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24 aprile 2020

«E un’anima in un’anima rimiri»


«E un’anima in un’anima rimiri»
C’è un intento propiziatorio e augurale nella voce di Giorgos Seferis che tiene a battesimo L’Argonauta, rubrica nata dalla collaborazione con Alessia Rovina, classicista, al debutto su Margini in/versi. Quando ci mettiamo in ascolto degli antichi, cerchiamo di rinvenire un’idea di saggezza, desideriamo filtrare la loro esperienza, che così collocata nella lontananza di un tempo che ci ha preceduto è sufficiente a consolarci e talora a rassicurarci. Ciò da cui sentiamo di poter trarre un insegnamento è una sorta di tempio sacro le cui fondamenta poggiano su un assunto sconvolgente eppure salvifico: «i drammi di una volta rimangono pressoché immutati», tanto da raggiungerci e attraversarci segnando l’appartenenza a «un vero e proprio “consorzio umano”», riflette Alessia. Questo rimirarsi di anime è il bello del viaggio, da Omero a Kavafis, da Pindaro a Foscolo – estremi di una lunghissima e avventurosa epica spirituale. Makar, felice, da cui deriva l’italiano “magari” – quanto greco antico c’è nella nostra lingua, sigillato in quel magma che fu l’italiano volgare – condizione che se raggiunta porge una catarsi, conquistata solo a momenti, e tanto effimera perché figlia del mutamento, vincolata ai rovesci della sorte. Pathei-Mathos, felicità e dolore, binomio orfico, irrisolvibile poesia dell’umano. 
Attraverso le parole che ho avuto il piacere di intrecciare con Alessia, e non a caso, in quanto come mi ha scritto «il femminino più che mai in questi tempi dovrebbe richiamare unione e il gesto di “ammantare”, con la propria forza e la propria cura, caratteristiche», percorriamo le sponde di un sentimento oscillante che emerge dai grandi sommovimenti del cuore e del mondo, in una perenne ricerca di liberazione, risorgimento, rinascita.

(Di Claudia Ciardi)




Anima-farfalla - Foto di Claudia Ciardi © 20 aprile 2020


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Che rumore fa la felicità?
Di
Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»

