«E un’anima in un’anima rimiri»
C’è
un intento propiziatorio e augurale nella voce di Giorgos Seferis che tiene a
battesimo L’Argonauta, rubrica nata dalla collaborazione con
Alessia Rovina, classicista, al debutto su Margini in/versi. Quando ci mettiamo
in ascolto degli antichi, cerchiamo di rinvenire un’idea di saggezza, desideriamo
filtrare la loro esperienza, che così collocata nella lontananza di un tempo
che ci ha preceduto è sufficiente a consolarci e talora a rassicurarci. Ciò da
cui sentiamo di poter trarre un insegnamento è una sorta di tempio sacro le cui
fondamenta poggiano su un assunto sconvolgente eppure salvifico: «i drammi di una volta rimangono pressoché immutati»,
tanto da raggiungerci e attraversarci segnando l’appartenenza a «un vero e
proprio “consorzio umano”», riflette Alessia. Questo rimirarsi di anime è il
bello del viaggio, da Omero a Kavafis, da Pindaro a Foscolo – estremi di una
lunghissima e avventurosa epica spirituale. Makar, felice, da cui deriva
l’italiano “magari” – quanto greco antico c’è nella nostra lingua, sigillato in
quel magma che fu l’italiano volgare – condizione che se raggiunta porge una catarsi,
conquistata solo a momenti, e tanto effimera perché figlia del mutamento,
vincolata ai rovesci della sorte. Pathei-Mathos, felicità e dolore,
binomio orfico, irrisolvibile poesia dell’umano.
Attraverso
le parole che ho avuto il piacere di intrecciare con Alessia, e non a caso, in
quanto come mi ha scritto «il femminino più che mai in questi tempi dovrebbe
richiamare unione e il gesto di “ammantare”, con la propria forza e la propria
cura, caratteristiche», percorriamo le sponde di un sentimento oscillante che
emerge dai grandi sommovimenti del cuore e del mondo, in una perenne ricerca di
liberazione, risorgimento, rinascita.
(Di
Claudia Ciardi)
Anima-farfalla - Foto di Claudia Ciardi © 20 aprile 2020
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Che rumore fa la felicità?
Di
Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»
È
la domanda che ricorre con armonica persistenza nell’omonimo brano, e che i
Negrita si pongono, all’interno di un video musicale in cui i protagonisti sono
dei bimbi che giocano e ridono in un parco giochi. Da sempre, la domanda eterna
sulla felicità ci angustia. Quando ci troviamo ad esprimere dei desideri, sotto
alla magnifica pioggia di stelle o dando le spalle ad una Fontana
barocca, domandiamo, ad occhi chiusi, di essere felici. Che è un essere
spensierati, un essere senza dolori. Poi, quando guardiamo anche solo con
repentina curiosità gli Oroscopi, troviamo un’altra parola a far rima con la
nostra concezione di felicità: la Fortuna. Fortuna in amore, fortuna economica,
magiche e tintinnanti assonanze che ci portano al desiderio di una vita felice.
