Offro volentieri a lettrici e lettori, sebbene con un discreto ritardo rispetto alla data d’uscita, un assaggio di alcune delle voci che si incontrano nel numero 284 (luglio-agosto) di Poesia, la rivista edita da Crocetti. Il ‘paganesimo notturno’ di Ghiannis Ritsos, la tormentata sensibilità di Heinrich Heine, l’omaggio a Sarah Kirsch, scomparsa il 15 maggio scorso, la richiesta di aiuto per Franco Loi.
«Quali siano la potenza e il significato del simbolo nella poesia di Ghiannis Ritsos, è detto limpidamente nella postfazione di Chrisa Prokopaki al libro Molto tardi nella notte, ultima raccolta di poesie del poeta greco prima della morte, avvenuta nel 1990. Nella Grecia antica, il simbolo (da syn-ballo, “metto insieme, ricompongo”) era un segno di riconoscimento, una tessera di ospitalità. Si spezzava un listello di legno o di avorio, in modo che gli orli si sfrangiassero irregolarmente. A distanza di tempo e di spazio, i due lembi, combaciando perfetti, garantivano l’identità di chi aveva contratto vincoli di amicizia e di alleanza. Nella comunicazione e in poesia, il simbolo è un collante allegorico, tra qualcosa che appare al primo sguardo, e un significato più arcano, profondo, che solo l’occhio del poeta esplora e divulga. Quando i due frammenti si congiungono, la verità esplode».
[…]
«La poesia di Ritsos concede ampio spazio alla notte. E le notti greche offrono lune sgargianti come teglie tirate a lucido. Con le sue ventuno ricorrenze in questo libro, la luna è uno degli oggetti-simbolo più penetranti. Ma non sfoggia più la potenza trionfale di cui godeva in altre occasioni. Il Funambolo e la Luna, monologo drammatico, opera chiave dell’arte di Ritsos, ne è l’apoteosi. L’astro notturno, enorme diamante del cielo, era in questi versi vita, bellezza, verità, poesia: la meta sfavillante verso cui l’acrobata, il poeta, orientava impavido la sua ascensione sulla fune, bilanciandosi con l’asta del canto. Ora si è come inaridita […]».
Di Ezio Savino
Della campagna
Questi volti, sorpresi dallo splendore del sole,
dal fogliame folto, dalle molte cicale,
dalle graziose sconsideratezze dei passeri,
restano immobili, incerti
se cambiare posizione. Perché poco sotto, sul fiume,
i tre vetturini si lavano i piedi, mentre i loro cavalli,
le orecchie tese e le criniere quiete,
guardano il cielo limpido con una suprema erezione. Più tardi
arrivò il postino del villaggio, le vecchie si adunarono sul ponte
e sopra le loro vesti nere si udirono
le campane a lutto di Santa Pelaghìa.
Karlòvasi, 11.7.’87
Vecchiaia
Ah, sì, invecchiano anche le statue e le poesie.
Molti avevano preso parte a quella storia –
uomini, animali, bambini, fiumi, alberi,
ragazzi e ragazze con motociclette, due papere bianche,
il matto silenzioso con una cicca e una galletta;
ed era un mezzogiorno estivo d’oro e sventolavano
le piume della gallina sgozzata luccicando in aria,
e la zia Evanghelìa in cucina puliva le bamie,
e una grossa farfalla si posò sulla saliera.
Nessuno, proprio nessuno allora sapeva
che il transitorio passa nel mito. Alla stazione del treno
venne a sedersi su una panchina una vecchia vestita di nero
che teneva sul grembiule un cesto d’uova come se fosse
l’unica cosa che aveva al mondo. Si addormentò lì.
Qualcuno di passaggio le rubò il cesto. E cadde la notte.
Ah, sì, invecchiano anche le statue e le poesie e i ricordi degli eroi.
