Nel
saggio L’eredità mitica delle poesia Hermann Broch parla di mythos e logos,
di come nella natura umana tutta la comprensione del mondo si attui entro
questi due poli. Sostenendo che la poesia sia una delle forme archetipiche per
eccellenza, quella che più serba intatta entro di sé la radice mitica,
capostipite di ogni narrare, che sola può abbracciare l’eterno e il momentaneo
in un unico sguardo. L’impulso lirico «come scandaglio dell’anonimo attimo di
vita che è sempre anche lo scandaglio della totalità della vita», dice Broch. E
ancora «l’impulso lirico è come un risveglio dell’anima, è il richiamo mistico
dal quale l’anima riceve l’ordine di aprire gli occhi e di contemplare, in un
fulmineo colpo d’occhio che si colloca fuori dal tempo, la struttura essenziale
dell’essere. Nata dal grido di stupore, dallo sguardo fulmineo che si esprime
in questo grido, la lingua non sarebbe lingua se non fosse dinamica
unificazione di mythos e logos e non avrebbe potuto svilupparsi
se quel grido delle origini, lingua appunto allo stato nascente, non fosse
stato espressione lirica, e perciò umana, non avesse già contenuto misticamente
in sé, allo stato potenziale, tutto il sistema mitico e logico». Che limpidezza
e levità in questo ragionare sull’ineffabile, sul “primo stupore” umano con cui
gli esseri da millenni cantano il mondo. Che grande, Hermann Broch, il quale
con ‘politezza’ di forma ci offre un contenuto così profondo e sfuggente, ci
porge, in una riflessione fluida e piana un pezzetto, se vogliamo, del mistero
della creazione.
La
sua produzione poetica, non a caso suddivisa tra speculazione filosofica e
fiaba sentimentale, pur con un eloquente sconfinamento tra i due motivi che in
alcuni testi vengono a travasarsi, è affatto accessoria al suo universo
creativo. Continuerà a scrivere versi per tutta la sua vita. Oltre a coltivare
la scrittura lirica anche attraverso il teatro, puntualmente senza successo.
Colpisce che abbia avuto una costante difficoltà a farsi leggere, per non
parlare dell’incontro più che stentato con registi ed attori. Pure Vienna
pullulava di vita teatrale e la posizione di Broch non si poteva dire tra le meno
quotate. L’ennesima storia di addetti alla cultura distratti o pigri o
trascinati da altri interessi. Nulla di nuovo sotto il sole. Di lì a pochi
anni, fra l’altro, uno scossone di proporzioni immani, un rovesciamento della
storia – che forse già si preparava nell’indifferenza delle personalità che lo
attorniavano – lo avrebbero costretto, alla lettera, a volgersi ad altri lidi.
Ma
l’attaccamento alla poesia, la facoltà di ascoltarla dentro di sé e darle voce,
non sarebbero venuti meno in lui. Ed è significativo che scelga proprio la
forma in versi per le dediche da recapitare agli amici in accompagnamento
all’uscita del suo capolavoro, La morte di Virgilio (1945).
E
chi avrebbero dovuto essere i suoi padri spirituali nel canto? Certamente
Virgilio, Dante e Whitman. I tre epici eccelsi, dal mondo antico al nuovo
mondo. Perché l’epica – si legge sempre ad incipit del saggio citato – è il
progenitore di tutta la poesia e la forma più vicina alla dizione del mito. In
Walt Whitman, una sorta di faro al suo approdo americano, vide l’ultimo epico
moderno, un cantore capace di segnare «il centro terreno dell’essere» (in
des Seins irdischer Mitte), di celebrare la Irdischkeit (parola
chiave della narrativa brochiana) nella sua qualità ultraterrena, di metafisica
sublimazione.
