9 novembre 2022

Hermann Broch - Poesie

 



Nel saggio L’eredità mitica delle poesia Hermann Broch parla di mythos e logos, di come nella natura umana tutta la comprensione del mondo si attui entro questi due poli. Sostenendo che la poesia sia una delle forme archetipiche per eccellenza, quella che più serba intatta entro di sé la radice mitica, capostipite di ogni narrare, che sola può abbracciare l’eterno e il momentaneo in un unico sguardo. L’impulso lirico «come scandaglio dell’anonimo attimo di vita che è sempre anche lo scandaglio della totalità della vita», dice Broch. E ancora «l’impulso lirico è come un risveglio dell’anima, è il richiamo mistico dal quale l’anima riceve l’ordine di aprire gli occhi e di contemplare, in un fulmineo colpo d’occhio che si colloca fuori dal tempo, la struttura essenziale dell’essere. Nata dal grido di stupore, dallo sguardo fulmineo che si esprime in questo grido, la lingua non sarebbe lingua se non fosse dinamica unificazione di mythos e logos e non avrebbe potuto svilupparsi se quel grido delle origini, lingua appunto allo stato nascente, non fosse stato espressione lirica, e perciò umana, non avesse già contenuto misticamente in sé, allo stato potenziale, tutto il sistema mitico e logico». Che limpidezza e levità in questo ragionare sull’ineffabile, sul “primo stupore” umano con cui gli esseri da millenni cantano il mondo. Che grande, Hermann Broch, il quale con ‘politezza’ di forma ci offre un contenuto così profondo e sfuggente, ci porge, in una riflessione fluida e piana un pezzetto, se vogliamo, del mistero della creazione.
La sua produzione poetica, non a caso suddivisa tra speculazione filosofica e fiaba sentimentale, pur con un eloquente sconfinamento tra i due motivi che in alcuni testi vengono a travasarsi, è affatto accessoria al suo universo creativo. Continuerà a scrivere versi per tutta la sua vita. Oltre a coltivare la scrittura lirica anche attraverso il teatro, puntualmente senza successo. Colpisce che abbia avuto una costante difficoltà a farsi leggere, per non parlare dell’incontro più che stentato con registi ed attori. Pure Vienna pullulava di vita teatrale e la posizione di Broch non si poteva dire tra le meno quotate. L’ennesima storia di addetti alla cultura distratti o pigri o trascinati da altri interessi. Nulla di nuovo sotto il sole. Di lì a pochi anni, fra l’altro, uno scossone di proporzioni immani, un rovesciamento della storia – che forse già si preparava nell’indifferenza delle personalità che lo attorniavano – lo avrebbero costretto, alla lettera, a volgersi ad altri lidi. 
Ma l’attaccamento alla poesia, la facoltà di ascoltarla dentro di sé e darle voce, non sarebbero venuti meno in lui. Ed è significativo che scelga proprio la forma in versi per le dediche da recapitare agli amici in accompagnamento all’uscita del suo capolavoro, La morte di Virgilio (1945).

E chi avrebbero dovuto essere i suoi padri spirituali nel canto? Certamente Virgilio, Dante e Whitman. I tre epici eccelsi, dal mondo antico al nuovo mondo. Perché l’epica – si legge sempre ad incipit del saggio citato – è il progenitore di tutta la poesia e la forma più vicina alla dizione del mito. In Walt Whitman, una sorta di faro al suo approdo americano, vide l’ultimo epico moderno, un cantore capace di segnare «il centro terreno dell’essere» (in des Seins irdischer Mitte), di celebrare la Irdischkeit (parola chiave della narrativa brochiana) nella sua qualità ultraterrena, di metafisica sublimazione.  