Ora, credo, più che mai saremmo disposti a tutto, per uno spiraglio di
felicità. In questo periodo malato, dove solo le cifre dei deceduti hanno preso
il sopravvento, assieme alle cifre della crisi economica lì, pronta ad
assalirci. Ecco, questo nostro pensare ci viene in realtà da molto lontano: è
inciso a parole nel codice genetico che ci accompagna da quando un misterioso
Poeta a cui noi continuiamo affettuosamente a dare il nome di Omero scriveva,
dando voce al suo Odisseo in uno dei più meravigliosi testi di sempre, che il
più felice in cuore sarà chi condurrà nella sua casa come sposa la
bellissima Nausicaa, confusa addirittura per una dea dal nostro disgraziato
naufrago (Od., VI, v. 158). Questa insuperabile beatitudine viene
appuntata al superlativo del vocabolo μακάριος (makàrios) – il quale designava per eccellenza, sempre per
la “penna” omerica, gli dèi (Od. V, 186). Perché emblematica era la loro
condizione di eterna beatitudine, in quanto immuni ai patimenti che
scagliavano, spesso per mano della Moira, sui mortali, sui nostri Antichi, su
noi uomini: oggetti di pestilenze, di delusioni, di povertà, di rifiuti, di
passioni – siamo passionali, ma siamo anche pazienti – di… Impossibilità di
stringerci. Di morte, il più delle volte dolorosa. Ecco allora che tra il
Mediterraneo ed i templi ionici fioriva questo sciagurato augurio, rivolto alle
puerpere o agli innamorati; sciagurato perché irrealizzabile, perché è
impossibile una vita libera dalle cure – originario e pregnante significato di
μακάριος – e ben lo sa il vecchio servo di Agamennone dell’Ifigenia
euripidea – tragedia “tutta in famiglia” fonte di orrore per gli Antichi, ma
drammaticamente attuale per le nostre cronache, in una mancata catarsi
quotidiana – quando rivolgendosi al suo regale padrone gli ricorda che non lo
generarono per essere fortunato in ogni cosa (vv. 29-30), giacché tocca
gioire e soffrire indipendentemente dal suo volere, e, come Agamennone stesso
dirà, solo alla morte un uomo si può definire fortunato e beato (vv. 159-161),
poiché la morte è vuoto, fine di ogni patimento. La nostra condizione di innata
sofferenza rimane, nonostante gli auguri che rivolgiamo di essere tre volte
beati. Qualcosa però, nel frattempo, si è messa in moto: durante questa
chiusura totale – provo ad utilizzare i termini che il Sabatini suggerisce,
forse per dare una nota più intima a queste chiacchiere che ci stiamo
virtualmente scambiando – che siamo credenti o meno, abbiamo attraversato il
periodo Quaresimale e della Pasqua, che, oserei dire, da quest’anno non saranno
più “solo” Cristiani; la Crocifissione del corpo e del cuore ha toccato, chi
più, chi meno, tutti noi; più difficile è contare chi sia stato toccato da una
Risurrezione. Ebbene, è proprio nelle parole di Quel Crocifisso che rivive il
μακάριος tanto caro ai Greci, dopo secoli, utilizzato con pregnante insistenza
anaforica nel celebre Discorso della Montagna, pronunciato da Gesù
Cristo in prossimità del Mare di Galilea, in cui i beati, i felici,
i prosperi, risiedono nelle categorie più impopolari: i poveri, i
perseguitati, i malati (Mt. 5, 1-12). Non Dio. Nel Nuovo Testamento,
in realtà, Dio non è mai definito μακάριος. Bisogna dunque frettolosamente
riscontrare dell’assurdo e dell’illusorio in questo brano di E-Vangelo –
“buona notizia” – spesso utilizzato come portabandiera della religione oppio
dei popoli? Non credo. Filologicamente, la ricompensa che convalida la
felicità, la beatitudine di questi ultimi – ed occorre ricordare, in accordo
con l’Agamennone euripideo, che tutti noi siamo ultimi, e ce ne
accorgiamo in questa cieca pestilenza – è al futuro. Noi, dunque,
credenti o non credenti, assistiamo su quel Monte ad una professione di
speranza, in cui possiamo scegliere di rischiare tutta la nostra vita, così
com’è, in un poi che anima anche l’ora, perché già quella speranza è
senso per trascorrere l’adesso. Perché è un istinto troppo forte,
esercitato spesso così inconsapevolmente da tutti noi, quand’anche solo apriamo
gli occhi per affrontare un nuovo giorno, sempre di totale incertezza. Forse
allora, è questo il rumore della felicità, che nell’Antico Testamento,
dal Siracide, traduce come μακάριος, beato, «chi non ha perduto la sua
speranza» (Sir. 14, 2). Beatitudine e gioia allora attraversano le
necessarie spine della nostra esistenza, che ci sono e rimarranno, ma che non
riescono a soffocare il buon pensiero necessario: quello della vita che
continuerà, racchiusa in un solo seme di speranza.
(Di
Alessia Rovina, classicista e studiosa di teatro – Mantova, 17 aprile 2020
account twitter:
@rovina_alessia)
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