La
figura di Broch, per la sua apertura culturale e la polifonia, è amatissima dalla germanistica italiana del
secondo dopoguerra, al pari di quella di Hugo von Hofmannsthal. Riuniti attorno
al suo tempio ritroviamo più o meno gli stessi officianti impegnati nella
divulgazione del suo quasi coevo concittadino, le ragazze e i ragazzi prodigio
della nuova germanistica e slavistica fiorite nel nostro paese subito dopo il ’45, i
figli di quelle imprese editoriali frutto di aspirazioni utopiche e visionarie, più che di
tornaconti aziendali. Da Cristina Campo a Leone Traverso ad Alessandro Spina (nome italianizzato di Basili Shafik Khouzam),
scrittore nato a Bengasi da genitori di Aleppo, che sarebbe importante
riscoprire nel nostro paese. Spina, amico di poeti, stimato dalla stessa Campo e dal critico d’arte, ed editore a sua volta, Vanni Scheiwiller, è stato un lettore profondo dei fabbri
dell’italiano moderno, fine interprete e studioso di un altro Alessandro, il Manzoni, e della
questione della lingua, che sentiva ancor più cogente e forse entrata in lui con
un fascino ancor più intenso, date le sue origini coloniali. Perché
l’italiano, per i nativi e forse ancor più per chi si appresta a impararlo, non
può che porsi come un prodigio, il prodigio di una lingua nata dai libri, come
Atena nasce dalla testa Zeus. Una lingua creata nella successiva elaborazione
dei testi letterari, forgiata nel fuoco della letteratura e dibattuta fino all’Ottocento,
con alle spalle una questione linguistica di almeno tre secoli – prendendo in considerazione il periodo storico della sua codifica, ma nei fatti e nelle carte ben più lontana nel tempo. Lingua svincolata, alimentata dai regionalismi,
crescita in assenza di un potere centrale. Cosicché nel parlato, il popolo, ha
continuato ad attingere ai dialetti o meglio alle lingue dialettali –
emblematico il caso dei soldati italiani nella prima guerra mondiale che per la
comprensione reciproca dovevano ricorrere a un interprete.
Alessandro
Spina è stato uno degli ultimi raffinati cultori, interpreti, scrittori
dell’italiano, avendo ben a mente l’annoso garbuglio della questione della
lingua anche più di altri autori patrii. Né è secondario che guardasse agli
scrittori tedeschi, a una cultura letteraria assai diversa ma pure vicina alle antiche letterature mediterranee, e che vi si volgesse proprio in
cerca di risposte agli insoluti che l’italiano gli poneva – più di ogni altro ha amato Broch, forse anche per un’affinità biografica – suo padre, come
quello dello scrittore viennese, era un industriale del ramo tessile.
E
in fondo a questo ragionare che intreccia culture, epoche e affinità elettive
all’apparenza lontane eppure limitrofe, non sorprende che sia Hofmannsthal
che Broch fossero due profondi conoscitori del mondo antico, amato proprio attraverso
la lingua greca e latina. Delle poesie che qui abbiamo selezionato Amore
incipiente potrebbe averla scritta Alceo. E se come diceva Hofmannsthal «una
piuma può levigare un ciottolo, se la conduce la mano dell’amore» (Il libro
degli amici), la poesia è senz’altro la piuma levigatrice che sfida il
tempo e sempre riporta l’uomo a chinarsi con umiltà sulle rive dell’amore.
(Di Claudia Ciardi)
Edizione
consultata per la lettura delle poesie e l'inquadramento della loro stesura all'interno dell'opera creativa brochiana:
Hermann Broch, La verità solo nella forma. Poesie 1913-1949
A
cura di Vito Punzi, De
Piante Editore, 2021
Amore incipiente
[Beginnende Liebe]
ci è così vicino e così lontano
come antico gioco da bambini –
ciò che un tempo ci accadde come in sogno
e non fu più visto indistintamente:lo cerchiamo nel nostro amore
e porgiamo trepide mani.
Noch immer ist uns das Gefühl
so nah und fernwie altes Kinderspiel –
Was einst uns als im Traum geschah
und halbgesehen nicht mehr war:in unserem Lieben suchen wir’s
und bieten bange Hände dar.
[1914]
Canto d’amore
[Liebeslied]
– stanco,
tu ragazza sei diventata mia
– mia
e nel profumo dei tuoi capelli,
capelli luminosi
trasmetti giorni, trasmetti anni
dell’antica regione: costa marina,
città tedesca nella quiete assolata,
campo di raccolta e boschetto di palme,
spiaggia rocciosa e pietra ricoperta d’alghe,
hall della stazione, rintocchi di campanile –
e da ogni remota distanza
(poiché sono diventato stanco di me)
trasmetti giorni, trasmetti anni –
Amo
questa meraviglia?
