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fisica ma ancor più dell’anima. Gli horti romani attraversati e coltivati in
poesia da Natalia Stepanova, russa originaria di Saratov – capoluogo del distretto omonimo – dagli
anni Settanta residente nella capitale italiana, sono uno spazio che appartiene
sì alle architetture della città ma anche un rifugio spirituale, una culla del
sé in cui curare le ferite, salvare la bellezza, difendere un sentire genuino contro
l’incombere di tempi che raggelano.
L’orto
dunque, originariamente il terreno in cui si coltivano piante commestibili,
aromatiche, officinali e al contempo il luogo dell’otium, il recinto in
cui gli optimates si ritiravano per trascorrere il proprio tempo libero,
lontano dall’esercizio politico. Per i Romani l’idea di parco era un elemento
essenziale nel paesaggio urbano, tanto che usavano allestire giardini perfino
accanto ai mausolei e ai cimiteri. L’antica via Appia ne era costellata, e così
i fori e le domus. Fu nell’età di Varrone (116 a.C.-27 a.C.) che lo
scopo esclusivamente pratico dell’hortus venne superato, riservando una parte
del terreno alla coltivazione di fiori per il culto degli dei e per onorare le
tombe degli antenati. In epoca sillana (138 a.C.-78 a.C.) grazie alle
accresciute condizioni economiche le ville rustiche posizionate nel suburbio o
nelle campagne (villae) cominciarono a differenziarsi dalle dimore
signorili della città che raggruppavano un insieme di edifici e di giardini. Ambienti
sontuosi, quasi fiabeschi, della cui esistenza restano poche tessere sparse nel
mosaico della storia e il cenno delle personalità che vi entrarono,
protagonisti di quel glorioso momento.
Nella
traslazione novecentesca diverranno il “pomario” di I limoni di Montale,
eremo salvifico, suolo sacro per officiare il rituale poetico. La Stepanova
abbraccia entrambe queste presenze, dall’antico alla metafisica crepuscolare
dell’oggi, vagando tra le ombre del passato su cui Roma le offre viste gloriose
e decadenti, e proiettando se stessa sugli sfondi di un divenire storico che
sfugge, che invita ad aprire la porta a una qualche forma di trascendenza.
Come
fa notare Giancarlo Pontiggia nella sua penetrante introduzione, «è poesia di
giardini, di horti, anzi, dove il termine latino schiude a qualcosa di più
intimo e remoto, sul quale si imprime il sigillo di una grande tradizione. […]
Il riferimento al mondo augusteo non esprime solo un gusto figurativo, ma anche
un’appartenenza poetica, se è vero che gli anni di Livia sono anche gli anni
della grande poesia elegiaca d’amore di Tibullo e di Properzio, alla quale –
più che a ogni altra vicenda poetica – sembra apparentarsi la poesia di Natalia».
L’occasione è data dal lauretum «nell’antica casa di Livia» dove le
piante spontanee prendono il posto di alberi monumentali, metafora di uno
sguardo limpido e semplice, nel quale l’apparente fragilità cela piuttosto
un’autentica radice di resistenza e tenacia dei sentimenti. E fra le vestigia
della cultura antica, altri echi giungono dalla tradizione medievale a quella
rinascimentale attorno all’immagine ricorrente della rosa; come non pensare
alla “candida rosa” dantesca, visione angelica che protegge e innalza il
cammino dell’uomo verso l’eterno, come non cogliere in controluce l’aulentissima
rosa di Cielo d’Alcamo e da qui le ballate di Poliziano.
Un
affresco che nell’allegoria botanica racchiude e nutre una personalissima via all’ars
poetica devota alla natura, al trascorrere delle stagioni, ai modi del
presentire la vera bellezza, le ragioni del cuore, mentre talvolta le voci
malevole portate da venti ostili scuotono e vorrebbero sradicare. Così i toni
dell’autunno, il lento incedere dei trapassati, la freschezza della notte che
reca ancora intatti i sogni del mondo, la premura posta nell’accompagnare i
cicli del proprio giardino perché le mimose e i nuovi arbusti non siano sorpresi
dal gelo – altra metafora della salvezza dell’essere – si compongono in una
liturgia attraverso cui la poetessa intende edificare il tempio della propria redenzione terrena. Perché scarna, disadorna è la religione della poesia, cammina silenziosa a piedi nudi e chi vuole afferrarla bisognerà che proceda con passo uguale. Mi commuove leggere qui una delle più intense poesie della Stepanova in cui la viva potenza di questa divinità si rivela pienamente nel suo aspetto dimesso.
Membro della giuria internazionale del premio Puškin, attiva nella traduzione di opere italiane per l’editoria russa, la sensibilità di Natalia è senz’altro uno dei fiori più affascinanti nel panorama lirico contemporaneo.
(Di
Claudia Ciardi)
Resti della Villa di Livia a Prima Porta
Testi
scelti
A
dirotto, autunno, piove.
In
mezzo agli uliveti stanno
le
anime dimentiche dei morti.
La
pioggia lava dai remoti corpi
ogni
nefanda faccenda umana:
«Era
il giorno che fummo soli».
E
loro di sangue e cuore
vorrebbero
corpo
e carne restare.
Autunno.
Piove.
Vedo
gli occhi dei morti
nei
campi e lungo la strada,
gli
occhi fissi dei morti
a
guardare la pioggia.
