Tre tragici per altrettante dissertazioni sul senso della solitudine. Quella
ostinata e drammaticamente scossa dallo stordimento che agita Serse nei Persiani di Eschilo,
l’altra disperata e sospesa di Filottete su cui pende il verdetto altrui,
declinata nell’omonima tragedia sofoclea, infine l’isolamento annientante di
Eracle, esplorato da Euripide, il poeta per eccellenza della vastitudo animi
(espressione che in latino rimanda a lande desolate ma pure alla straordinaria
grandezza); e pensiamo anche al suo Oreste braccato dalle Erinni, solo
di fronte all’empietà del matricidio, così dolorosamente sconvolto per il
proprio delitto che lo allontana dagli uomini e scava il suo corpo,
sprofondandolo in un’estrema consunzione.
Un
viaggio sentimentale che unisce l’inquietudine di Ulisse alla Wanderung
romantica, che l’essere umano nei millenni non ha smesso di praticare fra aspirazione a partire e bisogno di fermarsi, talora osservando un radicale ritiro dal mondo. Asceti,
eremiti, indovini, poeti, ma in qualche caso anche consiglieri politici e
imperatori – Marco Aurelio fondò la sua grandezza su un esercizio umile e paziente
del potere, fuggendo le lusinghe mondane, aggrappandosi piuttosto all’integrità
morale che gli infondeva lo stoicismo. In una simile equilibrata mediazione tra
contatto umano e colloquio con se stesso scoprì la possibilità di sopravvivere
alle bassezze cortigiane, tanto che il suo mandato imperiale ne ebbe un indiscusso
prestigio.
I Persiani sono la più antica tragedia greca superstite.
Messi in scena nel 472 a. C., pochi anni dopo la battaglia di Salamina,
facevano parte di una tetralogia comprendente anche un Fineo, sulla
liberazione per mano degli Argonauti dell’omonimo personaggio del mito accecato
dalle Arpie. Nei Persiani il coro eschileo, formato dagli anziani reggenti della corte di
Susa, che fin dalla parodo si dice perplesso per un’impresa temeraria, insieme agli
altri presagi della disfatta persiana, sono elementi che conferiscono al
racconto un’inedita tensione in un crescendo di sconcerto che pervade
i protagonisti.
La
riflessione che qui introduciamo, nella difficoltà presente di comprendere quanto
sta accadendo e che quindi ci impedisce di tornare a noi stessi con la forza e
la lucidità necessarie, prova a offrire delle chiavi di lettura senza pessimismi
né giudizi sommari. Questa dunque la proposta di Alessia Rovina che vuole
così omaggiare i grandi del teatro classico greco traendo uno spunto per
sondare una condizione complessa che l’essere umano attraversa nelle differenti
circostanze del vivere. Ringraziandola per il suo intenso e articolato
contributo, le lasciamo la parola.
(Di Claudia Ciardi)
Praefatio
Di
Alessia Rovina
Se
dovessi compilare un personale lessico di questo cruciale e sempre più sfocato
momento umano e storico, non potrei prescindere da alcuni lemmi fondamentali.
Accanto ai primi vocaboli, emersi nella contingenza delle prime restrizioni – nella
mia Mantova arrivate con largo anticipo – come informatica, finestra,
sbigottimento, e a quelli che immediatamente sono seguiti nel frasario di
ciascuno – come: paura, lontananza, morte; ma anche: immaginazione, impegno,
ricostruzione – devo e voglio conferire un ruolo di indiscussa importanza ad
una parola in particolare, quella che per me più precipuamente connota questo
frangente: solitudine. Dovrei essere più precisa: la parola che a mio parere
connota l’esistenza umana, in particolar modo questi strani anni tra
postmodernismo e distopia, la cui concretezza si è più che mai dolorosamente
imposta con l’avanzare di un’emergenza sulle tante, quella sanitaria, che senza distinzione affligge il mondo,
e pertanto non è più identificabile nel totem di una sfortuna che colpisce solo
alcuni predestinati alla sofferenza.
La
solitudine, costante spauracchio per l’essere umano, non a caso il cucciolo del
regno animale che per più tempo ha bisogno delle cure materne, condizione
aborrita e pure misteriosamente seducente, spesso propizia per l’attuarsi di
quella cura morale che sperimenta, prima dell’armonia, le ferite del rivolgersi
solo a se stessi.