Da
ich an mir müd geworden
bist du, Mädchen, mir geworden
– mir geworden
und im Dufte deiner Haare,
lichten Haare
bringst du Tage, bringst du Jahre
alter Gegend: Meeresküste,
deutsche Stadt in Sonnenrüste,
Erntefeld und Palmenhain,
Felsenstrand und Algenstein,
Bahnhofhalle, Kirchturmläuten –
und aus allen fernen Weiten
(da ich an mir müd geworden)
bringst du Tage, bringst du Jahre –
Lieb
ich dieses Wunderbare?
[1919 circa]
Prato d’estate
[Sommerwiese]
Gravido dell’essere azzurro
s’abbassa palpitante,
palpitante l’invisibile
fino al vibrante prato:
respiro del sole nella corte dei monti
e sollevato verso le sfere giorno dopo giorno
ardore dopo ardore,
il cuore palpitante –
invisibile la nuvola
che mi porta.
Schwanger
des blauen Seins
senken
es sich bebend herab,
bebend
das Unsichtbare
zu
der zitternden Wiese:
Hauch
der Sonne im Hofe der Berge
und
zu Sphären emporgehoben Tag um Tag
Glut
und Glut,
das
bebende Herz –
unsichtbar
die Wolke,
[1933]
Per esempio: Walt Whitman
[Zum Beispiel: Walt Withman]
Dove germogliano i fili d’erba, nel centro terreno dell’essere,
lì comincia la poesia:arriva fino al confine estremo della vita,
e guarda, non è all’esterno,
è nell’anima.
All’interno il confine e all’esterno il centro,
l’uno partoriente l’altro, l’uno intrecciato all’altro,
questo solo è poesia –
Certo alla fine scoprì meravigliato
che questa è semplicemente la tua vita,
la vita dell’uomo.
Wo die Halme spriessen, in des Seins irdischer Mitte,
dort hebt die Dichtung an:doch sie reicht bis zu des Lebens äusserster Grenze,
und siehe, die ist nicht aussen,
die ist in der Seele.
Innen die Grenze und aussen die Mitte,
eines das andere gebärend, eines dem andern verwoben,
das allein ist Dichtung –
Freilich, am Ende entdeckst du verwundert,
dass es einfach dein Leben,
das Leben des Menschen ist.
[non datata]
Del
creato
[Vom Schöpferischen]
Chi solo sa ciò che sa, non può esprimerlo;
solo quando il sapere supera se stesso giunge alla parola,solo nell’inesprimibile nasce la lingua.
E questo deve farlo l’uomo, perché a lui è imposto il divino,
sempre e di nuovo superare il confine e scendere
fino al luogo al di là dell’umano, un’ombra
nel luogo della dimenticanza che sa, dal quale il ritorno
diventa difficile
e solo ad alcuni riesce.
Ma la configurazione della terrestrità è affidata a coloro
che sono stati nell’oscurità e che tuttavia con forza si sono liberati
orficamente per il doloroso ritorno.
Wer
nur weiss was es weiss, kann es nicht ausprechen;
Wort,
erst im Unaussprechbaren wird Sprache geboren.
Und es muss der Mensch, da ihm das Göttliche auferlegt ist,
stets aufs neu die Grenze überschreiten und hinabsteigen
zu dem Ort jenseits des Menschhaften, ein Schatten
am Ort des wissenden Vergessens, aus dem Rückkehr
schwer wird
und nur wenigen gelingt.
Aber die Gestaltung der Irdischkeit ist jenen aufgetragen,
die im Dunkel gewesen sind und dennoch sich losgerissen haben
orphisch zu schmerzlicher Rückkehr.
[non datata]
Di Virgilio non si riesce a capirci qualcosa…
[Auf Virgil lässt kein Reim sich machen…]
Di Virgilio non si riesce a capirci qualcosa,ed è troppo assurdo questo libro,
eppure come un segno della mia sempre desta
ammirazione per il grande, come tentativo
di ringraziamento per colui che regge il nostro cosmo,
sia posto in mano ad Albert Einstein.
Auf Virgil lässt kein Reim sich machen,
und allzu ungereimt ist dieses Buch,doch als ein Zeichen meiner immerwachen
Verehrung für das Grosse, als Versuch
von Dank für den, der unsern Kosmos trägt,
in Albert Einsteins Hand sei es gelegt.
[Dediche per La morte di Virgilio / Ad Albert Einstein, 1945]
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