È la domanda che ricorre con armonica persistenza nell’omonimo brano, e che i Negrita si pongono, all’interno di un video musicale in cui i protagonisti sono dei bimbi che giocano e ridono in un parco giochi. Da sempre, la domanda eterna sulla felicità ci angustia. Quando ci troviamo ad esprimere dei desideri, sotto alla magnifica pioggia di stelle o dando le spalle ad una Fontana barocca, domandiamo, ad occhi chiusi, di essere felici. Che è un essere spensierati, un essere senza dolori. Poi, quando guardiamo anche solo con repentina curiosità gli Oroscopi, troviamo un’altra parola a far rima con la nostra concezione di felicità: la Fortuna. Fortuna in amore, fortuna economica, magiche e tintinnanti assonanze che ci portano al desiderio di una vita felice. Ora, credo, più che mai saremmo disposti a tutto, per uno spiraglio di felicità. In questo periodo malato, dove solo le cifre dei deceduti hanno preso il sopravvento, assieme alle cifre della crisi economica lì, pronta ad assalirci. Ecco, questo nostro pensare ci viene in realtà da molto lontano: è inciso a parole nel codice genetico che ci accompagna da quando un misterioso Poeta a cui noi continuiamo affettuosamente a dare il nome di Omero scriveva, dando voce al suo Odisseo in uno dei più meravigliosi testi di sempre, che il più felice in cuore sarà chi condurrà nella sua casa come sposa la bellissima Nausicaa, confusa addirittura per una dea dal nostro disgraziato naufrago (Od., VI, v. 158). Questa insuperabile beatitudine viene appuntata al superlativo del vocabolo μακάριος (makàrios) –  il quale designava per eccellenza, sempre per la “penna” omerica, gli dèi (Od. V, 186). Perché emblematica era la loro condizione di eterna beatitudine, in quanto immuni ai patimenti che scagliavano, spesso per mano della Moira, sui mortali, sui nostri Antichi, su noi uomini: oggetti di pestilenze, di delusioni, di povertà, di rifiuti, di passioni – siamo passionali, ma siamo anche pazienti – di… Impossibilità di stringerci. Di morte, il più delle volte dolorosa. Ecco allora che tra il Mediterraneo ed i templi ionici fioriva questo sciagurato augurio, rivolto alle puerpere o agli innamorati; sciagurato perché irrealizzabile, perché è impossibile una vita libera dalle cure – originario e pregnante significato di μακάριος – e ben lo sa il vecchio servo di Agamennone dell’Ifigenia euripidea – tragedia “tutta in famiglia” fonte di orrore per gli Antichi, ma drammaticamente attuale per le nostre cronache, in una mancata catarsi quotidiana – quando rivolgendosi al suo regale padrone gli ricorda che non lo generarono per essere fortunato in ogni cosa (vv. 29-30), giacché tocca gioire e soffrire indipendentemente dal suo volere, e, come Agamennone stesso dirà, solo alla morte un uomo si può definire fortunato e beato (vv. 159-161), poiché la morte è vuoto, fine di ogni patimento. La nostra condizione di innata sofferenza rimane, nonostante gli auguri che rivolgiamo di essere tre volte beati. Qualcosa però, nel frattempo, si è messa in moto: durante questa chiusura totale – provo ad utilizzare i termini che il Sabatini suggerisce, forse per dare una nota più intima a queste chiacchiere che ci stiamo virtualmente scambiando – che siamo credenti o meno, abbiamo attraversato il periodo Quaresimale e della Pasqua, che, oserei dire, da quest’anno non saranno più “solo” Cristiani; la Crocifissione del corpo e del cuore ha toccato, chi più, chi meno, tutti noi; più difficile è contare chi sia stato toccato da una Risurrezione. Ebbene, è proprio nelle parole di Quel Crocifisso che rivive il μακάριος tanto caro ai Greci, dopo secoli, utilizzato con pregnante insistenza anaforica nel celebre Discorso della Montagna, pronunciato da Gesù Cristo in prossimità del Mare di Galilea, in cui i beati, i felici, i prosperi, risiedono nelle categorie più impopolari: i poveri, i perseguitati, i malati (Mt. 5, 1-12). Non Dio. Nel Nuovo Testamento, in realtà, Dio non è mai definito μακάριος. Bisogna dunque frettolosamente riscontrare dell’assurdo e dell’illusorio in questo brano di E-Vangelo – “buona notizia” – spesso utilizzato come portabandiera della religione oppio dei popoli? Non credo. Filologicamente, la ricompensa che convalida la felicità, la beatitudine di questi ultimi – ed occorre ricordare, in accordo con l’Agamennone euripideo, che tutti noi siamo ultimi, e ce ne accorgiamo in questa cieca pestilenza – è al futuro. Noi, dunque, credenti o non credenti, assistiamo su quel Monte ad una professione di speranza, in cui possiamo scegliere di rischiare tutta la nostra vita, così com’è, in un poi che anima anche l’ora, perché già quella speranza è senso per trascorrere l’adesso. Perché è un istinto troppo forte, esercitato spesso così inconsapevolmente da tutti noi, quand’anche solo apriamo gli occhi per affrontare un nuovo giorno, sempre di totale incertezza. Forse allora, è questo il rumore della felicità, che nell’Antico Testamento, dal Siracide, traduce come μακάριος, beato, «chi non ha perduto la sua speranza» (Sir. 14, 2). Beatitudine e gioia allora attraversano le necessarie spine della nostra esistenza, che ci sono e rimarranno, ma che non riescono a soffocare il buon pensiero necessario: quello della vita che continuerà, racchiusa in un solo seme di speranza.

(Di Alessia Rovina, classicista e studiosa di teatro – Mantova, 17 aprile 2020
account twitter: @rovina_alessia)

