14 maggio 2016

Metropole Berlin (II)



La copertina del bel volume dell’editrice Schacht, che Walter mi ha venduto a prezzo irrisorio, e il mio taccuino dei disegni made in Via del Vento. 



La commistione etnica, se da una parte è il carattere principale delle metropoli, negli ultimi anni ha assunto a Berlino, porta di molti orienti, nuove cadenze, e in alcune rughe della città rivela ora il vero volto di quell’esotismo tedesco vagheggiato da poeti e studiosi all’inizio del Novecento.
Tra le strade di Gesundbrunnen, nel contrasto delle sue geometrie irregolari livellate dai grandi boulevard liberty, tra la nota fisionomia dei chioschi e l’indolente trascuratezza delle pollerie arabe, cresce questo doppio sogno, riflesso di due personalità parallele. Una collisione che va saturando rapidamente ogni zona franca del luogo, o che si illude di essere stata tale. Perché a Berlino, più di altrove, pochissimo, quasi nulla è rimasto fermo, e anche la memoria si è dovuta adattare alla continua metamorfosi. 
Da un po’ di tempo tutto sembra sotto assedio, le periferie si espandono ma spingono anche sul cuore della città, ognuno sembra impegnato a difendere la propria idea di spazio percorrendo un’estrema quanto improbabile via di riscatto. Del resto, questa convivenza di uomini e cose sbattuti in mezzo al traffico e al cemento, le più volte esita in conflitto ma può anche spiazzare per le sue insospettabili alleanze. L’aggirarsi di una simile tensione forgia i caratteri e raddoppia gli orizzonti del fare quotidiano. Forse, anzi,  è l’attrattiva maggiore dei contesti metropolitani, che sono in prima battuta degli enormi accumulatori di energia, e perciò possono permettersi di dissiparla con altrettanta, se non più disinvolta leggerezza.
C’è dunque da un lato il dinamismo berlinese e dall’altro la sua fatiscenza da ghetto. Di tanto in tanto si notano portoni sistemati alla buona, catene che hanno fatto la ruggine, fil di ferro, chiodi piantati su tavolacci sconnessi, baluardi che con le loro cicatrici si sono battuti per difendere il diritto di un passato, incline ancora a raccontarsi. Qui si impara che la vera incuria, talvolta, non è l’abbandono ma un accanimento, assai più selvaggio, a regolare e uniformare lo spazio.
Capita di scendere nelle braccia di Caronte come nella pace dei boschi. E anche l’umanità che vi si aggira riflette questa stessa condizione indecifrabile e sospesa. S’incontrano tipi bardati di fez, signorine che alle otto di mattina salgono in treno e lì finiscono di truccarsi, sbandati, vecchiette che masticano acciacchi e bestemmie. Anche quando ci si crede al sicuro per aver scelto un cammino che senza devianze ci porti al lavoro, non è mai detta l’ultima parola. L’imprevisto è sempre dietro l’angolo, questione di attimi.  
È su simili scivolosi tracciati che la libreria di Walter mi apparve anni fa come un’insenatura gentile, un occhio sonnolento che di tanto in tanto si apriva nel ritmo vorticante di Schöneberg. Da allora, ogni volta che mi si è presentata l’occasione, non ho smesso di fargli visita. Ecco, se siete stanchi del lungo girovagare in metropoli, il mio invito è a entrare in una di queste oasi della carta stampata e riprendere fiato. Non resterete delusi, in quanto il libraio a Berlino è un’istituzione, al pari degli autisti dei treni o dei panettieri. Come in un romanzo, si tratta di quei personaggi chiave che accompagnano la trama e fanno sentire meno soli i protagonisti, non di rado finendo per rubare loro la scena. 
Un carrettino dipinto di bianco, parcheggiato sul marciapiede, un’insegna all’antica, una vetrina dimessa da cui si invitano i passanti a gettare uno sguardo sulle rarità. Walter è un uomo mingherlino sulla cinquantina, dai modi educati ma senza affettazione. Sta sempre seduto dietro il suo bancone-scrivania a leggere o catalogare i nuovi arrivi. Ha una spiccata passione per la fotografia in bianco e nero, motivo delle mie assidue peregrinazioni; ritengo infatti possa vantare alcuni degli album più belli dedicati alla città prima della distruzione nella seconda guerra mondiale. 
Quando ci si chiude alle spalle la porta a vetri, il caos scompare e s’infrange nell’ambiente ovattato delle scaffalature, immerso in una semioscurità rotta soltanto dalla lampada da tavolo del proprietario. Che fuori ci sia il sole o piova a dirotto, lì dentro la luce non cambia mai. È un tempo fisso quello che Walter offre a chi lo cerca. Il suo stesso modo di parlare ne è una prova tangibile. Una soccorrevole sorpresa per il visitatore che intenda affacciarsi su un’altra città, distanziandosi per qualche momento da quel martellare seducente della superficie che tanto ha da narrare ma dove non è escluso che ci si smarrisca. 

(Di Claudia Ciardi)
  

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