D’altro
canto, molteplici sono i volti di questa compagna: esiste una solitudine
ricercata più o meno consapevolmente con volontà autolesionista e distruttrice,
una solitudine causata dall’impossibilità altrui di comprendere, una solitudine
causata dall’inganno e dal tradimento, non solo estrinsechi, ma talvolta anche
intrinsechi: il tradimento della propria indole può causare effetti
tremendamente annichilenti. Esiste poi una solitudine universale, in cui si
constata l’impossibilità dell’autosufficienza umana, come accade alla Saffo del
frammento 168b Voigt, che nel notturno tramonto
della Luna e delle Pleiadi trova la sua incompletezza affettiva – rimane
insuperata la resa lirica di Salvatore Quasimodo del verso finale: «e io nel
mio letto resto sola»; ed esiste una solitudine convintamente ricercata in
quanto condizione di massima comunione con il
divino – forme di eremitismo sono note sin dall’antichità sia per le
religioni d’Oriente che per i monoteismi del Mediterraneo. Infine, esiste una
solitudine spietata e ancor poco trattata, per quanto in espansione tra i
giovanissimi, destinata a diventare oggetto di indagine alla luce della recente
necessità d’isolamento: il fenomeno hikikomori. Ebbene, un lemma, tantissime
sfumature, che abbiamo deciso di sondare in tre contributi attraverso la
genialità e la pregnanza dei tre grandi d’Atene – Eschilo, Sofocle ed Euripide
– dedicandoci monograficamente ad altrettanti personaggi drammatici, ciascuno
espressione di una diversa sfumatura di quella stessa solitudine che ciascuno
di noi, in modi differenti, sperimenta.
Il
nostro viaggio tra i meandri della psiche Antica e Moderna è animato dalla
convinzione che ogni status emotivo ed affettivo meriti ascolto – come
magistralmente hanno compreso i cantori che incontreremo – e in particolar modo
in questo momento, in cui si presenta a noi un grandissimo rischio, o una grandissima opportunità: dimenticarci che siamo creature
umane, o ricordarcene drasticamente.
Buon
Viaggio!
Un giorno d’inverno – Fotografia di Alessia Rovina ©
Declinazioni
di solitudine I: Serse
(I Persiani – Eschilo)
Di
Alessia Rovina
Per
la rubrica «L’Argonauta»
È
al 472 a.C. che risale la più antica opera teatrale a noi pervenuta. Luogo
della première è il grandioso Teatro di Dioniso di Atene, quel fulcro culturale
dell’Occidente da cui si irradieranno i capolavori dei Maestri della tragedia e
della commedia, nonché delle massime espressioni artistiche e poetiche di
sempre. Eppure, questa pietra angolare della tragedia rappresenta da subito una
grande sorpresa. Luogo della finzione teatrale non è la Grecia, bensì il centro
del potere orientale: Susa, il luogo simbolo di quella oscura popolazione
divenuta per l’Occidente emblema di perfidia, mollezza, lascivia e malvagità: i
Persiani. E proprio la tragedia omonima di Eschilo, Πέρσαι, Persiani,
vede il suo intreccio dipanarsi tra le stanze sfarzose della reggia Achemenide,
in cui si interrogano e si disperano gli attanti: il Coro degli uomini
Persiani, la regina Atossa, l’ombra di Dario il Grande, tutti legati nel loro
agire da un unico oggetto: il giovane sovrano Serse. Prima di scendere più in
profondità nel nostro personaggio eletto, non sfuggano a noi due fondamentali
considerazioni: anzitutto la datazione. I Persiani vengono rappresentati circa
sette anni dopo la definitiva sconfitta dell’impero persiano da parte
dell’Ellade – conosciamo bene gli effetti straordinari che questa vittoria
provocò da un punto di vista ideologico-culturale. Secondo poi, la totalità
degli attanti è rappresentata, appunto, dai Persiani stessi. Eschilo riesce a
costruire un’opera teatrale completamente focalizzata dal punto di vista del nemico,
raccontando con magnifico eloquio la disperazione dei genitori del giovane
Serse, i quali in un dialogo quanto mai significativo tratteggiano la cieca
volontà che spinge l’uomo alla distruzione, nel momento in cui dimentica di
dover sottostare a leggi universali ed imperscrutabili: soggetto del loro
lamento è proprio il figlio, Serse.