La figura di Broch, per la sua apertura culturale e la polifonia, è amatissima dalla germanistica italiana del secondo dopoguerra, al pari di quella di Hugo von Hofmannsthal. Riuniti attorno al suo tempio ritroviamo più o meno gli stessi officianti impegnati nella divulgazione del suo quasi coevo concittadino, le ragazze e i ragazzi prodigio della nuova germanistica e slavistica fiorite nel nostro paese subito dopo il ’45, i figli di quelle imprese editoriali frutto di aspirazioni utopiche e visionarie, più che di tornaconti aziendali. Da Cristina Campo a Leone Traverso ad Alessandro Spina (nome italianizzato di Basili Shafik Khouzam), scrittore nato a Bengasi da genitori di Aleppo, che sarebbe importante riscoprire nel nostro paese. Spina, amico di poeti, stimato dalla stessa Campo e dal critico darte, ed editore a sua volta, Vanni Scheiwiller, è stato un lettore profondo dei fabbri dell’italiano moderno, fine interprete e studioso di un altro Alessandro, il Manzoni, e della questione della lingua, che sentiva ancor più cogente e forse entrata in lui con un fascino ancor più intenso, date le sue origini coloniali. Perché l’italiano, per i nativi e forse ancor più per chi si appresta a impararlo, non può che porsi come un prodigio, il prodigio di una lingua nata dai libri, come Atena nasce dalla testa Zeus. Una lingua creata nella successiva elaborazione dei testi letterari, forgiata nel fuoco della letteratura e dibattuta fino all’Ottocento, con alle spalle una questione linguistica di almeno tre secoli prendendo in considerazione il periodo storico della sua codifica, ma nei fatti e nelle carte ben più lontana nel tempo. Lingua svincolata, alimentata dai regionalismi, crescita in assenza di un potere centrale. Cosicché nel parlato, il popolo, ha continuato ad attingere ai dialetti o meglio alle lingue dialettali – emblematico il caso dei soldati italiani nella prima guerra mondiale che per la comprensione reciproca dovevano ricorrere a un interprete.
Alessandro Spina è stato uno degli ultimi raffinati cultori, interpreti, scrittori dell’italiano, avendo ben a mente l’annoso garbuglio della questione della lingua anche più di altri autori patrii. Né è secondario che guardasse agli scrittori tedeschi, a una cultura letteraria assai diversa ma pure vicina alle antiche letterature mediterranee, e che vi si volgesse proprio in cerca di risposte agli insoluti che l’italiano gli poneva – più di ogni altro ha amato Broch, forse anche per un’affinità biografica – suo padre, come quello dello scrittore viennese, era un industriale del ramo tessile.
E in fondo a questo ragionare che intreccia culture, epoche e affinità elettive all’apparenza lontane eppure limitrofe, non sorprende che sia Hofmannsthal che Broch fossero due profondi conoscitori del mondo antico, amato proprio attraverso la lingua greca e latina. Delle poesie che qui abbiamo selezionato Amore incipiente potrebbe averla scritta Alceo. E se come diceva Hofmannsthal «una piuma può levigare un ciottolo, se la conduce la mano dell’amore» (Il libro degli amici), la poesia è senz’altro la piuma levigatrice che sfida il tempo e sempre riporta l’uomo a chinarsi con umiltà sulle rive dell’amore.

 

(Di Claudia Ciardi)

 

Edizione consultata per la lettura delle poesie e l'inquadramento della loro stesura all'interno dell'opera creativa brochiana: 

Hermann Broch, La verità solo nella forma. Poesie 1913-1949
A cura di Vito Punzi, De Piante Editore, 2021


 

 

 

 


 

 

 

 

 

Amore incipiente

[Beginnende Liebe]


Sempre il sentimento
ci è così vicino e così lontano

come antico gioco da bambini –

ciò che un tempo ci accadde come in sogno

e non fu più visto indistintamente:
lo cerchiamo nel nostro amore

e porgiamo trepide mani.

Noch immer ist uns das Gefühl

so nah und fern
wie altes Kinderspiel – 
 

Was einst uns als im Traum geschah

und halbgesehen nicht mehr war:
in unserem Lieben suchen wir’s

und bieten bange Hände dar.

[1914]

 

Canto d’amore

[Liebeslied]


Poiché di me sono diventato stanco
– stanco,

tu ragazza sei diventata mia

– mia

e nel profumo dei tuoi capelli,

capelli luminosi

trasmetti giorni, trasmetti anni

dell’antica regione: costa marina,

città tedesca nella quiete assolata,

campo di raccolta e boschetto di palme,

spiaggia rocciosa e pietra ricoperta d’alghe,

hall della stazione, rintocchi di campanile –

e da ogni remota distanza

(poiché sono diventato stanco di me)

trasmetti giorni, trasmetti anni –


Amo questa meraviglia?

Oppure i tuoi capelli luminosi?