*********
Ho i fiori negli occhi
di
primavera
che
di nulla si duole,
di
nessuna tramontana
che
la precede,
presagendo
l’aria
che traspare
e
i nitidi contorni
ho
negli occhi.
E
non fiorirà quest’anno
il
vecchio albicocco –
ha
sofferto
la
neve improvvisa
che
sorprese
la
mimosa, e il gelo
sulle
piccole violette
del
nostro giardino.
Ma
chi guarda
ha
i fiori negli occhi
e
di primavera
ha
i lunghi capelli,
impigliati
nel vento.
*********
All’ombra
del sepolto fiore
le
ore in attesa
languono,
arde
la legna
nel
camino.
Piove.
Dicembre.
Io
– vento.
Una
pioggia lenta
che
tedia
il
giorno intero,
avvolge
gli occhi che
non
ne hanno colpa
e
solo il corvo
ogni
tanto chiama.
Nel
cielo nero – notte.
Sulla
via lattea,
distratte,
le
anime vanno.
Lunare
– io.
Non
odo voci.
*********
Forse
non ho più il sangue giovane
nelle
vene delle mani che tutto fanno
o
forse sono i demoni nella mia testa
che
si divertono a far cadere le cose,
ogni
tanto mi passano accanto e
li
vedo nelle stanze – ombre chiare.
Che
strano, i demoni dovrebbero essere
creature
malevolmente ostili e tragiche,
i
miei demoni invece sono chiari
e
trasparenti – si divertono della goffaggine
delle
mie mani, facendo cadere le cose.
Assolutamente
piace loro rompere
i
calici da vino e il vetro in genere.
Quando
particolarmente mi esasperano
lascio
loro un calice di vino rosso
sul
tavolo di quercia e dormo serena.
I
miei bravi cani vegliano il mio sonno
e
all’occorrenza scacciano i demoni
in
un gioco tutto loro, ah, non ho più
il
sangue giovane nelle vene delle mani
e
faccio fatica a giocare con i demoni.
*********
Abito
il fondo del mare antico;
qui
la montagna è carsica
e
nel mio orto un tempo
vi
erano gli abissi impenetrabili
e
i pesci vi sfilavano come
in
un grande oceano blu.
Ora
ci siamo noi e gli alberi
e
quando il vento soffia forte
e
smuove le querce altissime
si
ode il rumore possente
di
una tempesta e s’infrangono
le
foglie contro il cielo, si odono
le
grida dei gabbiani marini
e
noi stiamo qui, in fondo,
tra
le anime antiche che
quando
soffia il vento forte
fanno
ritornare in vita il mare
con
i suoi abissi e la sua gente.
*********
La
lingua in cui scrivo
non
mi è madre né matrigna,
la
lingua in cui scrivo è
della
terra dove vivo ed è
la
lingua di tutte le creature
che
vedo al mio risveglio
e
delle cose che amo.
Essa
così è la lingua degli avi
e
della legge scritta.
No,
non mi è madre
la
lingua in cui scrivo,
come
dicono i dotti
che
l’hanno studiata
né
mi è matrigna.
Essa,
nel tempo lontano,
mi
apparve in dono sorella,
e
mentre scrivo queste righe
già
un trattore ara la terra
e
l’aroma di caffè
mi
riporta tra i vivi.
La
lingua in cui scrivo
i
miei versi
mi
apparve in dono sorella
per
volere e scelta di Poesia.
*********
Il
vento d’autunno in foglie,
vorticando,
freddo si posa
e
polveri scaramantiche di cui va,
spira
chimere di nebbie nordiche
e
gli odori di terra umida e fumo.
Scioglie
la chioma azzurrognola
dei
miei capelli e addormenta
il
campo spoglio e malinconico
che
parole da dire non ha e cala
il
sole all’orizzonte porpora e
strema
all’imbrunire i corvi,
dalle
penne nere e lucide,
a
custodire i miei chiari giorni.
Non
fate morire, vi prego,
nel
vostro giardino l’ultima rosa,
il
vento su pietre del fiume incide
formule
esatte di protezione.
*********
Lungo
il recinto
del
confine
abbiamo
piantato
l’alloro
odoroso
e
gli alberi di lauro
nel
giardino, come
nell’antica
casa di Livia.
Nulla
posseggo
su
questa terra –
né
abeti né cipressi,
che
ho voluto
negli
horti d’inverno,
e
si spera che
non
nevichi domani.
Auguro
loro
di
crescere alti
e
di allietare gli occhi
di
chi verrà dopo
e
che non muoiano
le
rose che ho amato
e
le mimose
siano
forti in fiore
e
non temano la neve.
Il
mio cuore della terra
sia
sempre profondo
e
sia lieto
il
mio pensiero di loro.
Natalia
Stepanova, Degli horti romani, prefazione di Giancarlo Pontiggia, Ensemble,
2019
Affresco del ninfeo sotterraneo della Villa di Livia
Si veda anche:
Gli horti privati – Sul sito “romano impero.com”
Pierre Grimal, I giardini di Roma antica, Garzanti, 2000
Sulla Villa di Livia, all’interno del Parco comunale di Prima Porta (Roma) – Visite su prenotazione – raggiungibile con treno urbano da Roma, Piazzale Flaminio/Euclide, Ferrovie Roma
* La villa costituisce un classico esempio delle abitazioni extra-urbane concepite come proprietà terriera destinata sia ad attività produttiva sia a residenza di riposo e di otium, inteso come allontanamento dalle frenetiche attività cittadine, unito al desiderio di coltivare studi ed interessi.
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