11 marzo 2020

Silvio Pellico - Le mie prigioni


Da alcuni anni mi ripromettevo di leggere integralmente questo libro. Ricordavo solo qualche brano in vecchie antologie scolastiche e poche frettolose notizie circa la biografia dell’autore. A gennaio, non so perché, ho sentito il bisogno di tornare a quelle pagine. In genere, quando vado verso qualcosa o qualcuno, passato gran tempo dal mio primo proposito, non è indifferente la ragione che mi spinge di nuovo a incontrarlo. Così, qualche settimana fa, ho avvertito che il libro di Pellico aveva finalmente da parlarmi.
Scriverne ora potrebbe suonare quasi beffardo, ma chi poteva presagire solo poche settimane fa la situazione che stiamo vivendo? Per prima cosa mi viene da pensare alle date, che un po’ mi ossessionano, dico la verità. Non sempre, ma ci sono dei momenti in cui sembrano portarci sprazzi del passato con toni più vividi, per correlazioni che forse son solo nella nostra testa ma che pure non riusciamo a ignorare del tutto. Così risalire a un evento è talvolta cercare le ragioni di un vissuto che riguarda noi o altri, almeno coltivare ipotesi di somiglianza, per così dire.
Silvio Pellico fu arrestato nell’ottobre del 1820. Nel suo rendiconto lascia talora spazio a strane coincidenze, pur non annoverate esplicitamente come tali, ma che registra in forma di episodi dai risvolti per certi aspetti premonitori. Intervengono è evidente lo stato psicologico del detenuto e la difficoltà di dominare le forti impressioni causate dall’arresto. Ricorda la piazzetta veneziana, nei pressi del palazzo del Doge, che un pover’uomo gli indicò quale luogo di sventura – mesi dopo Pellico e Maroncelli, suo compagno di prigionia, vi avrebbero ascoltato la sentenza.
Ma c’è anche l’attaccamento spontaneo, generoso e insperato, di molti: custodi, intendenti, civili che vivevano nei pressi delle prigioni e che lo incoraggiano rivolgendogli un saluto, furtive parole di affetto; immensa carità, lo scrive più volte, per un’anima stremata. Umano conforto che ritrova allo Spielberg nella persona del vecchio Schiller, il sorvegliante dai modi burberi ma di gran cuore, nelle guardie che lo accompagnano per l’ora d’aria, nei medici, nei cappellani. Proprio tale umanità gli permise di non recidere il filo sottile che lo legava alla vita, di non sconfortarsi oltre ogni limite, di reggere nel corpo e nello spirito, di superare le mancanze del cibo cattivo – non furono pochi i prigionieri italiani morti per malnutrizione – di vincere le malattie – stati febbrili, coliche, affezioni respiratorie che sovente lo affliggevano, contribuendo a demoralizzarlo.
La grandezza di questo memoriale sta nel raccontare i travagli del corpo, confinato in uno spazio angusto e svilito da ogni genere di tormento fisico e interiore, senza lamento, senza accuse postume. Lo scrittore si racconta, si mostra nei momenti più oscuri della caduta, a un passo dal cedere, ma ogni volta mette a fuoco, nella sofferenza, quei pochi eppure potentissimi elementi che gli permettono di sostenersi per uscire dal baratro. Perfino l’infermità di Maroncelli, che gli comporta la mutilazione di un arto, sopportata con coraggio, quasi sfidata, diviene un elemento che rafforza la complicità dei due condannati e li fa approdare a uno stato di quiete – non di pura rassegnazione – ma di calma nei confronti del mondo. Un libro scritto sulla pelle, in senso letterale.  
Al momento dell’arresto Silvio Pellico non era una figura così nota nel panorama culturale italiano. Eppure, quella notizia, riaccese l’attenzione sulla sua personalità e gli avvicinò tanti nelle ore complicate del processo e della condanna. Quello che era un mite e riservato autore di testi di teatro, uno dei quali, la Francesca da Rimini, giunto a un discreto successo popolare, l’attivista politico di cui poco si sapeva ma che a Milano frequentava i migliori elementi dell’aristocrazia illuminata e dell’intellettualità progressista italiana ed europea, conobbe, per un inquietante tiro del destino, proprio nelle sue ore peggiori, una specie di battesimo, un riconoscimento durevole, che alla liberazione si sarebbe accresciuto accompagnandolo per il resto della vita. Ne sono commovente testimonianza le folle che fanno da scorta al suo viaggio verso le carceri imperiali. Da quell’«immenso popolo» in preda al terrore, ma presente alla lettura pubblica della sentenza, dai paesani che salutavano il passaggio della carrozza e che le guardie facevano fatica a tenere lontani, agli amici che vengono a congedarsi. Struggente l’episodio degli attori di una compagnia teatrale che a Udine si travisano da inservienti e preparano la stanza dove Pellico e Maroncelli trascorreranno la notte prima di passare il confine. Uno sfiorarsi di mani, una stretta rubata lungo le scale, in silenzio, coi visi rivolti a terra per dissimulare i gesti e non farsi scoprire dalle guardie. Quanta poesia in ogni riga di questo episodio. Il contatto, negato per regolamento ai prigionieri, talvolta possibile grazie alla condiscendenza delle guardie, torna a più riprese, sprigionando una forza che si trasmette al lettore senza filtri retorici. Una sensazione che con immediatezza passa dal protagonista a chi ripercorre i fatti insieme a lui; potere irrefrenabile del gesto, l’umano che travalica la parola e di là dal linguaggio comunica tutto se stesso.