Karlòvasi, 23.7.’87
Traduzione di Nicola Crocetti
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«Cittadino tedesco di famiglia ebraica, inviso alle autorità prussiane per la potenza critica del suo pensiero, costretto dalla necessità di integrazione ad accettare un battesimo protestante che non soltanto gli mutò il nome da Harry in Heinrich, ma che di fatto lo rese “odiato tra i cristiani e gli ebrei” (così Heine in una lettera all’amico Moser) senza tuttavia aprirgli la strada verso l’agognata carriera accademica; esule per propria scelta a Parigi, costretto a letto – paralizzato – negli ultimi otto anni di vita; polemista, giornalista, saggista, autore di liriche tanto belle e conosciute che già nel 1897, a cento anni dalla nascita del poeta, il critico danese Georg Brandes ne contò 3.000 adattamenti musicali (liriche che perfino ai tempi del nazismo non poterono essere escluse dalle antologie scolastiche e vi vennero perciò inserite come ‘anonime’), Heine si percepì effettivamente sempre innanzitutto come ‘poeta’ e come ‘poeta tedesco’».
[…]
«Il poeta, insomma, e soprattutto il poeta descritto da Heine, è un essere dilacerato, zerrissen in tedesco, e come lo stesso Heine afferma in I bagni di Lucca la sua Zerrissenheit, ovvero il suo tormento interiore, racchiude il dolore suo e di tutta la sua epoca: l’epoca della Restaurazione, che abolì le riforme civili introdotte da Napoleone anche in Germania (tra queste, l’editto di emancipazione degli ebrei emanato, nel 1822, reintrodusse il divieto di accedere all’insegnamento scolastico e universitario); l’epoca della transizione dal ricco patrimonio culturale illuministico-romantico all’incipiente rivoluzione industriale (si ricordi che Heine fu in contatto con Marx e a Parigi fu vicino agli ambienti saint-simonisti); l’epoca che in Francia, dopo la Rivoluzione e l’epopea napoleonica, portò alla monarchia di luglio, che tanto incuriosì Heine da indurlo, proprio nel 1831, a trasferirsi a Parigi, dove fu accolto come una personalità di riguardo nei migliori salotti, e dove Luigi Filippo gli concesse un vitalizio; l’epoca che in tutta Europa sfociò nelle rivoluzioni del 1848».
Di Simonetta Carusi
Ein Fichtenbaum steht einsam
Im Norden auf kahler Höh’.
Ihn schläfert; mit weißer Decke
Umhüllen ihn Eis und Schnee.
Er träumt von einer Palme,
Die, fern im Morgenland,
Einsam und schweigend trauert
Auf brennender Felsenwand.
Un pino solo, al nord,
sta su una vetta brulla.
Ha sonno, e ghiaccio e neve
lo ammantano di bianco.
E sogna di una palma,
nel più remoto Oriente,
che, sola, tace e soffre
su una roccia rovente.
(1822)
An dem stillen Meersstrande
Ist die Nacht heraufgezogen,
Und der Mond bricht aus den Wolken,
Und es flüstert aus den Wogen:
Jener Mensch dort, ist er närrisch,
Oder ist er gar verliebet,
Denn er schaut so trüb und heiter,
Heiter und zugleich betrübet?
Doch der Mond der lacht herunter,
Und mit heller Stimme spricht er:
Jener ist verliebt und närrisch,
Und noch obendrein ein Dichter.
Sulla riva del mare silente
si è levata la notte, e la luna
si fa largo attraverso le nubi,
e si sente sussurrare i flutti:
quell’uomo, laggiù, certo è un pazzo,
o deve essere innamorato,
perché ha l’aria avvilita e contenta,
è contento ed è insieme avvilito?
E la luna guardandolo ride,
e con limpida voce dichiara:
quello è innamorato ed è pazzo,
e per giunta è anche un poeta.
(1833)
Traduzione di Simonetta Carusi
Mann und Frau den Mond betrachtend
Man and Woman contemplating the moon
Date c. 1818/1824
Ricordo di Sarah Kirsch
a cura di Angela Urbano
«Il difficile rapporto con la dirigenza comunista raggiunse il punto di non ritorno quando Sarah Kirsch, come molti intellettuali del suo Paese, firmò la petizione contro l’espulsione della DDR del poeta e cantautore Wolf Biermann. Invitata a lasciare la DDR, nel 1977 si trasferì a Berlino Ovest, anche per ragioni sentimentali. Cominciò a viaggiare: Provenza, Roma (fu borsista a Villa Massimo), Camargue, Stati Uniti. Ne tornò con l’impressione di un Occidente straniante, chiassoso e scollegato dai bisogni più importanti e vitali dell’uomo, e decise di stabilirsi nel piccolo centro di Heide.