Serse,
il giovane erede di Dario il Grande, è all’unanimità indicato come perfetto exemplum
storico di tracotanza, e le tappe che lo portano al peccato di ὕβρις – il più
grave nell’orizzonte greco – sono delineate con precisione dallo «storico delle
Guerre Persiane», vale a dire Erodoto. All’interno del libro VII delle sue Storie
ha luogo un lungo focus sul fronte dei Persiani, occupati nello stabilire la
successione di Dario in un Egitto ribelle. Designato che fu Serse, in quanto
nipote di Ciro, lo storico riporta, a partire da VII, 5, la cronaca della
perversa discesa di Serse stesso verso il peccato, iniziata con la suadente e
strategica piaggeria di Mardonio, e a cui il giovane neo sovrano non saprà e
non vorrà opporre resistenza, inebriato com’è dalla possibilità di regnare su
ogni popolazione – Mardonio, seducendo e lusingando Serse, gli dirà che la
Grecia e l’Europa non son degne di alcun padrone, «se non il Grande Re»
(Erodoto, Storie, VII, 5). L’esaltazione inizia a pervadere il giovane
sovrano, e arriva a livelli di invasata magniloquenza nel momento in cui espone
all’assemblea, in un entusiastico crescendo, il suo intento di muovere
contro la Grecia (Storie, VII, 9-10). Allarmato dal pericoloso azzardo
del giovane regnante suo zio Artabano formula una risposta ponderata, volta a
riportare il buonsenso nell’animo di Serse, argomentando la prudenza con le
evidenze date dalla Storia – il popolo persiano conosceva già bene la tempra
dei Greci: «Evita il rischio di un tale pericolo, quando non ve n’è alcuna
necessità, ascoltami: […] con l’attesa ed il tempo le cose si fanno più
trasparenti, anche se ora non pare così.» (Storie, VII, 10). La saggezza
di Artabano, lontana dall’essere una manifestazione di vigliaccheria, è poi
corroborata dall’evocazione del grande topos ellenico: la gelosia divina
– φθόνος θεῶν – che non lascia scampo a chi mediti pensieri di superbia nel
proprio cuore.
La
preoccupazione familiare che emerge nel racconto erodoteo riecheggia nel
dialogo tra la regina Atossa, assalita dall’angoscia come gli altri genitori
che apprendono la triste sorte toccata ai valenti figli in terra straniera
(Eschilo, Persiani, v. 245), e l’ombra del defunto marito e sovrano,
Dario, il quale ebbe personalmente dolorosa esperienza dell’«indomabile» popolo
greco (v. 242). La regina esprime la propria invidia per il marito, poiché a
lui venne risparmiato di vedere la sciagura abbattutasi sul popolo persiano
presso Atene, e allo stupore di Dario, il quale domanda chi mai dei propri
figli abbia potuto condurre l’esercito fin là, Atossa significativamente
replica: «θούριος Ξέρξες, κενώσας πᾶσαν ἠπείρου πλάκα» – «È stato il focoso
Serse: ha svuotato tutte le plaghe del continente!» (v. 718). Dario, domandando
lungo quale via siano giunti i soldati sul continente, riceve l’agghiacciante
risposta: «Con dei macchinari [scil. Serse] aggiogò lo stretto di Elle,
per crearsi un passaggio», e così il defunto re si lascia andare al lamento: «È
arrivato a questo? Ha incatenato il potente Bosforo? […] Un demone
grande davvero deve averlo toccato, per farlo delirare in questo modo!» (vv.
722/725). Ecco il perno su cui si incardina l’apice della follia e dell’aggressiva
superbia di Serse: egli ha voluto prevalere con il suo orgoglio sulla natura dello stretto, aggiogando la materia
sacra con l’artificiale ponte di barche, in aperta blasfemia con l’imposizione
del limite che la divinità olimpica pone all’uomo. Non si fa attendere la
sciagura, e la punizione all’orgoglio e all’ostinazione di Serse sono tremendi,
amplificati in quanto con sempre maggior pervicacia egli ha voluto perseguire
la via della distruzione di sé e dei suoi compagni, tanto che egli, il giovane
sovrano umiliato e ferito, farà il proprio ingresso sulla scena solo al termine
dell’azione drammatica (v. 908), subendo le accuse del Coro, in quanto
irresponsabile esaltato che ha portato ad una assurda morte i suoi uomini,
mostrando tutto il doloroso effetto della propria superbia: egli è solo.
Così,
lacerato dall’assurdità di una follia che solo ora riesce a vedere nitidamente
nel suo nascere e nel suo innalzarsi, umiliato nel corpo e nello spirito,
rimane l’evidenza della sua solitudine. E Serse non ha che la forza di
piangere.
(Di Alessia Rovina, classicista, studiosa di teatro,
account
twitter: @rovina_alessia
22/01/2021)
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