Nell’agosto del 1820 l’Austria aveva emanato un editto assai duro contro i reati politici, che contemplava la pena di morte per gli affiliati alla Carboneria. Chi incappava nella giustizia si aspettava allora il peggio. La polizia austriaca avrebbe comminato pene esemplari, per fiaccare l’adesione ai moti patriottici. Pellico lo sa e non teme tanto per se stesso, quanto per il dolore che ne avrebbero avuto i genitori una volta venuti a conoscenza della sua esposizione politica.
Il raffronto tra la pacifica condizione di intellettuale attivo nei circoli milanesi, fino all’anno che precede la sventura, e l’abbrutimento generato dalla prigionia, con l’angoscia che si addensa sui giorni trascorsi in cella, è uno dei centri radiali della narrazione. In questo spossante contrasto, la figura di Pellico è sul punto di spezzarsi. Eppure, quando ormai pare non potersi riprendere, trova energie nuove dentro di sé, riuscendo a risollevarsi. Il pensiero dei propri cari, la convinzione di non aver smarrito i principi guida della morale in ogni scelta compiuta, la consolazione della fede.            
Le memorie di quest’uomo minuto, la cui fisicità lo faceva apparire inerme ai disagi della reclusione, ma che aveva una forza nella propria mente, una disposizione caratteriale che gli hanno permesso di non sgretolarsi mai, di parare i colpi della sorte e volgere gli eventi alla propria salvezza, si sono mostrate un faro acceso nella tempesta. All’inizio dell’anno, quando ho ripreso in mano quest’opera, le sue parole sono giunte inaspettate, l’eco di un tempo trascorso che però a tratti mi pareva anche estremamente contiguo al mio. E poi, le immagini della sua vicissitudine affidate a una prosa così asciutta, incisiva, dove il resoconto di fatti monotoni e angoscianti – la lunga carcerazione in Moravia e prima ancora il fermo a Milano e le fasi dell’interrogatorio fino alla sentenza a Venezia – apre poeticissimi squarci che sorprendono il lettore proprio perché calati in un contesto ossessivo, di claustrofobica incertezza. Due righe bastano a circoscrivere un fatto, l’espressione di una persona, l’attimo di una giornata trascorsa nella più fosca disperazione in mezzo alla quale una voce cade improvvisa, recando sollievo al prigioniero.   
Quando si decise a divulgare la sua esperienza del carcere, era il 1832. La stesura iniziò nell’estate del 1831 e il manoscritto fu dato alle stampe dall’editore Bocca di Torino ai primi di novembre del 1832. L’opera ebbe un riscontro di pubblico immediato, non solo in Italia. Le traduzioni si moltiplicarono ovunque anche se ciò non significò un incremento dei guadagni da parte dell’autore – per contratto Pellico si vide corrisposte le sole 900 lire dovute alla consegna del libro. Anche questa una storia molto italiana, purtroppo. Entusiasmo e apprezzamenti arrivarono da tanti personaggi di spicco – Puškin lesse il libro pervaso da ammirata riverenza per colui che definì “il martire mansueto”, la nobiltà piemontese gli offrì la propria amicizia, Luigi Filippo di Francia lo richiese come precettore del suo ultimo figlio. Metternich invece nelle settimane di quel successo masticava amaro. Fu tentato inutilmente il sequestro censorio, vennero scritte due confutazioni da parte austriaca – una delle quali di pugno del governatore della Moravia – ma si decise di non pubblicarle, pervennero note di protesta ad alcuni governi, tra cui ovviamente la monarchia piemontese. Si provvide a un ritiro pro forma del volume che nei fatti continuò a circolare.
