L’analisi economica del periodo weimariano in Germania è un tema stimolante perché ci narra una delle crisi più spaventose vissute nel continente europeo, esplosa non a caso dopo la prima guerra mondiale. Quella che viviamo oggi è una situazione diversa, soprattutto per le cause che l’hanno determinata e per il fatto che il contagio coinvolge quasi tutte le economie del mondo, in un andamento sussultorio di scarse riprese, più annunciate che reali, e immediate ricadute. È chiaro, per quanto riguarda la crisi attuale, che i paesi strutturalmente più deboli manifestino sintomi più acuti. Ma fa comunque impressione leggere di pesanti contraccolpi anche nell’ ‘emergente’ scacchiere asiatico. Si prenda ad esempio il caso dell’India dove negli ultimi tre mesi la rupia si è svalutata del sedici per cento nei confronti del dollaro, uno scenario che fa pensare alla ‘tempesta perfetta’ abbattutasi sui mercati dell’Asia tra il 1997 e il 1998. Il «Tages-Anzeiger» interviene così sull'India: «Un sistema schiacciato dalla burocrazia e dalla corruzione, nel quale brilla ben poco oltre l’informatica. Finora questi problemi erano stati coperti grazie all’afflusso di capitali a basso costo dall’estero. Ma all’improvviso il vento è cambiato».
La micidiale svalutazione del marco tedesco tra il 1921-’23 ricostruita nelle pagine di Fergusson diviene allora una materia in grado di attirare il lettore di oggi, soprattutto in quanto gli viene offerta la possibilità di approfondire dinamiche e ricadute sociali di un fenomeno che sta di nuovo erodendo le certezze di molti paesi, giocando pericolosamente con le aspettative di milioni di persone.
(Di Claudia Ciardi)
Adam Fergusson, Quando la moneta muore. Le conseguenze sociali dell’iperinflazione nella Repubblica di Weimar, introduzione all’edizione italiana di Gian Enrico Rusconi, Il Mulino, 1979
Titolo originale:
When money dies
«In una società industriale moderna l’inflazione, sfuggita al controllo, diventa il fattore più subdolo di sconvolgimento e riclassificazione sociale. Polverizzando le basi di sussistenza di milioni di famiglie di lavoratori salariati, di ceti medi a reddito fisso o della piccola distribuzione, semplifica le divisioni sociali a livello più basso.
Ma le reazioni psicologiche e i comportamenti politici hanno segni contraddittori e rendono infinitamente più difficili i rapporti tra i gruppi sociali. L’inflazione non è mai un evento esclusivamente economico, soprattutto quando supera la soglia entro la quale diviene “iperinflazione”. Incidendo in modo palpabile su quell’arcano quotidiano che è il denaro, con il quale si materializzano non solo le soddisfazioni dei bisogni ma le stesse identità sociali, il processo iperinflazionistico si trasforma in trauma collettivo. La sua portata è incalcolabile e – ciò che più conta – imprevedibile. Non a caso la figura del panico è molto spesso associata ai fenomeni “irrazionali” del denaro. Ma panico, irrazionalità e imprevedibilità dei comportamenti, anonimità dei processi non esauriscono affatto le dimensioni sociali dell’iperinflazione. Al contrario rischiano di nascondere la sua capacità di mettere a nudo il sistema sociale e politico in cui ha luogo. L’iperinflazione è il banco di prova delle qualità reali della classe dirigente, non meno di quella d’opposizione, sia che questa si riconosca nel quadro costituzionale esistente o lo voglia cambiare. Funziona come una radiografia dei reali rapporti di forza tra le parti organizzate, istituzionali ed extraistituzionali – tra esse e potenziali nuovi soggetti collettivi.
Tutto ciò può essere verificato nell’iperinflazione che ha colpito la Germania di Weimar nel 1922-’23 – un caso storico ai limiti del credibile. Adam Fergusson in Quando la moneta muore ha ricostruito quella esperienza con una efficacia e uno stile che a tratti prende il lettore come un thrilling. Ma il crimine di cui si parla è il diluvio di miliardi di cartamoneta che coinvolge banchieri e militari, politici e sindacalisti, travolge nella più cupa disperazione un popolo in una sequenza di situazioni ora crudeli, ora comiche, ora grottesche. L’espressionismo non è più una finzione estetica: è il vissuto quotidiano.