Da ich an mir müd geworden

– müd geworden,
bist du, Mädchen, mir geworden

– mir geworden

und im Dufte deiner Haare,

lichten Haare

bringst du Tage, bringst du Jahre

alter Gegend: Meeresküste,

deutsche Stadt in Sonnenrüste,

Erntefeld und Palmenhain,

Felsenstrand und Algenstein,

Bahnhofhalle, Kirchturmläuten –

und aus allen fernen Weiten

(da ich an mir müd geworden)

bringst du Tage, bringst du Jahre –
 


Lieb ich dieses Wunderbare?

Oder deine lichten Haare?

[1919 circa]

 

Prato d’estate

[Sommerwiese]

 

Gravido dell’essere azzurro
s’abbassa palpitante,
palpitante l’invisibile

fino al vibrante prato:

respiro del sole nella corte dei monti

e sollevato verso le sfere giorno dopo giorno

ardore dopo ardore,

il cuore palpitante –

invisibile la nuvola

che mi porta.


Schwanger des blauen Seins
senken es sich bebend herab,

bebend das Unsichtbare

zu der zitternden Wiese:

Hauch der Sonne im Hofe der Berge

und zu Sphären emporgehoben Tag um Tag

Glut und Glut,

das bebende Herz –
unsichtbar die Wolke,

die mich trägt.

 

[1933]

 

Per esempio: Walt Whitman

[Zum Beispiel: Walt Withman]

 

Dove germogliano i fili d’erba, nel centro terreno dell’essere,

lì comincia la poesia:
arriva fino al confine estremo della vita,

e guarda, non è all’esterno,

è nell’anima.

All’interno il confine e all’esterno il centro,

l’uno partoriente l’altro, l’uno intrecciato all’altro,

questo solo è poesia –

Certo alla fine scoprì meravigliato

che questa è semplicemente la tua vita,

la vita dell’uomo.

 

Wo die Halme spriessen, in des Seins irdischer Mitte,

dort hebt die Dichtung an:
doch sie reicht bis zu des Lebens äusserster Grenze,

und siehe, die ist nicht aussen,

die ist in der Seele.

Innen die Grenze und aussen die Mitte,

eines das andere gebärend, eines dem andern verwoben,

das allein ist Dichtung –

Freilich, am Ende entdeckst du verwundert,

dass es einfach dein Leben,

das Leben des Menschen ist.

 

[non datata]

 


Del creato

[Vom Schöpferischen]

 

Chi solo sa ciò che sa, non può esprimerlo;

solo quando il sapere supera se stesso giunge alla parola,
solo nell’inesprimibile nasce la lingua.

E questo deve farlo l’uomo, perché a lui è imposto il divino,

sempre e di nuovo superare il confine e scendere

fino al luogo al di là dell’umano, un’ombra

nel luogo della dimenticanza che sa, dal quale il ritorno

diventa difficile

e solo ad alcuni riesce.

Ma la configurazione della terrestrità è affidata a coloro

che sono stati nell’oscurità e che tuttavia con forza si sono liberati

orficamente per il doloroso ritorno.


Wer nur weiss was es weiss, kann es nicht ausprechen;

erst wenn Wissen über sich selbst hinausreicht wird es zum
Wort,

erst im Unaussprechbaren wird Sprache geboren.

Und es muss der Mensch, da ihm das Göttliche auferlegt ist,

stets aufs neu die Grenze überschreiten und hinabsteigen

zu dem Ort jenseits des Menschhaften, ein Schatten

am Ort des wissenden Vergessens, aus dem Rückkehr

schwer wird

und nur wenigen gelingt.

Aber die Gestaltung der Irdischkeit ist jenen aufgetragen,

die im Dunkel gewesen sind und dennoch sich losgerissen haben

orphisch zu schmerzlicher Rückkehr.

 

[non datata]



Di Virgilio non si riesce a capirci qualcosa…

[Auf Virgil lässt kein Reim sich machen…]

 

Di Virgilio non si riesce a capirci qualcosa,ed è troppo assurdo questo libro,
eppure come un segno della mia sempre desta

ammirazione per il grande, come tentativo

di ringraziamento per colui che regge il nostro cosmo,

sia posto in mano ad Albert Einstein.


Auf Virgil lässt kein Reim sich machen,

und allzu ungereimt ist dieses Buch,
doch als ein Zeichen meiner immerwachen

Verehrung für das Grosse, als Versuch

von Dank für den, der unsern Kosmos trägt,

in Albert Einsteins Hand sei es gelegt.

 

[Dediche per La morte di Virgilio / Ad Albert Einstein, 1945]

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