10 febbraio 2021

Rivelazioni degli horti romani

 

Dimensione fisica ma ancor più dell’anima. Gli horti romani attraversati e coltivati in poesia da Natalia Stepanova, russa originaria di Saratov – capoluogo del distretto omonimo – dagli anni Settanta residente nella capitale italiana, sono uno spazio che appartiene sì alle architetture della città ma anche un rifugio spirituale, una culla del sé in cui curare le ferite, salvare la bellezza, difendere un sentire genuino contro l’incombere di tempi che raggelano.
L’orto dunque, originariamente il terreno in cui si coltivano piante commestibili, aromatiche, officinali e al contempo il luogo dell’otium, il recinto in cui gli optimates si ritiravano per trascorrere il proprio tempo libero, lontano dall’esercizio politico. Per i Romani l’idea di parco era un elemento essenziale nel paesaggio urbano, tanto che usavano allestire giardini perfino accanto ai mausolei e ai cimiteri. L’antica via Appia ne era costellata, e così i fori e le domus. Fu nell’età di Varrone (116 a.C.-27 a.C.) che lo scopo esclusivamente pratico dell’hortus venne superato, riservando una parte del terreno alla coltivazione di fiori per il culto degli dei e per onorare le tombe degli antenati. In epoca sillana (138 a.C.-78 a.C.) grazie alle accresciute condizioni economiche le ville rustiche posizionate nel suburbio o nelle campagne (villae) cominciarono a differenziarsi dalle dimore signorili della città che raggruppavano un insieme di edifici e di giardini. Ambienti sontuosi, quasi fiabeschi, della cui esistenza restano poche tessere sparse nel mosaico della storia e il cenno delle personalità che vi entrarono, protagonisti di quel glorioso momento.
Nella traslazione novecentesca diverranno il “pomario” di I limoni di Montale, eremo salvifico, suolo sacro per officiare il rituale poetico. La Stepanova abbraccia entrambe queste presenze, dall’antico alla metafisica crepuscolare dell’oggi, vagando tra le ombre del passato su cui Roma le offre viste gloriose e decadenti, e proiettando se stessa sugli sfondi di un divenire storico che sfugge, che invita ad aprire la porta a una qualche forma di trascendenza.
Come fa notare Giancarlo Pontiggia nella sua penetrante introduzione, «è poesia di giardini, di horti, anzi, dove il termine latino schiude a qualcosa di più intimo e remoto, sul quale si imprime il sigillo di una grande tradizione. […] Il riferimento al mondo augusteo non esprime solo un gusto figurativo, ma anche un’appartenenza poetica, se è vero che gli anni di Livia sono anche gli anni della grande poesia elegiaca d’amore di Tibullo e di Properzio, alla quale – più che a ogni altra vicenda poetica
sembra apparentarsi la poesia di Natalia». L’occasione è data dal lauretum «nell’antica casa di Livia» dove le piante spontanee prendono il posto di alberi monumentali, metafora di uno sguardo limpido e semplice, nel quale l’apparente fragilità cela piuttosto un’autentica radice di resistenza e tenacia dei sentimenti. E fra le vestigia della cultura antica, altri echi giungono dalla tradizione medievale a quella rinascimentale attorno all’immagine ricorrente della rosa; come non pensare alla “candida rosa” dantesca, visione angelica che protegge e innalza il cammino dell’uomo verso l’eterno, come non cogliere in controluce l’aulentissima rosa di Cielo dAlcamo e da qui le ballate di Poliziano.
Un affresco che nell’allegoria botanica racchiude e nutre una personalissima via all’ars poetica devota alla natura, al trascorrere delle stagioni, ai modi del presentire la vera bellezza, le ragioni del cuore, mentre talvolta le voci malevole portate da venti ostili scuotono e vorrebbero sradicare. Così i toni dell’autunno, il lento incedere dei trapassati, la freschezza della notte che reca ancora intatti i sogni del mondo, la premura posta nell’accompagnare i cicli del proprio giardino perché le mimose e i nuovi arbusti non siano sorpresi dal gelo – altra metafora della salvezza dell’essere – si compongono in una liturgia attraverso cui la poetessa intende edificare il tempio della propria redenzione terrena. Perché scarna, disadorna è la religione della poesia, cammina silenziosa a piedi nudi e chi vuole afferrarla bisognerà che proceda con passo uguale.
Mi commuove leggere qui una delle più intense poesie della Stepanova in cui la viva potenza di questa divinità si rivela pienamente nel suo aspetto dimesso. 

Nel suo percorso linguistico Natalia Stepanova che scrive e pubblica le proprie raccolte poetiche in italiano – si ricordi anche Il sentimento barbaro (La Vita Felice, 2014), commossa ricerca di un’origine sentimentale – non vive affatto come dissidio la compresenza dei due idiomi, quello della nascita e l’altro adottivo. Esempio perfetto di tale sintesi è la bellissima poesia dedicata alla lingua che non è madre ma sorella, alla lingua che si fa hortus a sua volta, giardino incantato, patria degli affetti incontrati dove si è scelto di vivere, dove ci sono i nomi delle cose che si amano.
Membro della giuria internazionale del premio Puškin, attiva nella traduzione di opere italiane per l’editoria russa, la sensibilità di Natalia è senz’altro uno dei fiori più affascinanti nel panorama lirico contemporaneo.   