Fergusson ha scritto alcune di queste pagine per il «The Times» tra il 1974 e il 1975; non è uno storico professionale, preoccupato di vagliare le varie ipotesi di spiegazione dell’iperinflazione weimariana, e le sue conseguenze – un nodo storico e politico tutt’altro che sciolto per l’intrico delle sue componenti. L’autore vuol innanzitutto descrivere dal vivo come una popolazione viene colpita e corrotta da quel flagello e come vi reagisce una classe politica. […] La ricostruzione e la valutazione di fondo delle vicende weimariane avviene esplicitamente sulla falsariga dei giudizi di un importante osservatore e protagonista di quei tempi: l’ambasciatore britannico a Berlino Lord D’Abernon. Sappiamo quale ruolo di mediazione e moderazione abbia svolto la diplomazia britannica non solo nella spinosissima questione delle riparazioni, ma in generale per un riassetto politico della Germania su una linea liberal-conservatrice.
Facendo questo punto di vista proprio, Fergusson intende prendere le distanze sia dal rapace capitalismo della grande industria, sia dall’inconcludente, rissoso e diviso movimento operaio. Una posizione di mezzo non priva di ingenuità, dove il sincero sdegno morale e la denuncia della incapacità di una classe politica prendono il posto di una più critica valutazione dei fatti e delle loro connessioni. Questo non impedisce di apprezzare la forma di molte pagine scritte per dimostrare che «se si vuole causare la rovina di una nazione, occorre per prima cosa distruggerne la moneta».
[…] L’opinione della piccola borghesia è tale che nel momento in cui viene “proletarizzata” raddoppia il suo risentimento antioperaio e antisindacale.
A questo proposito è bene ricordare che la ricerca di indicatori materiali della miseria o di criteri oggettivi per il confronto tra gli standard di vita delle varie classi non rende conto delle differenti reciproche percezioni sociali. […] Per la piccola borghesia, invece, che è cresciuta nella identificazione con la Nazione e lo Stato, dei cui simboli e riti è stata la vestale, la polverizzazione dell’ultimo solido simbolo-valore, del denaro, è uno schok senza precedenti. È una esperienza di estraneazione da cui non si libererà più. […]
Ma veniamo alle tesi politiche di Fergusson. Esse si possono riassumere così:
a) le radici del processo inflazionistico dei primi anni della repubblica tedesca sono da riportare indietro alla politica finanziaria del governo imperiale durante la prima guerra mondiale; l’inflazione del 1921-’22 non fu alimentata cinicamente dal governo repubblicano per sottrarsi alle riparazioni di guerra da versare agli ex nemici, ma neppure intenzionalmente per favorire il grande capitalismo industriale o per sostenere l’occupazione e i salari operai; l’inflazione fu il risultato dell’indolenza e della incapacità della classe dirigente (ivi compresa l’autorità finanziaria della Reichsbank) nel realizzare una riforma fiscale e nel contenere il credito; b) la perdita di controllo dell’iperinflazione del 1923, per quanto accelerata da decisioni contingenti di ordine politico (assunzione da parte dello Stato dei costi della “resistenza passiva” decretata nella Ruhr per protesta contro l’occupazione delle truppe francesi e belghe) era inevitabile. La pretesa di sfuggire alla bancarotta e insieme di evitare la disoccupazione di massa, la pretesa di conciliare due obiettivi contrari, doveva fatalmente portare al disastro dell’autunno 1923. Solo allora a prezzo di una dittatura militare, sia pure legale, e con nuovi sacrifici per la classe operaia (abolizione della giornata di otto ore lavorative) si poté trovare una soluzione quanto meno provvisoria. Le cicatrici dell’iperinflazione infatti rimarranno profonde e ricominceranno a sanguinare con la crisi del ’29, aprendo la strada a Hitler.
«Il punto critico in cui l’inflazione cominciò ad alimentarsi e a divenire politicamente incontrollabile non è possibile trovarlo sul diagramma della svalutazione monetaria, o della velocità di circolazione della moneta o del deficit della bilancia dei pagamenti… Il punto critico lo si deve piuttosto individuare analizzando la curva discendente del potere politico e del coraggio che il governo, pressato da ogni parte, fu in grado di esprimere. A mandare in rovina la Germania fu il fatto di assumere costantemente la linea meno dura quando si trattava di faccende monetarie. Il punto critico, quindi, non era finanziario ma morale.