Nel turbamento con cui Silvio Pellico ripercorre i dieci anni di carcere, colpisce l’attenzione per tanti minimi dettagli che tuttavia s’impongono alla vista come preziosi intarsi. Dopo dieci anni la sua memoria è integra, nitida, non ha rimosso niente, non risparmia persone e circostanze. Il dolore per non aver potuto salutare un compagno, la pena per l’essere impedito dall’alleviare le sofferenze di qualcuno. Altra stupenda poesia: il vecchio Schiller che ormai malato si trascina in un piccolo cortiletto a leggere e riposare; la fine è vicina. Pellico lo intravede, lo segue qualche attimo con lo sguardo, vorrebbe sorreggerlo. Così l’Austria sfumerà in un’immagine rothiana fermata nel parco di Schönbrunn. Alla scarcerazione i prigionieri, accompagnati per Vienna affinché prendano atto della magnificenza dell’impero asburgico, passeggiano per le vie della residenza imperiale. D’improvviso «ne’ magnifici viali […] passò l’imperatore, ed il commissario ci fece ritirare, perché la vista delle nostre sparute persone non l’attristasse». 
Al dramma della prigione sottentrano quindi le limpide memorie dell’infanzia e della giovinezza, il caro parente che gli dà riparo a Lione, quando la bottega del padre a Torino inizia ad andar male, provvedendo alla sua educazione umanistica. Lo studio e la conoscenza di coltissimi amici a Milano, dove incrocia i nomi di punta che collaboravano al «Conciliatore» e dove lui stesso diviene precettore nella casa del conte Luigi Porro Lambertenghi.  
Nelle attuali dialettiche cui la politica e l’opinione pubblica attingono per rappresentarsi, appare chiaro come si faccia ricorso molto più frequentemente alla resistenza che al risorgimento. Non solo per una vicinanza generazionale, a mio avviso. La semplificazione del dibattito comporta una lettura più comoda e facilmente utilizzabile dei fatti relativi alla resistenza, laddove il risorgimento si configura come lotta nazionalista. Negli stessi racconti relativi alla resistenza gli elementi patriottici tendono a essere ridimensionati, sfumati in una guerra più grande e complessa in cui convivevano diverse istanze. E va bene, ma liberarsi dagli oppressori era liberare la patria. Nel Novecento come un secolo prima. Questo contenuto nazionalista ci si pone come un divieto, oggi. E divide fortemente gli intellettuali. Opere come Le mie prigioni e i tanti scritti prodotti da quella cultura resistente e congiunta nello sforzo di unire l’Italia, sono percepiti quasi come letteratura minore; dove ci sono i primi tasselli di una memoria collettiva, voltiamo le spalle, convinti che non si tratti di cose poi tanto importanti. Ma è l’ignoranza di quei testi, il fatto che ci si tiene a distanza dalle fonti, a non farci acquisire un giudizio storico schietto, che sappia guardare agli avvenimenti per ciò che realmente hanno prodotto. Peggio ancora, è questa ignoranza del fatto storico e dei suoi protagonisti che impedisce di ricordarci a noi stessi.
La decisione di scrivere l’autobiografia del decennio passato in carcere fu tutt’altro che semplice per Silvio Pellico. Era tornato in famiglia a Torino con molti problemi fisici. Impiegò più di due anni per riprendersi dalle artriti e dai problemi polmonari. Nei cosiddetti capitoli aggiunti parla delle difficoltà di ristabilirsi completamente e di come la madre, preoccupata, vegli di continuo sul suo stato di salute, perfino mentre dorme. C’è anche qui un momento di poesia assoluta. La prima notte di settembre del 1830, a casa, dopo un lungo viaggio affrontato tra febbri e timori che la liberazione venisse ritardata a causa dei moti occorsi in Francia alla fine di luglio. La madre si aggira per le stanze e vigila sul sonno del figlio, assicurandosi che stia bene. Questa scena, seguita subito dopo dal risveglio e dall’abbraccio tra i due, nel silenzio assoluto del mattino, placa di colpo tutte le angosce patite, i dolori, le asprezze di quei miseri anni di separazione. Simili doni che non pensava più di ricevere, permettono al prigioniero di riscattarsi, di rientrare a poco a poco nella propria vita.
Le polemiche sulla sua conversione in carcere, gli attacchi politici, anche veementi a mezzo stampa, di chi non aveva voluto comprendere il suo memoriale, non lo fiaccarono. Si tenne alla larga dalle contrapposizioni, lasciò che si esaurissero. L’essere tornato al centro dei propri affetti, l’aver lottato con dignità, la crescente risonanza pubblica bastarono al suo messaggio.     

(Di Claudia Ciardi)


* Le foto a corredo di questo articolo sono di Daniele Regis ©

La foto di copertina ritrae la tomba di Silvio Pellico al Cimitero Monumentale di Torino



Edizione consultata: 

Silvio Pellico, Le mie prigioni, a cura di Angelo Jacomuzzi, Mondadori, Milano 2012 [prima edizione 1986]

*molto valida per il ricco apparato di note provvisto dal curatore





 









 

Per i cosiddetti "capitoli aggiunti":

Edizioni Paoline, Bari 1951 




Iscrizione celebrativa della stesura di Le mie prigioni in Via Barbaroux a Torino, presso quella che fu labitazione di Silvio Pellico





Via Barbaroux - Torino

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