La poesia di Sarah Kirsch sembra dotata del potere magico di trovare una modalità esistenziale in una natura piena di elementi fiabeschi, vegetali e animali. Era un mondo che la Kirsch conosceva bene, sia per la sua formazione scientifica sia per le sue origini: la sua regione nativa, l’Harz, è un luogo pieno di foreste, lussureggianti e misteriose, come quelle delle fiabe dei fratelli Grimm. […] Ha scritto racconti, anche autobiografici, e prose liriche, ha tradotto diversi poeti russi (tra cui Anna Achmatova, Bella Achmadulina, Aleksandr Blok) e si è dedicata alla pittura. Numerosi i riconoscimenti che le sono stati assegnati, tra cui il premio Hölderlin».
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Della rubrica curata da Angela Urbano mi colpisce un trafiletto dedicato a Franco Loi, voce antica e preziosa della poesia milanese. Nell’Italia sempre più occupata a tenere a bada gli incubi del collassante debito pubblico e della guerra degli spread, capita che un poeta sia costretto a lasciare la sua casa, perdendo molti dei libri accumulati in anni di studio e profonda devozione per la propria arte ma anche per la propria città. L’amara vicenda che sconvolge la vita di Loi rispecchia la sindrome di un tempo disattento e sconcertante, che ha un rapporto malato con tutto quanto scaturisce dall’interiore: le manifestazioni creative, i sentimenti, la pratica dell’onestà nei confronti del prossimo sono caratteristiche accessorie e, quando esistono, causano perfino qualche imbarazzo. Nella loro spontaneità, del tutto inusitata per questi anni di implosioni umane, si tende quasi sempre a leggere una forma di dolo, un tranello, nella migliore delle ipotesi degli strumenti in grado di servire inconfessabili convenienze personali. Ma, cosa anche peggiore, qualora queste povere e sfilacciate emozioni e gioie individuali abbiano superato l’ordalia, e tocchi decretarne con fastidio l’autenticità, scattano altre e più sconvolgenti misure per reprimerle. Il che non sorprenderà in un occidente così ossessionato dalla possibilità che qualche sentimento vivo, stanco di andarsene ramingo, decida di ricordarci cosa siamo diventati e magari ci “detti dentro” come uscire dalla catastrofe.
Allora immagino l’anziano Loi angosciato dal pensiero del suo trasloco, lo immagino così, accorato e triste nella distratta e anonima estate italiana, un’estate stanca e bugiarda, che parla di ripresine da solstizio d’inverno e ci tiene a dire che i suoi ministri per quest’anno sono “poco abbronzati”.
Sì, è vero, meglio reprimere se questo serve ancora a bearci di qualche illusione e soprattutto a restare indifferenti mentre i poeti, i cassaintegrati, e tante altre persone perbene perdono la loro casa, la loro dignità, la loro vita.
L’importante è che si faccia silenzio.
(Di Claudia Ciardi)
(Scelta del testo a cura di Claudia Ciardi)
Marcanagg i politegh secca ball,
cossa serv tanc descors, tance reson?
Già on bast infin di facc boeugna portall,
e l’è inutel pensà de fà el patron;
e quand sto bast ghe l’emm d’avè suj spall
eternament e senza remission
cossa ne importa a nun ch’el sia d’on gall,
d’on’aquila, d’on’oca, o d’on cappon.
Per mì credi che el mej el possa vess
el partii de fà el quoniam, e pregà
de no barattà tant el bast despess,
se de nò, col postà da on sit all’olter
i durezz di travers, reussirà
on spellament puttasca e nagott olter.
(Carlo Porta, Milano, 15 giugno 1775 – Milano, 5 gennaio 1821)
«Uno dei più importanti poeti italiani viventi, Franco Loi, che dal 1937 risiede a Milano e ha fatto del dialetto milanese la lingua della sua poesia, è in procinto di lasciare la sua casa di viale Misurata perché non riesce a fare fronte ai suoi costi. Nel trasferimento sarà anche costretto a liberarsi di buona parte dei libri della sua biblioteca. È speranza degli amici, dei conoscenti e dei lettori che lo stimano che un’iniziativa privata o pubblica possa porre rimedio a questa mancanza di riconoscimento verso l’opera di un poeta che ha dato tanto in primo luogo alla città di Milano e all’intero Paese, distinguendosi nel panorama letterario e culturale nazionale e internazionale».
(Di Angela Urbano)
Franco Loi
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