(Di Claudia Ciardi)     


Resti della Villa di Livia a Prima Porta

 

Testi scelti

A dirotto, autunno, piove.
In mezzo agli uliveti stanno
le anime dimentiche dei morti.
La pioggia lava dai remoti corpi
ogni nefanda faccenda umana:
«Era il giorno che fummo soli».
E loro di sangue e cuore
vorrebbero
corpo e carne restare.
Autunno. Piove.
Vedo gli occhi dei morti
nei campi e lungo la strada,
gli occhi fissi dei morti
a guardare la pioggia.


*********


Ho i fiori negli occhi
di primavera
che di nulla si duole,
di nessuna tramontana
che la precede,
presagendo
l’aria che traspare
e i nitidi contorni
ho negli occhi.

E non fiorirà quest’anno
il vecchio albicocco –
ha sofferto
la neve improvvisa
che sorprese
la mimosa, e il gelo
sulle piccole violette
del nostro giardino.

Ma chi guarda
ha i fiori negli occhi
e di primavera
ha i lunghi capelli,
impigliati nel vento.

*********

All’ombra
del sepolto fiore
le ore in attesa
languono,
arde la legna
nel camino.
Piove. Dicembre.
Io – vento.
Una pioggia lenta
che tedia
il giorno intero,
avvolge gli occhi che
non ne hanno colpa
e solo il corvo
ogni tanto chiama.
Nel cielo nero – notte.
Sulla via lattea,
distratte,
le anime vanno.
Lunare – io.
Non odo voci.



*********


Forse non ho più il sangue giovane
nelle vene delle mani che tutto fanno
o forse sono i demoni nella mia testa
che si divertono a far cadere le cose,
ogni tanto mi passano accanto e
li vedo nelle stanze – ombre chiare.
Che strano, i demoni dovrebbero essere
creature malevolmente ostili e tragiche,
i miei demoni invece sono chiari
e trasparenti – si divertono della goffaggine
delle mie mani, facendo cadere le cose.
Assolutamente piace loro rompere
i calici da vino e il vetro in genere.
Quando particolarmente mi esasperano
lascio loro un calice di vino rosso
sul tavolo di quercia e dormo serena.
I miei bravi cani vegliano il mio sonno
e all’occorrenza scacciano i demoni
in un gioco tutto loro, ah, non ho più
il sangue giovane nelle vene delle mani
e faccio fatica a giocare con i demoni.


*********

Abito il fondo del mare antico;
qui la montagna è carsica
e nel mio orto un tempo
vi erano gli abissi impenetrabili
e i pesci vi sfilavano come
in un grande oceano blu.
Ora ci siamo noi e gli alberi
e quando il vento soffia forte
e smuove le querce altissime
si ode il rumore possente
di una tempesta e s’infrangono
le foglie contro il cielo, si odono
le grida dei gabbiani marini
e noi stiamo qui, in fondo,
tra le anime antiche che
quando soffia il vento forte
fanno ritornare in vita il mare
con i suoi abissi e la sua gente.


*********


La lingua in cui scrivo
non mi è madre né matrigna,
la lingua in cui scrivo è
della terra dove vivo ed è
la lingua di tutte le creature
che vedo al mio risveglio
e delle cose che amo.
Essa così è la lingua degli avi
e della legge scritta.
No, non mi è madre
la lingua in cui scrivo,
come dicono i dotti
che l’hanno studiata
né mi è matrigna.
Essa, nel tempo lontano,
mi apparve in dono sorella,
e mentre scrivo queste righe
già un trattore ara la terra
e l’aroma di caffè
mi riporta tra i vivi.
La lingua in cui scrivo
i miei versi
mi apparve in dono sorella
per volere e scelta di Poesia.



*********

Il vento d’autunno in foglie,
vorticando, freddo si posa
e polveri scaramantiche di cui va,
spira chimere di nebbie nordiche
e gli odori di terra umida e fumo.
Scioglie la chioma azzurrognola
dei miei capelli e addormenta
il campo spoglio e malinconico
che parole da dire non ha e cala
il sole all’orizzonte porpora e
strema all’imbrunire i corvi,
dalle penne nere e lucide,
a custodire i miei chiari giorni.
Non fate morire, vi prego,
nel vostro giardino l’ultima rosa,
il vento su pietre del fiume incide
formule esatte di protezione.


*********

Lungo il recinto
del confine
abbiamo piantato
l’alloro odoroso
e gli alberi di lauro
nel giardino, come
nell’antica casa di Livia.

Nulla posseggo
su questa terra –
né abeti né cipressi,
che ho voluto
negli horti d’inverno,
e si spera che
non nevichi domani.

Auguro loro
di crescere alti
e di allietare gli occhi
di chi verrà dopo
e che non muoiano
le rose che ho amato
e le mimose
siano forti in fiore
e non temano la neve.

Il mio cuore della terra
sia sempre profondo
e sia lieto
il mio pensiero di loro.


Natalia Stepanova, Degli horti romani, prefazione di Giancarlo Pontiggia, Ensemble, 2019


Affresco del ninfeo sotterraneo della Villa di Livia


Si veda anche:


Gli horti privati
Sul sito “romano impero.com”


Pierre Grimal, I giardini di Roma antica, Garzanti, 2000

Sulla Villa di Livia, all’interno del Parco comunale di Prima Porta (Roma) – Visite su prenotazione – raggiungibile con treno urbano da Roma, Piazzale Flaminio/Euclide, Ferrovie Roma

* La villa costituisce un classico esempio delle abitazioni extra-urbane concepite come proprietà terriera destinata sia ad attività produttiva sia a residenza di riposo e di otium, inteso come allontanamento dalle frenetiche attività cittadine, unito al desiderio di coltivare studi ed interessi.

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