
però il segreto convincimento di ricongiungersi così più pienamente all’essenza
di ogni cosa. Quel sentirsi acqua, elemento trascorrente amalgamato al respiro del mondo come nella chiusa profetica di una poesia del ’31:
«… ed io sosto
pensandomi
ferma stasera
in
riva alla vita
come
un cespo di giunchi
che
tremi
presso
un’acqua in cammino».
Affascinata
dalla letteratura tedesca, che aveva imparato ad amare seguendo le lezioni di
Vincenzo Errante, fra il 1935 e il 1937 fu in Austria e in Germania, per approfondire
la conoscenza della lingua in cui aveva cominciato a cimentarsi attraverso la
traduzione in italiano di alcuni capitoli di Lampioon, di M. Hausmann. Parlando
della propria condizione disse di sentirsi come il Tonio Kröger di Thomas Mann,
alludendo al contrasto irrisolvibile tra Geist e Leben, tra lo spirituale in forma d’arte e la vita. Così
in una lettera del ’35: «io sono adesso come Tonio Kröger nella tempesta, sono
appena uscita alla riva, vivo ancora di atti che non so tradurre in parole.
Forse – chissà, l’età delle parole è finita per sempre».
Gli
ultimi mesi della sua breve esistenza sono un groviglio sgorgante di immagini
allucinatorie. A incarnare quest’idea di
levità e distacco è l’angelo che la prende per mano nell’altezza siderale delle
amate montagne, mentre si sente «un velo d’acqua sospeso su di un masso in
mezzo alla cascata, che aspetta di precipitare ancora». Si uccise sul prato
antistante l’abbazia di Chiaravalle, il 3 dicembre 1938. Il padre fu tiranno
anche dopo la sua fine, cancellando dal manoscritto i riferimenti all’amore
proibito, e falsificando il certificato di morte per nascondere il suicidio.
Ufficialmente Antonia morì di polmonite.
(Di
Claudia Ciardi)
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Tu
sei l’erba e la terra di Antonia Pozzi (Garzanti Editore, 2020)
è una dichiarazione indistinta di solitudine sfumata nel disincanto dell’anima,
appassionata e struggente, in un’unica e sconfinata poesia d’amore che la
poetessa ha rivelato per tutta la sua breve vita. La nostalgia, l’arrendevole
passione, la ritualità evocativa delle sue confessioni, sono il terreno
propizio custodito nei versi, avvolti da un’apparente quiete di grazia e
rassegnazione, assorbiti nell’essenza
crepuscolare e nella dissolvenza espressionista della malinconia. Le parole,
commosse ed orgogliose, sostengono la perdizione dell’assenza. La poesia di Antonia
Pozzi accoglie il sortilegio dell’impulsività
avvicendando il ricordo di una condanna sentimentale, nella sua passione
per il suo amato professore, con il suo corteggiamento infelice e tormentato,
consumato dal dolore e da un’aspettativa non corrisposta. I testi sono
salvifico intervallo nella dilatazione emotiva e richiamano l’autentica e
trascinante forza magnetica della natura, conforto originario di serenità e
grembo di affinità romantica, oltrepassano le stagioni ostinate delle promesse
e della dignità riconosciuta “sulla via dei luoghi amati”, dove l’avvenenza
sussurra, sincera e fedele, l’estetismo poetico nello specchio dei movimenti
sinuosi delle adorate montagne. La poetessa è testimone della riservata e
rigorosa decadenza che addensa l'ostilità delle ombre e scava nelle atmosfere
desolate dello spirito. Il mondo, elegantemente violento e superbo, è fatto di
desideri e illusioni, si nutre di lacrime e di attese e la poesia visiva di
Antonia Pozzi è un’immutabile e rarefatta inquietudine scandita dallo
squilibrio degli indugi. Il destino della poetessa non ha via d’uscita se non
nell’unico finale possibile e stringe intorno a sé l’esasperata povertà della
sostanza di un sogno infranto, di una lacerante lusinga di chi desidera il
ritorno alla vita, al vivere in poesia. I versi ascoltano il respiro di
una sacrificata sensibilità, affondano
nella memoria il rovescio di una pena abbracciata all’esistenza ferita. Le
poesie di Antonia Pozzi giunte solo postume tornano a far luce e rumore da
“un’esile scia di silenzio”. Presagio rappresentativo è la fatalità improvvisa
di chi muore giovane e suicida condividendo nell’intreccio al male di vivere
che accomuna altre importanti poetesse, l’impossibilità di colmare il vuoto
interiore, premeditato nell’incompatibilità della disperazione di una morte
intenzionale.
(Di
Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti”)
*Testi
scelti da Rita Bompadre
Lampi
Stanotte
un sussultante cielo
malato
di nuvole nere
acuisce
a sprazzi vividi
il
mio desiderio insonne
e
lo fa duro e lucente
come
una lama d’acciaio.
S.
Margherita, 23 giugno 1929
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Sfiducia
Tristezza
di queste mie mani
troppo
pesanti
per
non aprire piaghe,
troppo
leggére
per
lasciare un’impronta –
tristezza
di questa mia bocca
che
dice le stesse
parole
tue
–
altre cose intendendo –
e
questo è il modo
della
più disperata
lontananza.
16
ottobre 1933
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Pensiero
Avere
due lunghe ali
d’ombra
e
piegarle su questo tuo male;
essere
ombra, pace
serale
intorno
al tuo spento
sorriso.
maggio
1934
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Convegno
Nell’aria
della stanza
non
te
guardo
ma
già il ricordo del tuo viso
come
mi nascerà
nel
vuoto
ed
i tuoi occhi
come
si fermarono
ora
– in lontani istanti –
sul
mio volto.
29
maggio 1935
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Brezza
Mi
ritrovo
nell’aria
che si leva
puntuale
al meriggio
e
volge foglie e rami
alla
montagna.
Potessero
così
sollevarsi
i
miei pensieri un poco ogni giorno:
non
credessi mai
spenti
gli aneliti
nel
mio cuore.
8 giugno 1935
Edizione
recensita:
Antonia Pozzi, Tu sei l’erba e la terra, Garzanti 2020
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