La chiarezza delle tesi di Fergusson facilita il confronto critico. Se è convincente il modo con il quale, dopo l’esame di tutti i risvolti tecnico-finanziari e le connessioni internazionali della questione, va dritto alla responsabilità del gruppo dirigente weimariano, assai meno convincente è l’imputazione di incompetenza e addirittura codardia. Qui il tono moralistico fa velo alla sostanza politica del problema.
Nella gestione delle finanze dello Stato che nel sistema industriale avanzato deve garantire le condizioni ottimali di riproduzione del capitale, competenza significa capacità di assecondare, se non addirittura di imporre una precisa linea complessiva, tenendo conto dei due partner sociali determinanti – capitali e lavoro organizzato. Lo spazio d’autonomia dell’esecutivo è strettamente condizionato dalle forze politiche che partecipano (o dovrebbero partecipare) a dettare tale linea politica. L’incompetenza è spesso solo sinonimo di assenza di tale linea ovvero incapacità di realizzarla. Questa sembra essere la situazione della Germania tra il 1921 e il 1923. In realtà dietro il paravento nazionale e internazionale delle riparazioni, dietro il comportamento irresponsabile del grande capitale industriale e finanziario (evasione fiscale, speculazione su valute estere, fuga di capitali), dietro l’importanza del governo ad imporre una tassazione efficiente – dietro questa patologia sociale ed economica è trasparente il disegno di liquidare politicamente la rivoluzione del novembre 1918. […]
Il perno di tutta la situazione sociale e politica del triennio 1921-’23 coincide con il ruolo reale e possibile della socialdemocrazia e del sindacato ad essa collegato. Solo in questa prospettiva poteva essere affrontato il problema dell’occupazione. Ma è una prospettiva che non considera l’occupazione una variabile economica dipendente, per la cui manovra basta la competenza e il coraggio dell’esecutivo. La questione dell’occupazione è il punto d’incontro di equilibri sociali e politici per il cui controllo sono necessarie grandi capacità politiche».
(Dall’introduzione)
Adam Fergusson's 1975 book on hyper-inflation in the Weimar, When Money Dies, has become a cult read among Europe's top financiers after the Sage of Omaha Warren Buffet is said to have recommended it. He tells Robert Miller where parallels could occur if inflation were to take hold in Britain.Adam Fergusson: Inflation lessons for the UK
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Germany in 1914 had one of the world's most prosperous economies. By 1923 its currency, the Mark, was worth next to nothing. When Money Dies tells the story in stark human terms of what happens when a currency and a national economy perishes.
Germany increased the circulation of the Mark to finance a series of staggering war reparations from World War I. The Mark depreciated at an astronomical rate. In November 1921, the Mark was at 250 to the dollar. By the following November, it was at 8,000 to the dollar. By January 1923 it was well over 50,000 to the dollar, and by July of the same year, it was at a whopping 174,000 to the dollar. By the end of 1923, the mark was dead and Germany was in the midst of a raging inflation that was impossible to control.
Social misery and crippling economic instability followed. Citizens watched in horror as their life savings disappeared. It didn't take long for the middle class to be replaced by a new class: the new poor. Many struggled to find even the barest of necessities, and starvation raged. Soon communities printed their own money, based on goods such as potatoes or rye. Shoe factories paid their workers in bonds for shoes which they could exchange at the bakery for bread or the meat market for meat. As Fergusson describes it: "In hyperinflation, a kilo of potatoes was worth, to some, more than the family silver; a side of pork more than the grand piano. A prostitute in the family was better than an infant corpse; theft was preferable to starvation; warmth was finer than honor; clothing more essential than democracy, food more needed than freedom."
People in search of someone to blame picked upon other classes, other races, other political parties, other nations. They were in large measure still blaming not the disease but the symptoms. There was communal hatred, which was new. There was social resentment, which was new. There was bribery and corruption: that was new. This was Germany in 1923: a great power at the height of its ambition that produced the greatest national financial disaster in recent history.
Adam Fergusson was born in Scotland in 1932. He graduated in history at Cambridge, and later became a journalist with the Glasglow Herald, the Statist, and The Times. He has been a Member of the European Parliament, a Special Adviser at the Foreign Office, a consultant on European affairs for international industry and commerce, and political advisor to Geoffrey Howe, Mrs. Thatcher's Chancellor of the Exchequer in 1979. He has written five books. A Fellow of the Royal Society of Literature, he lives in London.
James Ensor, Death and the Masks - La morte e le maschere
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