Torno
con piacere a commentare un po’ di musica dopo l’ascolto di un lavoro che è
sicuramente tra i più riusciti dell’anno, e di nuovo mi avvicino a certe
sonorità “berlinesi” a partire da un concept album, come già mi è
capitato nel caso di Lou Reed con Berlin, sebbene le definizioni stiano
sempre abbastanza strette alla creatività di artisti a tutto tondo. Qui parlo di Zeit
dei Rammstein, ottavo disco per la band, lavoro nel filone della
cosiddetta Neue deutsche Härte; e sarà anche nuova durezza o ruvidezza tedesca
ma gli spunti lirici non mancano e in queste tracce siamo di fronte a un’opera
a tratti intimista e di sicuro molto matura sul piano dei testi e delle
sonorità. Quindi la prima cosa che si pensa è “che bel risveglio dopo due anni
di pandemia”. Mi sono imbattuta nel brano di Zeit lo scorso aprile –
un risveglio di primavera appunto, che mi ha sorpresa, molto coinvolgente,
direi ammaliante. Così mi è venuta la curiosità di un ascolto completo, curiosità
riaffiorata in pieno dopo il rilascio dell’ultimo video in questi giorni,
basato sul singolo Adieu; tema del congedo che in una sorta di
Ringkomposition abbraccia tutte le sfumature di questo tempo cantato,
sviscerato, lasciato fluire in musica fino alla constatazione del suo
dissolvimento.
Della
voce di Till Lindemann, nativo di Lipsia, classe 1963, frontman dei Rammstein, si dice che sia una certezza
e una fortezza. Di sicuro una delle voci maschili più belle del nostro tempo – per
ribadire il tema musicale – una voce che il tempo lo riempie nel tentativo di dargli un
senso. Ma riavvolgiamo un attimo il nastro: l’irruzione del covid aveva
spazzato via, come allora per tutti i concerti, le tappe di un tour che era già
sold out. Così la band ha preferito nei mesi sospesi e incerti delle chiusure raccogliere
energie e concentrazione per riflettere e rappresentare quella precarietà, quel
vivere angoscioso che si sapeva avrebbe generato distanze, perdite materiali ed emotive, strappi che non si sarebbero
recuperati. E in queste canzoni c’è molto di quanto abbiamo attraversato, e c’è
il coraggio e la capacità di essersi immersi negli eventi, analizzandoli senza
filtri, in una spigolatura non semplice, perché parlare del tempo significa
esser coscienti che si potrà fissare appena un momento, e in mano resterà solo,
infine, una manciata di sabbia, e poi più neppure quella. Il video di Zeit esprime
in accordo a ciò una bellezza filmica davvero intensa. Mentre in altri contesti
le clip del gruppo mi sembrano compiacersi (ed eccedere) nel gotico, fino al
lugubre e al violento, e in parodie blasfeme che non amo, qui tutto sta in
armonico contrappunto nell’allegoria di vita e morte, di nascita, maternità,
fuga degli anni, dissoluzione, polvere (in tedesco sono evidenti i rimandi colti
alla poesia antica da pulvis et umbra sumus al cotidie morimur di
Seneca passando per i moniti biblici di intonazione apocalittica). C’è la
continuità della vita nel rapporto genitoriale, il desiderio erotico che è la
prima pulsione dell’essere verso un altro essere, e c’è il distacco. Tutte
componenti poi segmentate ed esplorate nelle altre tracce – le più ironiche
come Zick Zack, Dicke Titten e Ok (qui per quanto discutibile
possa essere il messaggio Ohne Kondom, emerge di nuovo un richiamo affatto
superficiale all’eros descritto nella sua fisicità, nel senso più autentico del
darsi, fino all’orgasmo maschile). E poi di nuovo una scrittura e atmosfera più
sostenuta in ballate di grande densità emotiva, sicuramente Lügen,
dove Till Lindemann ha confezionato un testo che spazia dai modelli della
poesia romantica tedesca (l’incipit con l’avverbio letterario barfuß fa da
apripista a una serie di immagini alte, poi destrutturate e disinnescate nella
banalità di una relazione di facciata) e Meine Tränen, sul rapporto
madre-figlio («Un uomo piange solo quando muore sua madre […] quando la sua
stessa carne perisce nel suo sangue», eco di un’altra ballata che ha fatto la
storia del gruppo, Mutter). Lindemann è uno che padroneggia molto bene i
ferri dello scrivere, è un colto che può permettersi di citare, mischiare e
smontare modelli letterari con una disinvoltura notevole. Dopo questo ascolto,
certe cose più commerciali che si giovano di più ampia pubblicistica, ci
appariranno molto abborracciate e come sotto formalina.
In
Italia l’ultimo lavoro dei Rammstein è stato ben accolto; basti vedere i tanti
articoli scritti un po’ ovunque, con rinnovato plauso per la coerenza
progettuale di un gruppo che non si è fatto inghiottire dai cliché.
Ma
vorrei dire ancora, a sostegno dello scavo emotivo e dell’analisi del tempo
storico che sorregge quest’album, che perfino il Trudelturm, scelto come
immagine di copertina (fotografato nell’occasione da Bryan Adams), sorta di
monolite che rimanda a un set di fantascienza ma anche alle pesanti ombre del
recente passato, ci parla con oscura premonizione. Quando hanno iniziato a
scrivere nulla si poteva presagire della guerra che incombeva a oriente; eppure
le ossessioni della guerra fredda, certi spettri di là e di qua dal muro, sarebbero
tornati ad agitarsi. E in tutto questo noi viviamo la transitorietà del tempo
in modo ancora più esasperante, come fossimo in una gabbia senza uscita, non
interpreti del suo fluire, piuttosto sue cavie, appesantiti da inettitudini
e falsità. E intanto la vita si dissolve e i nostri bambini muoiono sotto il
fango e muoiono sotto i bombardamenti, e muoiono di inedia, di mancanza di prospettive,
non vengono neppure al mondo perché la vita ci manca, perché se anche ci
sarebbe un tempo di cui potremmo essere interpreti, non riusciamo a immaginarlo né a immaginarlo per loro.
È
un album che fa riflettere – virtù sempre più rara nelle espressioni artistiche
contemporanee – da ascoltare e riascoltare, un album che sembra destinato ad
acquistare spessore proprio nel concatenarsi degli eventi che si affollano
intorno a noi. E io dico solo grazie per il bel dono a chi me lo ha messo sotto
gli occhi.
(Di
Claudia Ciardi)
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